Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

/189/

Capo XVII.

La lingua di Kaffa. — Carta e scrittura in Kaffa. — Il culto del tabòt. — Trionfi della missione. — Il telegrafo dei Kaffini. — Il campo del gran pianto. — Mosse ostili. — Favori ed ipocrisie. — Lo scoppio del fulmine. — In via per l’esiglio. — Le espiazioni del sangue e del cane morto. — Apostolato fra i nemici. — Non ucciso ma scacciato dai confini. — Un rapimento. — Da abba Baghibo. — Successore degenere. — Novelle persecuzioni. — Un po’ di luce.

Crescendo intanto il numero dei convertiti, il nostro si vide nella necessità di compilare un manuale di istruzione in lingua kaffina (1) o veramente sidama, che è la lingua del paese; ma come fare se in quella lingua, già assai difficile per se, non si erano mai stampati libri nè scritti, anzi neppur conoscevasene bene l’alfabeto, giacché quella che usasi dai commercianti nelle loro corri- /190/ spondenze, come in tutta l’Etiopia, così in Kaffa, è la lingua araba? Pure bisognava trovare un modo di riuscirvi e colla sua perspicacia e colla sua costanza, giovandosi anche per la parte materiale del linguaggio dell’opera di altri, riuscì a comporre il manuale desiderato, servendosi dell’alfabeto italiano, come già aveva fatto per la lingua galla. — Volto poi l’animo al buon andamento della sua famiglia stabilì un regolare orario. Non più di cinque ore di riposo, levata al canto del gallo, quindi preghiere e santa Messa per gli interni, poi Messa e catechismo fatto in diverse classi agli esterni. Nel frattempo egli faceva scuola di teologia e quindi dava opera coll’aiuto di un interprete, un certo Negussiè assegnatogli come dragomanno dal re, alla traduzione in lingua kaffina del catechismo ed alla compilazione di manualetti di divozione, dei quali stendevansi poi dai catechisti parecchie copie. Usavansi come carta, non potendosene in quei luoghi avere, le foglie di cocciò, le canne e certe pelli conciate. Di foglie di cocciò il nostro vescovo aveva composto un volume in-folio contenente notizie politiche, etnografiche, geografiche, sul Kaffa e sulle regioni confinanti; opera preziosissima che sgraziatamente insieme cogli altri suoi scritti e memorie andò poi perduta.

Questo in casa: fuori attendeva alle opere del ministero, predicare, catechizzare, estirpare certi abusi e stupide superstizioni. Com’era ad esempio l’usanza dei preti eretici di recarsi al quarantesimo giorno dalla morte di una persona sul luogo del sepolcro e quivi dichiarare lei e i suoi parenti morti (anche i parenti!) prosciolti da ogni debito verso Dio; il credere che il famoso tabòt fosse una specie /191/ di divinità, talché non era raro il caso che si raccomandassero quei poveri illusi a Dio affinchè pregasse il tabòt a concedere la grazia desiderata; e lo strano sacrificio degli animali come argomento di espiazione e di impetrazione.

Intanto un fatto consolante venne a favorire e a mettere in credito la missione. Uno zio del re, istruito dal nostro Gabriele, venuto all’estremo della vita aveva voluto ricevere il battesimo e gli altri sacramenti e morire da cattolico. Alla sepoltura intervennero il vescovo in piviale e mitra e tutto il clero, e questa funzione tanto insolita per quei popoli congiunta colle circostanze della conversione operò tale un favorevole entusiasmo verso i missionari, che pareva l’intera popolazione stesse per convertirsi al cattolicismo. Padre, esclamavano commossi rivolti al Massaia, padre, oggi voi ci avete fatti assistere ad una scena di Paradiso.

Ma come la vita di ciascun cristiano così quella della missione doveva essere una vicenda di consolazioni e di prove dolorose. Pochi giorni dopo muore improvvisamente la madre del re, quella che tanto generosamente aiutava la missione inviandole ogni giorno copiose provviste e difendendola dalle calunnie e dal mal animo de’ suoi nemici. Trattandosi di un personaggio tanto illustre tosto le campane della capitale, cioè i gran cassoni di legno, percossi da bastoni, diedero il funebre annunzio, a cui risposero di mano in mano le altre fino alle ultime del regno, e quindi un accorrere di tutte le popolazioni con a capo le autorità locali a fare il gran pianto. Dalla sua residenza intervenne naturalmente anche il re, fermandosi presso la defunta tre giorni per ricevere le condoglianze, ma rimanendo, s’intende, /192/ in tutto questo tempo, come altrove abbiamo detto esser d’uso, sempre invisibile. Finita la cerimonia del gran pianto, la defunta accompagnata dalla corte e da tutto il popolo che mandava urla forsennate di dolore fu trasportata su una montagna lontana quindici miglia e deposta nelle tombe reali. Allora finalmente con altri colpi convenzionali dei cassoni suddetti fu annunziato agli abitanti che ognuno era licenziato a mangiare seduto a tavola e a dormire nel proprio letto; cosa che nel frattempo, dalla morte alla sepoltura, era stata, secondo la consuetudine, vietata.

Alla suddetta nell’uffizio di Ghebrecio, o provveditrice e massaia della casa reale, succedette la prima moglie del re che anch’essa fortunatamente mostrossi benevola verso i missionari permettendo a quei della corte di intervenire ai catechismi ed a taluni anche di ricevere il battesimo. Anche il re prese a dare loro maggiori e più frequenti dimostrazioni di affetto coll’aiutarli a fabbricare una casa e una chiesa, splendida per quei paesi, e col mandare offerte di commestibili e di bevande. Senonchè tutto questo era una fine insidia. I mussulmani, gli eterni nemici del cristianesimo, d’accordo coi maghi Kaffini, avean dato ad intendere al Tatù che il Massaia aveva in animo di sbalzarlo dal trono e che a quest’effetto avea nascosto nella tenuta di Sciàp 50 fucili per tentare all’ora opportuna la ribellione. La infame calunnia non tardò a produrre il suo effetto.

Un giorno arriva l’ordine al nostro vescovo di mandar in corte abba Iacob e abba Ioannes per un ammalato, dicevasi, che aveva bisogno di parlar con loro. Ma venuta la sera, i due preti non erano ancora /193/ di ritorno. Passa la notte, giunge la mattina, nulla; allora il nostro cominciò a sospettare di un brutto tiro. E purtroppo la cosa era molto più grave di quel che potesse immaginare. Mentre egli la mattina del 26 agosto 1861 se ne stava avanti la porta della chiesa occupato nei suoi lavori di traduzioni, ecco udirsi uno scalpitìo di cavalli, quindi comparire una squadra di cavalieri che irrompono improvvisamente in chiesa, legano il p. Hailù e i giovani catechisti (il buon Gabriele ed abba Paulos erano stati spediti a Lagàmara qualche giorno prima) e fattisi innanzi al Massaia gli intimano d’ordine del re di uscire dai confini di Kaffa. Quale il motivo? non gliel seppero o non gliel vollero dire. Domandò di entrare in casa per prendere un po’ di carta da scrivere e altre cosette, di dare un saluto all’ospite divino del tabernacolo; n’ebbe una ripulsa; solo gli fu concesso di parlare col p. Hailù a cui affidò la missione e chiese l’assoluzione sacramentale, e si mise in via con quegli scherani. Tutti i suoi famigliari a quella vista diedero in un pianto dirotto e l’avrebbero voluto seguitare, ma, eccetto alcuni, furono impediti.

Precedeva la triste comitiva un mago che col tradizionale berretto di pelle di scimmia in testa andava di tratto in tratto spargendo sul passaggio alcune goccie di sangue onde aveva pieno un vaso per placare, dicevasi, la divinità che volesse vendicarsi di questa cacciata del missionario. La seguivano a breve distanza due schiavi recanti un cane morto da parecchi giorni che esalava un orribile fetore. E perchè questo? Qualche tempo innanzi a questa luttuosa scena uno schiavo di guardia alla tenuta della missione avendo sorpreso un cane a dare il /194/ guasto alle pannocchie tenere del granoturco lo aveva ucciso e sotterrato ivi stesso. Or fra i Kaffini vi è la sciocca superstizione che seppellendosi un cane nel proprio fondo vogliasi fare un maleficio contro qualche persona. Il fatto sopraddetto essendo stato conosciuto dai maghi, fieri nemici dei missionari, fu tolto a pretesto per commettere quella barbara ingiustizia.

Si seguitava intanto la marcia a grandi passi prendendo per viottoli impraticati, attraverso i seminati, col fango fino ai ginocchi dei cavalli e con una pioggia torrenziale che si riversava implacabile e dolorosa sul loro capo. Le popolazioni che incontravano sul loro passaggio al vedere l’abuna condotto via dalle guardie della stirpe dei Mangiò, che sono gli ordinari esecutori della giustizia, facevano lugubri presagi sulla sorte del povero vescovo, cioè che giunto alle rive del Goggèb vi sarebbe gettato dentro ad annegare, e per l’affetto che gli portavano ne mostravan sincera compassione. E veramente dalle voci corse, se non questo precisamente, altro poco dissimile gli sovrastava; di luogo in luogo l’avrebbero trasportato a Gengirò, piccolo regno a levante di Gemma Kaka, dove gente già assoldata avrebbegli data la morte.

Tornando al viaggio, dopo sei ore di faticosissima cavalcatura a stomaco digiuno il buon vescovo non potendone più fu sovrappreso da uno svenimento che mise in tutti la costernazione parendo morirne; onde i fedeli che a certa distanza lo seguivano presero ad imprecare contro il governo gridando che coll’uccisione dell’abuna cattolico avrebbe attirato le disgrazie sul popolo. Fortunatamente con un po’ di caffè il deliquio passò e ricoverato in una capanna /195/ e mangiato un boccon di cibo preparatogli dalla fida serva Ualetta Mariàm e dal buon Camo potè prendere un po’ di riposo. Ma alla mezzanotte eccolo nuovamente in piedi per ripigliare il cammino, sempre per vie impraticabili e sotto un diluvio di acqua, finchè giunti ai confini di Gemma, quivi si fece sosta. Qui anzi si alzarono capanne per ricoverare i soldati che crescendo man mano sul percorso erano da cento saliti a trecento.

E frattanto quali erano i sentimenti del nostro apostolo? «In mezzo a tanti motivi di afflizione, scrive, ne trovava pure da consolarmi, ed era pel mio cuore una goccia di balsamo salutare il vedermi fatto simile a Gesù Cristo catturato nell’orto di Getsemani e condotto fra sgherri a Gerusalemme e poi sul Calvario, e consolavami pensando che quei maltrattamenti e quella confusione mi servivano ad espiare qualche peccato di vanità e di superbia entrato forse nel mio cuore in occasione dei bugiardi onori tributatimi in Kaffa». Quanta umiltà! quanta grandezza d’animo! quale eroismo! Già vedeva nella sua mente il martirio e vi andava serenamente incontro. Ma il Signore voleva accontentarsi del suo solo desiderio.

Mentre si trovavano, come di sopra abbiamo detto, colà attendati, giunsero ordini dal re di aspettare e intanto si trattase un po’ più umanamente il prigioniero. E questi profittando di questo po’ di libertà coadiuvato dal giovane Camo si mise a catechizzare quei soldati, i quali non udendolo mover parola di lamento contro i suoi iniqui oppressori cominciarono ad ammirarlo e insieme a stimare una religione che sapeva operare tali prodigi.

/196/ Poco si preoccupava il nostro apostolo di ciò che potesse accadergli, ma ben v’era chi per affetto verso di lui ci pensava, ed era il buon Camo. Ed ecco le notizie che destramente era venuto a scoprire: che il re cominciava ad aprire gli occhi sulle mene dei mussulmani e dei maghi che l’avevano tratto a quel passo; che il popolo di Gobbo era insorto e aveva a più riprese sconfitti i soldati di Kaffa; il che dal popolo attribuivasi a un castigo di Dio per l’ingiusto trattamento usato contro il gran prete bianco; e infine, ciò che al nostro vescovo riusciva doloroso e consolante ad un tempo, che abba Ioannes ed abba Iacob trattenuti prigioni in Anderacia e continuamente sollecitati ad apostatare sempre s’eran mantenuti fedeli al loro dovere.

Intanto essendosi saputa la prigionia del Massaia dai popoli Galla, questi che molto l’amavano, indussero i loro capi ad abboccarsi coi consiglieri del re di Kaffa per ottenere giustìzia pel povero oppresso; e giustizia questi, che veramente tenevan le redini del governo, dovettero per timore concedere. E così finalmente dopo dodici giorni d’indicibili patimenti, sfuggendo alla morte che gli si voleva dare, il nostro glorioso missionario potè tranquillamente uscire dal regno di Kaffa e portarsi attraverso il territorio galla di Gemma Kaka alle cristianità di Ennèrea.

Un’altra sciagura venne ad affiggere il suo cuore di apostolo e di padre in questo tragitto. Giunti alla villa reale di Ciala, si era fatto sosta e si stava dopo tanti patimenti pigliando un po’ di cibo e di riposo, quando ecco sopraggiungere alcuni, un gran signore con numeroso seguito, e in nome del re di Gemma, abba Boka, intimare al Massaia di cedergli il giovane Camo per essere consegnato a’ suoi parenti. /197/ Essendo questi mussulmani e ben conoscendo con qual fine lo volessero portar via, il giovane protestava di non volerne sapere di abbandonare il suo buon padre spirituale. Ma quella genìa per troncare ogni questione lo prese e lo legò come una bestia destinata al macello, gridando sempre e urlando l’infelice giovane per quella violenza, sei portarono via. Quale fosse il cuore del nostro missionario per siffatto caso non occorre dire; ben prevedeva a quali dure prove sarebbe posta la fede del suo caro alunno: e sarebbe egli sempre durato costante? Ma contro la violenza non c’era che opporre; convenne rassegnarsi e raccomandare l’affare a Dio. E Dio intervenne. Dopo quattro mesi di prigionia presso il cognato, Camo riuscì a fuggire: ma raggiunto alle frontiere, fu costretto a ritornare. Senonchè abba Magàl tanto insistette, che il cognato si indusse a restituirlo ai genitori, col permesso dei quali il buon giovane ritornò presso i missionari di Ghera conservandosi sempre affezionato ai suoi padri nella fede. — Tornando al racconto, partiti da Ciala, traversato il fiume di confine tra Gemma ed Ennèrea, la sera del giorno seguente giunsero a Saka festosamente accolti dal prete indigeno abba Matteos e dai cattolici del luogo. Il giorno seguente il vescovo fu a visitare abba Baghibo e a narrargli le tristi sue vicende e a raccomandarsegli; e questi che, sebben mussulmano, pure amava sinceramente il Massaia, ebbe parole di sincera compassione per i mali trattamenti usatigli e nello stesso tempo di ammirazione e di incoraggiamento, dicendogli fra altro queste cose che in bocca di lui fanno certo meraviglia: «La causa vostra è la causa di Dio e non può non trionfare... Quando penso a tutto quello che fin /198/ qui avete fatto ed al fine sublime che vi ha condotto fra noi davvero mi confondo: e mi accade come quando volendo fissare il sole ne resto abbagliato e son costretto a chiudere gli occhi. Nel lungo corso di mia vita ho viste e udite tante meraviglie; ma quelle che sa operare il vostro Dio superano e rendono bambina la nostra intelligenza e i nostri meschini disegni».

Quale elogio dell’opera del missionario e della fede cattolica fatto da un mussulmano!

Abba Baghibo aveva promesso di aiutare il Massaia, e veramente per l’affetto sincero che gli portava l’avrebbe fatto, ma la morte sgraziatamente qualche giorno dopo venne a toglierlo dal mondo, succedendogli nel regno il suo secondogenito, Bulgu, non erede certo ne dell’ingegno, ne dell’avvedutezza del padre, ne molto meno della sua lealtà e grandezza d’animo. La morte di Abba Baghibo fu davvero una sventura, non solo per il regno di Ennèrea, ma per tutti i regni Galla che fin qui egli aveva tenuti fortemente collegati; e singolarmente per la missione cattolica che tanto aveva favorito. Bisogna dire però che anche mons. Massaia prestò non lievi servigi a lui ed al suo regno; perchè, tra l’altro, lo dissuase dal pagare tributo al feroce Kassà o Teodoro, consigliandolo invece a collegare insieme tutti i principati galla per opporsi al prepotente invasore; e così tanto l’Ennèrea, quanto gli altri Stati poterono conservare la loro indipendenza.

Tornando ad abba Bulgu, o abba Gomòl, come volle chiamarsi il novello re, questi, zimbello di mussulmani fanatici, non tardò a manifestare il suo mal animo contro i missionari. Recatosi mons. Massaia col sacerdote Matteos alla reggia per /199/ presentargli le sue condoglianze per la morte del padre è fatto aspettare un buon pezzo. Finalmente è introdotto, non lui ma il suo compagno, il quale vien condotto in una sala innanzi a certi manigoldi di giudici che vogliono attesti il suo vescovo durante quell’aspetto aver pronunciate parole di malefizio contro lo Stato. Naturalmente non attesta nulla, perchè è vero nulla; vien messo al ghindi (specie di ceppi entro cui vengono stretti i piedi al paziente), perchè accusi il maestro; risponde un’altra volta che non è vero nulla, che è una calunnia. Allora quegli scellerati dan mano a mazzi di verghe e lo flagellano senza compassione, finchè sopravvenuto uno della corte che aveva un resto d’umanità lo fa sciogliere ed uscire. È accompagnato fuori ed al vescovo che ansante lo aspettava viene annunziato per ordine di sua maestà che essendosi trovato (trovato un corno, mala genìa!) aver egli dette parole di malefizio contro il governo deve perciò entro la giornata uscire dai confini del regno.

Figurarsi come rimase il nostro povero Massaia! Era appena giunto a casa, che sopravviene una squadra di quei soldati manigoldi, che lo sollecitano presto presto a partire. Prende la sua roba (quanto cioè la generosità di quegli schierani, pari alla loro lealtà, gli permette) e via in cammino; a marcia forzata, finchè non abbia varcato i confini. Corri, corri, giunge la notte e il nostro missionario non aveva ancora assaggiato nulla; dal languore si sentiva venir meno, e quei cani, se fosse dipeso da loro, l’avrebber lasciato basir di fame; ma fortunatamente la sua buona serva che col catechista Andrea e abba Matteos l’avea seguito aveva portato seco alcune /200/ uova e qualche altra cosa, ond’ei potè rifocillarsi alquanto.

Conveniva pensare alla notte. Quella masnada di ladroni e di assassini gli avrebbero anche rubato quei cento talleri (unica ricchezza che portava seco in una pelle), e chi sa anche rapitogli il bravo catechista Andrea per venderlo poi schiavo. Invece di dormire, e n’aveva sì gran bisogno dopo tante fatiche e strapazzi, convenne dunque vegliare; e così il nostro povero vescovo ebbe non poco a fare tutta la notte colla sua verga in mano a distribuir vergate a quei benevoli, e furon molti, che volevano alleggerirlo di quel poco che possedeva e fargli qualche altro brutto tiro.

Alla mattina giunse all’attendamento un convertito che recava al vescovo parecchie notizie: che i suoi due cari sacerdoti abba Iacob e abba Ioannes, rimessi in libertà, erano ritornati a Ghera e presto l’avrebbero raggiunto; che un mussulmano fanatico essendo salito sull’altare della cappella di Saka per profanarlo era caduto a terra e s’era rotto il collo, morto sul colpo; il che da tutti, anche dai pagani, attribuivasi ad un castigo di Dio; e che la sua espulsione aveva messo il malumore nella popolazione e nella stessa madre del re, la quale avrebbe detto: che non avrebbe più posto piede nella reggia finchè non si fosse richiamato l’abuna.

Queste notizie in mezzo a tante tribulazioni gli erano certo di non poco conforto. Ma ecco una nuova pena: qualche ora dopo s’accorge che mancava il catechista Andrea; un sospetto sinistro gli corse alla mente, che fosse stato rapito e trafugato da qualcuno di quei ladroni. Il giovane veramente che s’era scostato dal campo per attingere /201/ notizie sulle intenzioni del governo era stato preso da uno di quei farabutti, ma un ufficiale delle guardie che conosceva come il re già nutrisse intenzioni meno ostili verso il Massaia, gliel fece rilasciare, e cosi qualche ora dopo potè il buon giovane ritornare alla sua tenda.

A coronare la letizia pel ritorno dello zelante Andrea giunse poco dopo una carovana mandata dalla madre del re, la quale insieme con le più umili scuse per gli strapazzi fatti soffrire al nostro vescovo recavagli un’abbondante provvista di vettovaglie, un bue, due castrati e birra in copia. E n’avean bisogno! da due giorni eran tormentati dagli stimoli della fame.

(1) La lingua kaffina è una delle più difficili e non ha nessuna affinità ne con l’oromonieo-galla, ne con l’amarica o etiopica volgare. Abbonda più di consonanti che di vocali, con sillabe strette e di difficile pronunzia per gli Europei. Laddove la lingua galla è ricca di vocali, con sillabe rotonde e parole armoniose. [Torna al testo ]