Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

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Capo XV.

Verso il Kaffa. — Le acque termali di Keccio. — Una rivelazione. — Un ponte singolare sul Goggèb. — Nel Regno misterioso di Kaffa. — Il flagello d’ortiche. — In cerca della pecorella smarrita. — Apparizione di Gabriele. — Il ritorno — I fervori del secondo Gabriele. — Riparazione condegna. — A Tadmara. — Che cos’è il tabot? — Lo zelo del convertito.

All’alba del 29 settembre 1859 ogni cosa era pronta per la partenza della carovana che contava in tutto ventisette persone. Traversata una pianura ricca di maturo caffè e quindi una maestosa foresta, la sera del primo giorno si giunse al villaggio di Keccio, rinomato per le sue acque termali; la sorgente è tanto calda, che scuoiate alcune pecore e immersele dentro in cinque minuti ne l’ebber ritratte abbastanza cotte. Quest’acqua s’adopra dagli indigeni come eccellente purgante, e altresì come efficace rimedio contro le artritidi.

Fatta un po’ di cena, ciascuno si ritirò alla sua tenda per riposare; che davvero ne sentivano il bisogno. Anche il nostro monsignore stava per allet- /165/ tarsi, quando gli si fece innanzi il buon Gabriele chiedendogli quando finalmente sarebbe anche a lui concessa la grazia della comunione. Ah padre, aggiunse, svelandogli un segreto, quando il nostro Gabriele ancora viveva, assistendo io tuttora mussulmano alla S. Messa, vidi cosa che m’ebbe messo un desiderio immenso di ricevere anch’io il Signore. Mentre voi cogli occhi umidi di pianto scendevate dall’altare per dare Gesù al buon Gabriele, io vidi dalle vostre mani uscire due lunghe fiamme che, poscia, comunicato il giovane, avvolsero lui siffattamente che io temeva nell’accostarmegli di essere incenerito. Padre, quando sarà dato anche a me di ricevere Gesù?... Si può immaginare come ne rimanesse commosso il nostro missionario, che per quel momento lo confortò a sperare, che, come prima gli fosse possibile, ne l’avrebbe soddisfatto.

Ripartiti sull’alba, due ore dopo giunsero al Goggèb, fiume che dopo aver separato a settentrione il regno di Kaffa d’a quei di Ghera e di Gemma Kaka e di aver ricevuto il tributo di parecchi altri fiumi va a scaricarsi a levante nell’Omo. — Quivi dovettero tragittare il fiume sopra uno strano e pauroso ponte. Da una riva all’altra i selvaggi avevano tesa come una stuoia intrecciata di liane, fornita d’ambi i lati d’una specie di parapetto dello stesso materiale e mascherato di verzura per dar maggior sicurezza e togliere l’orrore ai passanti. Questo strano ponte, su cui passando pareva di ondeggiare sulle acque, misurava nientemeno che dieci metri e dall’un capo e dall’altro era assicurato, ossia le liane, a due grossi tronchi d’albero. Sopra di esso tragittarono l’uno dopo l’altro il Goggèb. Riposarono la notte sopra un’al- /166/ tura a qualche distanza dal fiume e la mattina, congedato il buon abba Tabacco e i suoi compagni, ripresero il cammino e dopo due ore di salita furono alla porta del regno di Kaffa.

È da sapere che il territorio del regno di Kaffa è circondato tutto all’intorno per un giro di molti chilometri da un fosso largo da quattro a cinque metri, ne v’è altra via d’entrarvi che questa della porta. Quivi giunti e date le informazioni necessarie al kella o custode vennero introdotti nel recinto, dove trovarono abba Iacob che premurosamente li attendeva. Furono tosto allogati in alcune capanne e provvisti di vitto; alcune pecore, un po’ di pane di grano pel vescovo e pane di cocciò per la carovana. Così passò la prima giornata. Venuta la sera, avendo il nostro missionario osservato come il buon Gabriele se ne stesse tutto afflitto lo richiese del motivo. Il giovane, dopo un po’ d’esitazione, ah, padre, disse, ve l’ho a dire? mi hanno riferito che anche voi siete venuto qui per prendere moglie. Sì? gli fece il Massaia; ebbene vuoi conoscerla? Va a prendere un mazzo di ortiche e portamelo. Avutolo e denudatosi le spalle, adesso, gli disse, flagellami ben bene, senza misericordia. Gabriele confuso esitava. Flagellami, gli replicò il vescovo in tono di comando: quegli dovette obbedire. Finita quella poco dilettevole cerimonia, ecco, gli disse, la mia sposa, la santa mortificazione, e gli mostrò ancora la disciplina che come cappuccino sempre portava seco. Il giovane per tutta risposta diede in un gran pianto e indi corso fuori ne ritornò tosto con un secchio d’acqua per refrigerargli il bruciore delle ortiche. Ma il Massaia la sparse per terra. Gabriele restò anche più confuso, ammirato. La cosa /167/ presto si divulgò e venne anche alle orecchie della corte che ne ricevette edificazione.

Al mezzodì del giorno seguente avendo ricevuto da un corriere reale il permesso anzi l’invito di muovere verso la capitale, si misero in via e per strade fangose e difficili e sotto una pioggia che diluviava giunsero alla seconda porta da cui si dipartono altri due fossati che accerchiano il territorio. Ammessi in questa seconda porta trovarono anche qui alcune capanne dove sostettero. La mattina seguente il nostro vescovo non avendo potuto, per mancanza di vino, celebrare la S. Messa, radunò i famigliari e tenne loro un sermone esponendo (ciò che del resto avevano già subodorato) il fine di questo viaggio, la conversione del disgraziato suo discepolo, il padre Cesare. Ed estremamente commosso conchiudeva: «Gesù mio, o rendetemi il disgraziato figlio o toglietemi da questo mondo, e se per l’espiazione del suo peccato richiedesi il mio sangue, eccomi pronto a spargerlo ed offrirlo alla divina giustizia insieme col vostro!». Alle quali parole, tutti in coro gridarono: padre sì, ancor noi pregheremo, piangeremo; ci flagelleremo con voi finchè non avremo ottenuta la grazia. E tennero la parola; pregarono tutto quel giorno e la mattina seguente sui loro giacigli furon trovati dei mazzi d’ortiche: l’esempio del maestro era stato imitato dai suoi discepoli!

Il giorno seguente una buona notizia venne a confortare l’animo amareggiato del nostro Massaia. Padre, gli disse Gabriele, stanotte mentre me ne stavo a giacere sur un fascio d’ortiche, ecco apparirmi, bello e splendente come un angelo del Paradiso, il nostro Gabriele, il quale prendendomi /168/ la mano mi disse: il nostro padre è molto turbato; ma fagli animo, che tra poco vedrete quel che succederà. Intanto sappigli dire che il padre Cesare non è meno turbato di lui e presto tornerà pentito nelle sue braccia. Ciò detto, stampatomi un caldo bacio in fronte, sparì, lasciandomi tale dolcezza in cuore che non saprei dire.

La dimane ecco arrivare un corriere che li invita a portarsi alla real villeggiatura in Anderacia, donde sarebbero mossi per recarsi all’udienza del Tatu, come chiamasi colà il re. Anche questo viaggio si fece per vie difficili e sotto un torrente di pioggia; finalmente arrivati si sperava di essere immediatamente introdotti, ma col pretesto che erano troppo stanchi della fatica del viaggiare, fu loro detto che sarebbero ricevuti in altro giorno. S’accorse da questo il nostro Massaia che molte difficoltà si venivano a frapporre da intriganti all’esecuzione delle promesse fatte da abba Baghibo in favor suo: e però vedendo come nulla più fosse da fidare nei mezzi umani, radunati i famigliari, tenne loro un commovente discorso annunziando si sarebbe fatto un ottavario di preghiere e di penitenze. E difatti vi si diede principio quel giorno stesso, ed era mirabile a vedere il fervore di quei neofiti: non si volevano più cibar d’altro che di cattivo pane di cocciò, nè altra bevanda più prendere che un po’ di birra, lasciando l’idromele che loro era offerto; di notte poi, dopo aver pregato lunghe ore, ponevansi a giacere o sopra uno strato d’ortiche o sopra fascine di sterpi.

Intanto il re non mostrava di ricordarsi dell’udienza; mandava invece giorno e notte delle persone a spiare quel che dalla famiglia del missio- /169/ nario si facesse e si dicesse, e, quel ch’è peggio, tese un tranello per fare prevaricare anche loro. Ma questi nonché vacillare per se duravano costanti nella preghiera e nelle penitenze per convertire il traviato. E queste dovevano alfine trovare ascolto presso il trono della misericordia divina e trionfare della ostinazione del povero padre Cesare.

Una sera mentre in mezzo ai suoi il buon vescovo sfogava in pianto il suo animo angosciato, chiamandosi pronto a dar la vita per la salute di quel figliuolo ribelle, ecco entrare nella capanna, avvolta il capo in una tela, una figura di persona che avanzatasi fin presso al Massaia improvvisamente s’inginocchia e abbracciandogli i piedi e baciandoglieli e bagnandoglieli di calde lacrime si ferma poi lì muta e intontita come statua senza nulla dire. Chi siete voi? le dice il vescovo. Chi siete voi? le replica, non avendo avuto risposta. Allora quella figura di persona misteriosa, scoppiando in lacrime, ah! consolatevi, padre, gli grida, io sono l’apostata Cesare! E non potè più continuare. A quelle parole, a quelle rivelazioni il Massaia stette lì alcuni minuti come trasognato, e con lui tutta la famiglia; la commozione e l’allegrezza avean lor tolta la parola, e, quasi dissi, i sensi.

A festeggiare una sì stupenda conversione si volle il giorno dopo imbandire una cena abbondante, ma tale era la contentezza d’ognuno che si mangiò meno del solito. Venuta la notizia della conversione alle orecchie della corte, questa, che aveva interesse alla continuazione di quel disgraziato scandalo, ne fu costernata, e tosto il re fece chiamare il padre Cesare per sentire da lui stesso /170/ il netto della cosa e forse anche coll’intento di farlo ricadere nella rete. Ma questi che era sinceramente convertito, dichiarò invece aperto innanzi a lui ed ai suoi consiglieri ivi radunati, che detestando con dolore la passata sua vita intendeva d’ora avanti a qualunque costo mantenersi fedele a’ suoi nuovi propositi. Non c’era per loro che rassegnarsi; la lor partita era vinta; l’abuna con le sue preghiere (così ebbe a dire il re a’ suoi) aveva mandato a monte le loro insidie.

Si venne adunque alle pratiche con mons. Massaia per le cose della missione che si conchiusero di comune accordo. Tra l’altro erano concesse alla missione alcune case in Tadmara e in Sciàp; tutti i preti cristiani (intendi eretici) dipenderebbero dall’abuna cattolico, il quale perciò avrebbe autorità legittima sopra di loro. Il 15 ottobre 1859 tutta la famiglia del vescovo (un quaranta persone) andò a prendere possessesso delle case di Tadmara. È questo un villaggio che sorge come un nido di rondini sul ciglio di un monte dal quale si gode una prospettiva incantevole. A oriente una serie di colline che gradatamente elevandosi vanno a finire alle più alte montagne dell’Etiopia: a occaso i monti della capitale Bonga che man mano degradando si van perdendo nella gran valle del Goggèb; da un altro lato l’occhio in fine spazia libero per una estesa pianura fino al lontano villaggio di Afallo e alla capitale di Ghera, Ciala.

Data tosto mano alla costruzione di altre capanne e di una chiesetta, in breve si condussero i lavori a termine. Voleva monsignore celebrare una messa in ringraziamento a Dio per la grazia ottenuta, ma gli mancava il vino; senonchè in buon /171/ punto il padre Cesare risovvenissi rimanergli tuttavia una bottiglia di vino che teneva presso di se da ben dodici anni. Sturatala, fu trovato eccellente e si potè così celebrare la Messa, durante la quale fu finalmente concesso al buon Gabriele di partecipare cogli altri alla S. Comunione. Tale fu la gioia provata dal caro neofita in quel momento che nell’entusiasmo della riconoscenza non potè tenersi dal gridare ad alta voce: «O Signore, che posso mai io rendervi in contraccambio di tanta grazia? Ecco, o Signore, che da questo momento io vi consacro tutto me stesso». E fu poi fedele alla sua promessa.

Tornando al padre Cesare, questi rimaneva tuttavia escluso dai sacramenti e dalle pubbliche preghiere, finchè non fosse stato prosciolto dalle censure. Per questa funzione della riconciliazione, affinchè riuscisse più solenne e nel popolo più salutare, si scelse il 24 di ottobre, giorno di festa per quei luoghi, come votivo di S. Giorgio colà molto in venerazione. In detto giorno adunque nella chiesa dedicata appunto a questo santo dove per tre anni l’infelice apostata aveva esercitato il ministero quale prete eretico, ebbe luogo la suddetta funzione. Dinnanzi alla porta, siccome indegno di entrarvi, in attitudine di peccatore, con un sasso legato al collo, stava il padre Cesare, umilmente supplicando ai fedeli che entravano a raccomandarlo nelle loro preghiere al Signore e a ottenergli misericordia. Monsignor Massaia pontificalmente vestito si rivolse al popolo e tenne loro un discorso sulla gravità della funzione che stava per compiere. Udita quindi l’abiura del padre Cesare e il suo proposito di voler d’ora avanti riparare al male fatto, leg- /172/ germente lo percosse a più riprese col pastorale, indi abbracciatolo affettuosamente gli diede il bacio del perdono. Erano il figliuol prodigo e il padre amorevole che dimenticavano in quell’istante le passate ansietà per ricordarsi solo della reciproca letizia presente.

Abbiamo accennato alla festa votiva di San Giorgio: questo ci suggerisce di narrare di una usanza di quei luoghi e di quegli eretici. Quando alcuno vuole ottenere una grazia va a raccomandarsi al prete che uffizia quella chiesa, il quale, consultato il tabot (specie di tavoletta che contiene il nome del santo titolare e che da quei superstiziosi credesi parli col prete), fa nota al richiedente l’offerta necessaria per ottenere una tal grazia. E questa d’ordinario è ora un bue, ora una pecora, che vien recata alla chiesa ed ivi scannata e divisa in tre parti, di cui una tocca all’offerente medesimo, l’altra al procuratore della chiesa e la terza al prete: una reminiscenza degli antichi sacrifizi mosaici.

Compiuta l’immolazione, il prete si reca alla porta della chiesa dove riceve le ordinarie oblazioni di candele e di incenso. Indi incensa il tabot e, accese le candele, mentre queste si consumano, il popolo ed il prete gridano ad alta voce: Ta Kedùs Ghiorghis, nè gallato beta! Ti ringrazio, S. Giorgio mio!

Tornando al nostro padre Cesare, per riparare agli scandali della vita passata, col consenso del suo vescovo, andò col suo compagno abba Iacob a predicare otto giorni di missione in ciascuna delle sette chiese, o vicarie, diremmo noi, di quel regno, dappertutto con amare lacrime deplorando i suoi falli /173/ e mostrando alla prova di uri ardente zelo la sincerità della sua conversione. Il frutto di queste missioni furono mille battesimi di fanciulli inferiori ai tre anni, molte confessioni e comunioni e parecchie benedizioni di matrimonii.

A proposito della caduta e della conversione del padre Cesare, assurgendo a idee d’indole generale il nostro fa queste osservazioni: «Si è ammirato e si ammirerà sempre che la divina Provvidenza guida e conduce la sua Chiesa per vie a noi interamente misteriose ed inesplicabili; e nelle tempestose vicende e fiere battaglie di essa si è sempre visto che allora è dato sperare, quando sembra perduta ogni speranza; che allora è certa la vittoria, quando si crede imminente la sconfitta; che nella morte si trova il principio di nuova vita. Ma mentre sto scrivendo si grida che il leone di Giuda sempre vincitore sta per cader vinto; che Dio, religione e Chiesa sono agli ultimi aneliti; che le porte dell’inferno finalmente prevarranno e che la vittoria può ormai dirsi certa per Satana. Ma io che vivo di fede e che ho visto passare sopra di me, di tanti altri credenti e intere cristianità bufere e uragani non meno fieri e spaventosi, e dileguarsi, lasciando con l’iride della pace il trionfo dell’ordine, oggi comincio a sperare per la Chiesa e mi tengo certo della vittoria».

«I trionfi della Chiesa, le vittorie di Dio, scrive in altro luogo, non si riportano con combattimenti di giorni, di mesi, di anni, bensì di secoli».