Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

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Capo XVI.

Le tre caste di Kaffa. — I Mangiò. — La schiavitù. — Usi e costumi kaffini. — Il treno di mons. Massaia. — Pane cattivo e caffè buono. — Industrie kaffine. — Cattive notizie da Ghera. — La morte del convertito. — Le cerimonie del gran pianto. — La tenuta di Sciàp. — Singolare visione. — Mons. Massaia dal re; curioso ricevimento. — Una decisione teologica. — Morte di monsignor De Iacobis.

Non saranno inutili qui alcuni cenni sulle varie caste onde si compone la popolazione di Kaffa (allora un 400 mila abitanti), sui loro costumi, sulle loro condizioni materiali e politiche. La prima casta è quella dei Kafficiò, indigena e pagana, la quale crede in un grande spirito che chiama Deoce, e ha per sacerdoti una gerarchia di maghi, il cui capo ha press’a poco tanta potenza nello spirituale quanto il re nel temporale. In esso credesi superstiziosamente risieda lo spirito di Deoce. La seconda casta, eguale in numero alla prima, è l’amarico tigrina, sopravvenuta in antico dall’Abissinia. Questa è cristiana, e ha tanta autorità che obbliga /175/ il re a provvederla di preti eretici abissini; anzi il re deve essere di questa casta; ma però salito al trono deve passare a quella dei Kafficiò. Abbiamo detto che la razza amarica è cristiana, ma veramente di cristiano ha poco più del nome. Nati infatti, invece di essere battezzati, sono circoncisi, ricevendo poi una specie di battesimo ogni anno nel giorno dell’Epifania. In detto giorno la gente scende a stuoli nel vicino fiume e spruzzandoli il loro prete eretico di acqua e pronunziando su di loro le parole: besma ab, sedich: nel nome del Padre santo, restano bell’e battezzati, cioè, secondo validità, niente affatto battezzati. Fanno però molti giorni di rigoroso digiuno, come gli Abissini, e osservano le domeniche e le altre feste; come Natale, Pasqua, Pentecoste, Ascensione, e l’Assunzione che celebrano il 21 gennaio; digiuni e feste che vengono loro annunziati solennemente da un prete il giorno dell’Epifania. Singolare riscontro! La Chiesa cattolica annunzia le feste mobili solenni appunto in detto giorno; indizio che una tal pratica risale ai primi secoli della Chiesa.

La terza casta è quella dei mussulmani, quivi emigrata, piccola di numero, ma ricca e potente, avendo essa in mano tutto il commercio d’importazione e altresì molto lucro ritraendo dalla tratta degli schiavi, di cui in un anno solo ne esportò ben otto mila.

Finalmente un’altra casta dovrebbesi ricordare, detta dei mangiò, appena reputata gente umana, talché, per esempio, giunto il grano a maturità, benché l’abbiano coltivato essi, son proibiti di toccarlo, che colle loro mani lo renderebbero immondo. Inoltre sono proibiti di entrare nelle case /176/ e la stessa mercede dei lavori non si dà loro in mano, ma si getta loro per terra, come l’osso al cane. In quanto alla loro condizione civile una metà circa sono schiavi, e per cadere in ischiavitù basta l’infrazione di una legge qualunque o la volontà dei genitori riguardo ai figli o dei mariti rispetto alle mogli, o infine anche la sentenza di un mago che giudichi una persona rea di malefizio o budda, come colà si dice. Nel qual ultimo caso non quella persona soltanto vien fatta schiava ma e tutti i suoi consanguinei, insieme colla libertà perdendo anche tutte le loro sostanze. E cosa più deplorevole, a crescere il numero degli schiavi concorrono talora i liberi stessi col vendere, anche prima che sien nati, i figli; tale essendo l’autorità che dalla legge è lasciata ai genitori sulla loro prole.

Rispetto ai costumi i kaffini sono per avventura i più infingardi uomini del mondo, e ladri quanto si può dire. Onde per questo non poco ebbe a soffrire la missione cattolica che doveva farsi servire da tal gente. Basti che, essendo nei primi anni la missione servita da coloni kaffini, neppure la terza parte del raccolto le veniva consegnata; di più, mentre il grano sulla fine di ottobre era già maturo, quei neghittosi e ladri lo lasciarono sullo stelo fino al mese di dicembre. Questi coloni, assegnati alla missione cattolica dal re, erano schiavi, riputandosi presso quei popoli il lavoro manuale come indegno di uomini liberi, ed avendo colà gli schiavi mercati riservati a loro soli, ne avveniva che la merce rubata potevan facilmente trafugarla; d’altra parte non essendovi contro il furto altra pena che quella di vendere i colpevoli, ne seguiva che per questo lato i nostri missionari, che certo non sarebbero ricorsi /177/ a questa sanzione, non avean come difendersi. Pure non ostante tante difficoltà riuscirono a fare delle conquiste; al che giovò non poco sul principio il riscatto di parecchi schiavi da essi fatto con molto loro dissesto. Il popolo imparò da quella generosità a rispettare una religione che ama i suoi simili con tanto suo sacrifizio.

Tornando alle usanze di quei popoli, è curioso, per non dire strano, il cerimoniale seguito dal re nella festa dell’Esaltazione della Croce. Mescolando il sacro al profano, il cristiano al pagano, il Tatù esce dalla reggia cavalcando un mulo riccamente bardato; lo accompagnano i suoi sette consiglieri; un uomo gli va innanzi con una bandiera spiegata, e un altro a lato gli tiene disteso sul capo l’ombrello; a mezzo chilometro, nè più nè meno, lo precede una squadra di soldati; alla stessa distanza lo segue un’altra e dietro la moltitudine; proibito ad ognuno di fissare il re in volto, che sarebbe sacrilegio. Entrato questi in un padiglione, il popolo gli si avvicina a certa distanza e prostrato bocconi per terra gli offre le sue adorazioni.

Partito il corteggio reale, il popolo si sparge entro capanne adorne di drappi e fiorite di verdura dove per cura del re si trovano tavole imbandite di carne, di cocciò, di birra, di idromele e dove possono a loro piacere per tre giorni fare per turno la loro indigestione.

A proposito di mangiare è da notarsi una pratica singolarissima di quel popolo; che non è permesso di assaggiare alcunché senza la presenza del testimonio legale, cioè di una persona qualunque e chi avesse fame e quello mancasse dovrebbe rassegnarsi ad aspettare e magari anche a morire di /178/ inedia. I coniugi poi devono mangiare contemporaneamente nello stesso piatto e bere pure insieme allo stesso vaso, e guai se uno dei due vi contravvenisse! sarebbe una ragione sufficiente per chiedere la separazione. Un giorno il nostro Massaia non conoscendo ancora questa pratica o essendosene dimenticato prese passando pel giardino di casa alcune fave e se le mise in bocca. Visto dai suoi, per carità, padre, vuol rovinarci tutti? gli gridarono; guai se venisse veduto da qualche nostro nemico! e gli ricordarono la ridicola prescrizione.

Un’altra non meno strana usanza è quella di non poter entrare in casa, anche in casa propria, che dopo aver dato tre segnali, per lo più con un colpo di tosse; il primo a dieci metri di distanza, il secondo a cinque, il terzo presso la porta. Se è il marito, la moglie vien fuori e, fattolo sedere, gli lava i piedi e poi, introdottolo, gli presenta da mangiare.

E, continuando in questi strani usi, quando un servo si presenta al padrone si prostra al suolo che bacia, poi alzatosi e voltatogli gentilmente il dorso riceve gli ordini; cerimonia che ripete ogni volta che ha da parlargli. E quel che dicesi dei servi dicasi pure di qualsiasi persona volgare verso una persona ragguardevole. Queste poi, sian uomini, sian donne, non possono uscire di casa senza venir meno al decoro, che sopra un cavallo od un mulo, con più o meno seguito, secondo il loro grado, di cavalieri, che non possono essere che di gente libera, essendo agli schiavi proibito di cavalcare. E a quest’uso, per mantenere il prestigio della sua autorità, dovette suo malgrado adattarsi anche il nostro vescovo; il quale perciò non usciva mai se /179/ non accompagnato da cinquanta cavalieri, tolti dalle persone addette al servizio delle chiese eretiche. E tale era il numero del suo seguito, perchè egli dopo il re era tenuto come il primo personaggio del regno, solo a lui essendo concesso di portare l’ombrello. E ogni volta che si recava a corte questo era sempre il cerimoniale; con quest’altra particolarità, che egli doveva entrare alla reggia per una porta segreta; che guai fosse entrato per la principale, trovandosi a fronte due ombrelli, due ori (come l’ombrello, così l’anello d’oro, se l’avesse, al solo vescovo, dopo il re, era lecito portarlo), a uno dei due certamente sarebbe toccato morire! Infine un’altra usanza curiosissima, per non dire sciocca, si è questa, che nel presentarsi a persona di riguardo bisogna indossare gli abiti più meschini e chi non ne ha se li procuri. E poichè è caduto il discorso sugli abiti, questi son fatti di pelli conciate o di foglie di cocciò o di tele grossolane del paese, se trattasi di gente volgare; ma se trattasi di gente ricca, allora sono di tessuti di gran costo.

Ora passiamo a dire qualche altra cosa propria di quella regione. Nel regno di Kaffa vi sono nientemeno che otto mesi di pioggia, da marzo a novembre, il che naturalmente favorisce in modo straordinario la vegetazione che cresce addirittura lussureggiante in erbe e piante, talché quella regione potrebbe dirsi tutta una foresta, che non presta altri passaggi che stretti sentieri. Parecchie piante molto proficue poi vi allignano, la pianta del cocciò, del caffè e altre. La pianta del cocciò manda fuori dallo stelo, a cominciare rasente terra, delle foglie lunghe ben tre metri e larghe uno, le quali, generalmente al sesto anno in cui, prodotto /180/ il seme, si spegne, vengono raccolte e dalla costa che segna per mezzo la foglia e ne occupa circa il terzo si cava una sostanza glutinosa che si mette a fermentare in un fosso, donde dopo cinque o sei mesi si estrae, si impasta e se ne fa un pane abbastanza saporito, benché non guari nutriente. Il resto della foglia, lavorato, serve a far corde, tessuti per le vestimenta, e anche quale carta da scrivere, a somiglianza del papiro.

La pianta del caffè che si crede originaria di Kaffa, donde appunto avrebbe preso il nome di caffè, cresce spontanea nei boschi, ed è pure molto coltivata, sebbene gli abitanti, indolenti, non sappiano cavarne quel lucro che potrebbero col portarlo a vendere sui mercati.

Altra pianta molto utile è il simbacò, specie di canna, ma molto più grossa della nostra, tantoché misura un palmo di diametro e un internodio di essa serve a formare un secchio. Se ne valgono per tessere stuoie che intonacate di calce danno l’aspetto di veri muri alle capanne. Altra pianta pure molto utile è il coriandro di cui si fa gran commercio.

Nel regno di Kaffa, come nell’Abissinia, vi è un numero sterminato di api, donde ricavasi molta cera e miele che serve per la fabbrica di idromele, la bevanda preferita dai signori. Veramente cresce anche la vite, ma non vi è che presso le chiese, e d’altra parte le api distruggerebbero l’uva prima che sia giunta a maturazione.

Un animale poi da cui potrebbero trarre una cospicua rendita, se non avessero in proposito delle stupide superstizioni, è il zibetto da cui si ricava il muschio, liquido odoroso di gran pregio. Ma qui passiamo a narrare cosa che se non ha /181/ del miracoloso certo ha dello straordinario. Arrivato in Kaffa monsignor Massaia sentì dirsi come la sua missione fra quei popoli fosse già stata predetta da una fanciulla kaffina 12 anni prima. Costei dunque narrava un giorno alla madre come andata alla chiesa di S. Giorgio le era comparso l’Hiero Ogo (il Dio grande) e la gran Ganni (la gran Signora) dicendole che i preti di Kaffa (eretici, come s’è visto, anzi, più che eretici, pagani), non erano buoni, ma che fra non molto sarebbero sopravvenuti dei preti veri, preti molto buoni che avrebbero insegnato al popolo il modo di vivere contenti in questo mondo e di essere felici nell’altro. La gran Ganni poi l’aveva amorosamente accarezzata e l’aveva consigliata a unirsi sposa col suo figliuolo.

Questa la visione. Quale l’effetto? Se prima poteva dirsi una onesta fanciulla, poscia presso quei popoli corrotti poteva riguardarsi come una santa; tanto si mostrava modesta, mortificata, amante della preghiera e del ritiro. Come aveva predetto, morì prima dell’arrivo dei veri preti, dei quali sempre discorse come se li avesse veduti. Chi non iscorge in questo fatto lo straordinario? Certo non è temerità il dire che v’entra la mano di Dio e che pure tra quel popolo disgraziato Egli volle eleggersi una creatura, privilegiarla del suo amore, della sua grazia. Chi può comprendere i misteri della misericordia divina?

La missione intanto, essendo stata giuridicamente riconosciuta dal re di Kaffa, anzi il suo vicario apostolico essendo stato costituito dal re medesimo capo di diritto di tutto il clero eretico residente nel regno, poteva chiamarsi contenta. Conoscendo l’indole della popolazione troppo at- /182/ taccata alle sue superstizioni il Massaia non credette opportuno di assalire l’eresia di fronte. Respingendo ogni invito di partecipare alle funzioni eretiche, «noi (scrive egli in una lettera di quel tempo[)] rimanevamo per lo più nella nostra chiesa, traendo a noi il popolo con l’aiuto delle pompe della liturgia cattolica, alle quali cercavamo di dare la maggior magnificenza possibile; cantavasi tutto quanto l’uffizio divino ogni dì, il canto gregoriano non interrompevasi quasi mai, se non per dar luogo ad istruzioni in cui senza entrare in veruna disputa ci studiavamo di esporre con quanta maggior chiarezza sapevamo la dottrina della santa Chiesa cattolica, del pari che la spiegazione dei suoi sacramenti e della sua ammirabile liturgia. Il popolo ci si affezionava tosto e il movimento che aspettavano verso la religione cominciava a prodursi con tanta celerità che avresti detto tutto il regno doversi in breve tempo far cristiano». Grande consolazione era dunque pel nostro missionario. Ma ecco una triste notizia di lì a poco venir a ferire il suo cuore. Abba Fessah, ch’egli aveva lasciato come suo vicario in Ghera, venivagli riferito aver mancato al dover suo e di pastore essersi fatto lupo rapace.

Pertanto inviò Gabriele ad abba Magàl perchè col reale appoggio gli fosse concesso di scacciare l’infedele ministro. Il negozio, essendo Gabriele molto accetto al re, facilmente riuscì, e così le cose vennero alla meglio riparate finchè il Massaia potè ottenere dal re di Kaffa il permesso di spedire a Ghera il padre Hailù. Giacché è qui da sapere che niuno può entrare od uscire dal regno di Kaffa senza il permesso del re, permesso che dev’essere /183/ fatto noto al kella o custode della porta del regno, non essendovi altro modo di entrare o di uscire che per essa, non altrimenti che si trattasse di una casa o di una tenuta chiusa da recinto.

Rimediato al disordine sopraddetto, ecco una novella sciagura venir a colpire il nostro vescovo e insieme tutta la sua famiglia. Un giorno arriva inaspettatamente da una missione il padre Cesare il quale trovando monsignore che stava accomodando una coltre mortuaria (il nostro vescovo lavorava anche di sarto), oh! che bella veste, esclamò, oh che bella veste mi sta apparecchiando il mio carissimo vescovo! Questi accolse le parole come una facezia, ma ben presto ebbe ad accorgersi che dovean intendersi daddovero, che quella sera stessa il padre Cesare fu colto da grave morbo che in pochi giorni lo ridusse agli estremi. Gli furono dunque amministrati i sacramenti; prima dei quali l’infermo volle nuovamente fare una ritrattazione dei suoi scandali, sebbene la vita condotta dopo la sua abiura ben potesse dirsi aver largamente compensato il male causato colla sua apostasia; giacchè da quel giorno fortunato in cui si ravvide aveva preso a condurre una vita tanto penitente e tanto laboriosa in pro delle anime, che era diventato l’universale edificazione.

Il male intanto incalzava e si vedeva prossima la sua fine. Quel caro angioletto di Gabriele apparso all’altro Gabriele gli aveva detto il padre Cesare sarebbe morto alle dodici ore del sesto giorno dalla malattia. E così veramente accadde: recitate le preghiere dell’agonia, in quell’ora appunto spirava.

Dato secondo l’uso del paese il segno della sua morte col percuotere con certo numero di colpi un /184/ vaso di legno, tosto accorse presso la capanna della missione una gran folla di gente che, sentito esser morto il padre Cesare, prese a dare in ismanie, a gridare, a ululare, a stracciarsi i capelli, a graffiarsi il viso con le spine. Il giorno dopo, deposto il cadavere, incominciò la cerimonia del gran pianto secondo l’uso di Kaffa. È consuetudine che le persone vi intervengano cogli abiti di festa e che i signori non potendo essi intervenire in persona vi mandino i loro servi su muli riccamente bardati. Trattandosi di un defunto ragguardevole intervengono tutte le classi della società, prima la corte, quindi i nobili, in ultimo la plebe. Così si fece pel compianto padre Cesare. Nel primo giorno giunse il corteggio reale che ricevuto sotto un padiglione e fatte le condoglianze ai famigliari, diede tre o quattro giri attorno alla tenda seguito dai muli bardati e dai paggi, mandando tutti, più o meno sinceramente, grida selvaggie di dolore e stracciandosi il viso, se non forse tingendoselo con apposito sangue di rosse chiazze. Nel secondo giorno vennero i grandi ufficiali del regno e nel terzo il popolo, sempre ripetendo lo stesso cerimoniale. Finalmente finito questo duolo selvaggio, vennero i cattolici con molto miglior pensiero facendo preghiere e comunioni in suffragio del defunto. E così ebbe termine il corteo secondo l’uso di quei luoghi.

Qualche giorno dopo monsignor Massaia lasciava Tadmara e andava con tutta la sua famiglia (una cinquantina tra famigliari e servi), a stabilirsi a Sciàp, altra tenuta avuta in dono dal re. Si diede tosto mano all’erezione delle capanne e a una grossa piantagione di caffè e di viti che avrebbero prodotto un reddito considerevole, mentre le /185/ numerose mandre, che già si possedevano, avrebbero fornito la carne, il latte ed altre cose.

Ai bisogni materiali era sufficientemente provveduto; restava a provvedere al bene spirituale delle varie cristianità; e a quest’effetto, trovandosi scarso di preti, il nostro vescovo promosse al sacerdozio il diacono Paolo.

Il cielo parve volesse approvare quell’ordinazione; perchè durante la funzione un fanciullo di nov’anni che trovavasi fuori della cappella vide passare sopra il tetto della medesima parecchi stuoli di figure di persone che ai presenti si studiava di mostrare. Chi erano mai esse e che significavano? Forse significavano le anime che per opera di questo nuovo ministro di Dio sarebbersi salvate, e molte infatti ne ridusse alla fede questo zelante sacerdote.

Ma ecco un altro disturbo. Qualche giorno dopo gli giunse una lettera da Afallo del padre Hailù, il quale dicevagli come essendo venuto in dubbio sulla validità del battesimo ricevuto dal prete eretico e quindi su quella dell’ordinazione, da qualche tempo più non celebrava, ne confessava; venisse egli in Afallo o permettesse a lui di portarsi a Sciàp. Il Massaia recossi adunque tosto in corte per ottenere la licenza di uscire dal regno; recossi, s’intende, in gran treno cioè gran turbante in capo, anello d’oro al dito, che colà non può portare se non chi ha autorità regia (il Massaia era perciò equiparato al re), un servo a tenergli l’ombrello (anche questo distintivo regio), e numeroso seguito. Introdotto per una porticina segreta nel recinto della reggia venne ammesso nell’anticamera dove potè parlare col re che stava seduto innanzi la porta /186/ della camera attigua. Durante questo ricevimento i servi che accompagnavano il vescovo stavano prostrati bocconi a terra e un d’essi inginocchiato teneva steso l’ombrello: il re poi parlava nascosto, secondo il solito, dietro una cortina, non essendo lecito ad un uomo di vedere la sua bella faccia. Non potè il Massaia ottenere la licenza per sè, ma riuscì ad ottenerla pel padre Leone che da alcuni giorni era giunto in Kaffa.

Non è da tacere che in quell’andata alla corte l’aveva accompagnato anche il buon Gabriele, il quale durante il ricevimento essendosi fermato a discorrere coi figli del re colle sue belle parole di pietà e di religione se li ebbe talmente affezionati, che nel congedarsi questi domandarono per favore al Massaia l’avesse qualche volta loro mandato, tanto era il piacere che ricevevano dalla sua conversazione.

Il buon giovane, essendoglisi presentato il destro, aveva gettato nel cuore di quei fanciulli i primi semi della religione cristiana che dovevano poi germogliare e fruttificare.

Venendo al padre Leone, giunto questi in Afallo, ne partì il padre Hailù che la sera stessa arrivò in Sciàp. Ponderata bene ogni cosa, il Massaia venne nella deliberazione di reiterare il battesimo e l’ordine al detto padre e per le stesse ragioni anche ad abba Iacob; ciò che fece in segreto, di notte, serbando per i sacri ordini i necessari interstizi.

Questa era stata la decisione presa dal Massaia, e questa, come dopo si venne a sapere, fu pure la decisione data dalla S. Sede a monsignor De Iacobis riguardo a’ suoi sacerdoti indigeni.

/187/ Il qual monsignor De Iacobis era morto poco tempo prima, ed ecco in che modo. Partito con una comitiva da Umkullu per l’interno, dopo due giorni di faticoso cammino per un arido deserto, aveva dovuto fermarsi per confortare dei sacramenti un de’ suoi discepoli ridotto presso a morte. Compiuto il qual atto, rivolto a un sacerdote indigeno, ora; disse, dà a me l’Estrema Unzione, perchè anch’io sono in fin di vita. Il sacerdote e quanti eran con lui a quelle parole si guardarono trasecolati in faccia; parea questa una stranezza, non avendo egli fino a questo punto accusato alcun malore; ma insistendo il vescovo, fu giocoforza accontentarlo. E fu buon consiglio; perchè ritornati i suoi discepoli alcune ore dopo dall’assistere alla morte del loro compagno ed affacciatisi alla sua tenda per vedere se riposasse tuttavia, come avea detto di voler fare, trovaronlo con loro dolorosa sorpresa già freddo cadavere stringente in una mano il crocifisso e nell’altra il libro dei vangeli. Allora fu uno scoppio irrefrenabile di pianto in tutti; e sparsasi la funebre voce, presto si vide un accorrere da ogni parte di cattolici e altresì di eretici e perfino di mussulmani per piangere la perdita del santo, del servo di Dio, come lo chiamavan tutti. Vi giunse da Massaua una deputazione europea per recare il cadavere alla costa, ma i Soho fra cui era morto, da una parte, e i cattolici del Tigrè, dall’altra, che egli aveva evangelizzato pretendevano alla loro volta per sè questo sacro deposito, prevalendo poi questi ultimi, che ottennero così di trasportarlo nella più vicina casa della missione, nel villaggio di Hadda-Ubida. Pietosa contesa questa e strana nello stesso tempo per la qualità dei contendenti, la qual /188/ sempre meglio ci fa vedere quanto l’opera del De Iacobis fosse universalmente apprezzata e la sua persona circondata di sincero affetto (1).

Non fu piccolo dolore per il Massaia la perdita di questo zelante apostolo, che più che compagno ei riguardava nella sua umiltà quale suo maestro e modello.

«Egli, scrive a questo proposito il Massaia, morì in mezzo al deserto, come Francesco Saverio, col desiderio nel cuore d’inaffiare col suo sangue quelle aride zolle, ma, quantunque un tal favore non gli fosse stato concesso, spirò profetizzando che l’Etiopia sarebbe ritornata alla vera fede». E aggiunge melanconicamente il nostro «Neppure a me fu concessa la grazia del martirio, che, come lui, pur io sospirava, anzi Iddio dispose che le mie ossa giacessero lontano da quella terra che cotanto amai». Dove si vede quanto l’elogiante fosse degno dell’elogiato.

(1) La vita e le opere del De Iacobis furono narrate in un volume di 450 pag. dal sig. Divin, segretario generale della congregazione lazzarista, fornendogli gran parte delle notizie il nostro stesso Massaia.

Una vita del medesimo, in italiano, è comparsa recentemente, scritta dal can. Civati.

Un’altra vita del medesimo fu scritta da un sacerdote abissino nella sua lingua e tradotta in italiano, stampata alla tipografia Francescana della Missione all’Asmara. [Torna al testo ]