Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

/203/

Capo XVIII.

I confessori della fede. — Dai crucifige agli osanna. — Meritato castigo. — A Nonno Billò; fatiche, difficoltà, consolazioni. — A Leka. — Storia dolorosa.

Rifacendoci alquanto indietro, alla persecuzione di Kaffa, al p. Hailù sempre in Sciàp, dopo qualche vessazione era stata lasciata una certa tal quale libertà, onde poteva catechizzare quei che gli si presentavano; anzi il giorno di S. Michele aveva potuto celebrare solennemente quella festa nella chiesa vicina dedicata al Santo. Abba Iacob ed abba Ioannes, come abbiamo detto, erano stati trattenuti in prigione, dove per molti giorni furono tentati a prevaricare, prima da donne appositamente introdotte a loro e poscia, con subdole arti, dagli impiegati della Corte; ma essi come vedevano comparire quei seduttori, quasi fossero diavoli, mettevansi a recitare il rosario e a cantare salmi, finchè non se ne fossero andati. Frattanto pensavano a fuggire e una notte infatti, eludendo la vigilanza /203/ delle guardie, poterono uscire inosservati dal carcere e portarsi in Bonga dove, unitisi con un mercante cattolico e travestiti da suoi servi, con lui mossero verso Ghera. Senonchè poco cautamente essendosi fermati a passare la notte sulle rive del Goggèb, furono la mattina sorpresi dai soldati del re e nuovamente ricondotti alla prigione. Pareva fossero per essere più fortemente lor ribadite le catene, quando il re pei consigli della madre e di altri della corte venendo a miti sentimenti fece loro facoltà di andarsene: e così poterono raggiungere il loro amato padre ai confini di Ennèrea.

Frattanto anche il re di Ennèrea conoscendo il mal passo che aveva fatto, di più ammonito dalla madre, mandava una deputazione al Massaia pregandolo di ritornare in Saka colla promessa l’avrebbe risarcito dei danni sofferti e quindi innanzi protetto contro le mene de’ suoi nemici. Dopo i crucifige adunque gli osanna. Colla deputazione medesima inviata dal re, fra i canti di gioia degli stessi soldati, poche ore prima suoi aguzzini, e le acclamazioni festose delle popolazioni che all’annunzio della liberazione dell’abuna cattolico accorrevano sul suo passaggio, a varie tappe, dappertutto trattato largamente e onorato, il nostro apostolo giunse in Saka. Fu tosto dal re, al quale mentre presentava i suoi ringraziamenti per il permesso del ritorno, faceva osservare quanto ingiustamente fosse stato trattato ed iniquamente spogliato de’ suoi averi. Il re fece le sue scuse e promise l’avrebbe ristorato dei danni; intanto gli diceva di tornarsene tranquillo alla casa della missione, che non avrebbe più a temere altre molestie. Saputesi queste favorevoli disposizioni del re, tosto fu una gara fra i cattolici e gli stessi pagani /204/ nel rifornire la casa degli arredi e delle provviste necessarie; il che mostrava quanto grande fosse la stima e l’affetto che i nostri missionari s’erano acquistati nel breve tempo del loro soggiorno fra loro. Per compiacere ai mussulmani il re aveva perseguitato, come abbiamo visto, il nostro vescovo; ma pure da un mussulmano doveva per giusto castigo essere scorbacchiato solennemente e anche più gravemente danneggiato. Un giorno arriva in corte, non si sapeva donde venuto, un santone, un farabutto, il quale gli dice che prendendo sua moglie certa medicina da lui composta avrebbe dato alla luce un figlio il quale avrebbe dominato su tutti i popoli dell’Africa. Il credulo principe, infatuato di quella gran promessa, vuotògli nelle mani i tesori del suo erario e secondo il consiglio avuto fece prendere dalla moglie la magica pozione: ma questa pochi giorni dopo morì ed egli che n’avea presa la parte sua cadde malato, cosicché trovossi ad un tempo corbellato e coi danni.

La madre del re allora che aveva molta fiducia nella scienza medica del Massaia ricorse a lui perchè ne lo volesse guarire, e questi le promise avrebbe dal canto suo fatto il possibile per riparare alle fattucchierie di quel solenne impostore; gli ottenesse in compenso di condursi nei regni vicini dove aspettavano le cure del ministero.

Aveva bensì ricevuto il permesso di rimanere in quei luoghi, ma non fidandosi a quelle assicurazioni di pace aveva risoluto di allontanarsi, lasciando a suo vicario per Ghera e Kaffa il p. Leone. Risoluta dunque la partenza, la notte dell’11 Dicembre 1862 la carovana si mosse verso le frontiere dell’Ennèrea, diretta verso il villaggio di Nonno Billò. Quivi venne /205/ a raggiungerlo il buon Gabriele, il quale, come si vide dinnanzi al suo vescovo, gettandoglisi ai ginocchi e prorompendo in largo pianto, «padre mio, esclamò, in Lagàmara i diavoli cadevano a terra come le mosche ad una vostra benedizione, ad un vostro cenno, e poi come han potuto cacciarvi di Kaffa e di Ennèrea?[»] [«]Figlio mio, gli rispose il Massaia, tu credi che io sia stato vinto perchè sottoposto a pene e persecuzioni, perchè costretto ad esulare da quei regni; no, i ministri della fede, come il loro divino maestro, vincono quando ascendono il Calvario.....» E così è veramente.

Ma tornando al nostro Gabriele, chi non ammira qui l’affetto di questo figlio verso il suo padre spirituale? Maggiore non ne potrebbe mostrare qualunque più amoroso figlio verso il suo padre naturale.

Intanto pensando quel che si potesse fare in pro delle anime il Massaia venne nella deliberazione di mandare i sacerdoti Ioannes e Iacob e il catechista Gabriele nelle stazioni principali; compiuta l’istruzione necessaria, si sarebber ricondotti a Nonno Billò dove egli avrebbe conferiti i battesimi e prese altre opportune deliberazioni.

Il nostro vescovo frattanto attendeva indefessamente a catechizzare, a confessare e a predicare in Nonno Billò e una volta fra le altre narrò al popolo la commovente parabola del figliuol prodigo facendone le opportune applicazioni. Aveva appena finito che il più anziano dei catechisti, Desta Filippo, gettandosegli ai piedi e sciogliendosi in lacrime, padre mio, gli disse, eccovi ai vostri piedi un altro figliuol prodigo! e confessò pubblicamente come da cinque anni tacesse certi peccati in confessione e avesse altresì scandalizzato il popolo colle sue scostu- /206/ matezze. E il suo esempio fu seguito da altri che anch’essi si prostrarono ai piedi del missionario per essere prosciolti dalle loro colpe. Un primo ed abbondante frutto egli l’aveva già ottenuto: qualche giorno dopo si vedeva quello ottenuto dai suoi discepoli. L’una dopo l’altra dalle stazioni evangelizzate arrivarono le carovane di cristiani e catecumeni guidate dal loro missionario; venivan recitando il rosario e giunti poco lungi dalla cappella intonavano le litanie: Eghziò amaarèna Christos (Signore, abbiate pietà di noi), e continuando entravano in chiesa, dove ascoltavano la santa Messa e un sermone del vescovo.

Commovente oltre ogni dire era quello spettacolo di pietà, reso anche più commovente da ciò che miravasi alla porta della chiesa; due catechisti, peccatori pubblici, che con una pietra al collo si raccomandavano piangendo alle preghiere dei loro fratelli. Questa scena dei due penitenti pubblici, rei confessi, intenerì talmente un vecchio pagano che n’ebbe una forte spinta a convertirsi, come poi fece.

Questi trionfi della fede cattolica dovean naturalmente garbar poco ai mussulmani del luogo, i quali perciò, secondo il loro solito, a seminare contro i missionari la diffidenza presero a spargere sul loro conto calunniose voci che presto però si dileguarono; e così i loro iniqui sforzi furono compressi, specialmente per opera del vecchio galla sopraddetto, persona molto autorevole, il quale aveva detto pubblicamente: il sangue dell’abuna è sangue mio e se qualcuno ardirà torcergli un capello io dichiarerò guerra a tutti i mussulmani del paese. E questo aveva bastato a smorzare la loro baldanza.

Ritornata la calma nella missione e radunati /207/ quivi tutti i cristiani delle quattro stazioni, si raccolsero i frutti di quella missione: cento battesimi di adulti, cinquanta cresime e molte confessioni e comunioni.

Volendo estendere anche ad altri paesi l’opera del suo apostolato il nostro Massaia da Nonno-Billò recossi a Leka, grande centro di commercio di derrate per gli abitanti di Kaffa, del Sennaar e del Fasogl; e anche, per parte dei mussulmani, di carne umana. Era appunto questo il luogo dove quindici anni prima era stato venduto Giovanni Morka, diventato poi il sacerdote abba Ioannes. Questi che si trovava col Massaia raccontò allora la sua dolorosa storia che ebbe un esito tanto inaspettatamente felice. È pregio l’udirla.

Io, narrava dunque abba Ioannes, nacqui in un villaggio posto sulle sponde del fiume Gabba, le cui acque pel letto dell’Addura prima e indi del Sobbàt (1a) vanno a scaricarsi nel Nilo Bianco. Gaio chiamavasi mio padre e Bela mia madre. Un giorno mia madre, sventurata! di ritorno dal mercato cadde nelle mani di alcuni mussulmani che la fecero schiava. Intesa la cosa, io pieno di sdegno impugno la lancia e via in cerca di lei, per sottrarla dagli artigli di quegli infami. Per istrada m’imbatto in /208/ un uomo, il quale, saputo il mio caso (era uno scellerato anche lui), mi disse di seguirlo, che me l’avrebbe fatta ritrovare. E veramente dopo qualche ora di cammino giunto in un bosco la trovo, sì, ma poveretta! insieme con altri infelici strettamente legata. Mi slancio verso di lei per scioglierla dai lacci e liberarla; ma ecco, come avoltoi, piombarmi addosso due uomini o diavoli, che mi afferrano, mi legano mani e piedi e, postomi un grosso anello in bocca per impedirmi di gridare, mi gettano come un sacco presso un cespuglio. In quello stato già dolente per me stesso era anche più dolente per la sorte della mia povera madre, che non potevo vedere, ma di cui sentivo però i gemiti affannosi, le grida disperate.

Scese le tenebre, quei fieri ladroni ci legarono tutti pel braccio sinistro ad una fune e, alzata la frusta come branco di bestie indocili, ci fecer partire. Per sentieri angusti e fuor di mano, collo stomaco vuoto, colle labbra riarse, coi piedi stracciati dai bronconi e dalle spine e il braccio stretto fra quelle morse ci spingevano avanti, avanti sempre, e se talvolta, non potendone proprio più, ci arrischiavamo a chiedere un po’ di riposo o di ristoro, due minuti di fermata, una stilla di acqua, ci rispondevano con dure staffilate. L’infelice mia madre nel traversare un fosso vi era traboccata dentro e pregava lamentosamente l’aiutassero per pietà a rilevarsi; quelle tigri le risposero col menarle più forte la frusta sul dorso, finchè la poverina si rialzò da se e si rimise in cammino. Povera madre mia! come mi ferivano il cuore i tuoi gemiti pietosi! E non poterti aiutare, non poterti neppure rivolgere /209/ una parola di conforto! che sempre da me lontana ti tenevano quegli snaturati.

Così trottammo tutta la notte, finchè cominciando ad albeggiare ci fecero per precauzione entrare in una densa foresta, dove, toltoci l’anello di bocca, ci diedero finalmente un po’ di ristoro, un pezzo di cattivo pane e un corno d’acqua, mentre essi, quelle iene, sul nostro viso si trionfavano allegramente una lauta colazione. Ci trattenemmo in quel bosco tutta la giornata prendendo un po’ di sollievo, quanto era possibile collo stomaco quasi vuoto e colle catene ai piedi. Sull’imbrunire, al suono dello staffile ci fecero rimettere in via; e cammina, cammina, noi a piedi ed essi, al solito, a cavallo, finalmente innanzi giorno arrivammo in un villaggio dove ci allogarono gli uomini in una capanna e le donne in un’altra. Quivi ogni tanto venivan mercanti di schiavi che, contrattatine alcuni, se li portavano via. — Trascorsi dieci giorni, durante i quali appena qualche rara volta ci era permesso di rivolgerci io e mia madre un semplice sguardo (oh giorni di dolore e di angosce!), ci fecero un’altra volta ripigliare il cammino ed avviare pel Gudrù. Arrivati alla spiaggia del Ghiviè mi fu finalmente concesso di parlare per alcuni minuti con mia madre: che potevamo dirci se non parole di pianto, di vicendevole compassione?

Allo scendere della notte nuovamente ci rimettemmo in via. Splendeva un candore di luna che rendeva anche più lugubre lo spettacolo di quella lunga fila di condannati che trottavan, trottavan, meschini! incalzati dalla frusta. Salimmo la montagna del Tibiè e senza ricevere altro conforto che di scudisciate, viaggiando un altro giorno e un’altra /210/ notte, pervenimmo a Kobbo dove avemmo alcuni giorni di fermata e un po’ più di cibo e, quel che era più ambito da me, la libertà di parlare con mia madre. Oh che storia di dolori, di angosce da narrarci a vicenda!

Sempre di notte ripartimmo dopo alcuni giorni per Asàndabo, gran mercato di schiavi nel Gudrù. Qui fummo crudelmente separati io e mia madre, senza poterci rivolgere pure una parola, uno sguardo! senza saperne nulla! Ma un giorno oh sì potei sapere qualche cosa; la povera madre mia era stata venduta; e dove condotta? Dicevasi a Baso, ma presso di chi? Povera madre mia! Che strazio fu quello al mio cuore che tanto t’amava! Mi s’avvolsero gli occhi, caddi in deliquio che non credevo più di riavermi. Risensato da quel doloroso stordimento stetti tre giorni quasi senza prender cibo, senza voler ricevere conforto. Allora un mercante mi disse me l’avrebbe fatta ritrovare: mi racconsolai un poco; ma eran bugie.

Finalmente venne anche la mia volta; anche io fui comperato da un mercante mussulmano, presso il quale passai qualche tempo, direi tranquillo, ormai rassegnato alla mia dura sorte. Questi mi condusse un giorno al mercato di Gondar per rivendermi; ed ecco presentarsi un bianco con una gran barba folta e due occhiali sul viso, il quale, fatte alcune parole col mio padrone e sborsate alcune monete, mi condusse via con sè. Credevo di aver cambiato schiavitù e non altro; ma oh quanto felicemente m’ingannavo! Quel signore non era punto un mercante di schiavi, un duro padrone come gli altri, no, ma un discepolo del buon abba Messias, del nostro carissimo abuna, era il compianto padre /211/ Cesare! Oh quanto lo ringrazio della carità usatami! Quanto sento di volergli bene!

Ed ora eccomi qui da quindici anni libero, cristiano e da più anni anzi sacerdote. Oh sia benedetto Iddio! sia benedetto Iddio che è stato così buono con me! Ritornato poi in questo frattempo al paese natio ritrovai ancor vivo il padre, alcuni fratelli e cugini, ma della povera mia madre nè io nè essi non avevan più intese novelle! Il Signore le abbia avuto compassione! (1b).

(1a) Nel bacino di questi fiumi vi sono delle miniere d’oro, che da alcuni anni sono sfruttate da una società fondata, con capitali in gran parte stranieri, da un mio compaesano, Alberto Prasso di Mongardino, un semplice contadino dalla volontà tenace e dall’operosità sagace e intraprendente. Lavorò dapprima nelle miniere d’oro dell’Alasca, indi in quelle diamantifere di Joannesburg al Capo di Buona Speranza, finchè si portò nelle parti occidentali dell’impero abissino, nelle regioni sopraddette, dove ora col permesso del Negus Tafari con una squadra di oltre mille operai attende allo sfruttamento di quelle miniere. [Torna al testo ]

(1b) Una vera crociata in favore della redenzione cristiana dell’Affrica è quella che propugna il sodalizio di S. Pietro Claver, specialmente col bollettino dell’Eco dell’Africa. Questo periodico, mensile, illustrato si pubblica in nove lingue con una tiratura complessiva di 40 mila copie. L’edizione italiana esce a Roma, via dell’Olmata 16. Il grande sodalizio fu fondato dall’illustrissima contessa Ledocovscha, ed ora è diretto dalla contessa Falkenaim. Con lo stesso intento il sodalizio publica ogni mese un opuscolo dal titolo: «Il fanciullo negro».

A proposito di periodici missionari vogliamo qui ancora ricordare Le Missioni illustrate, che si publicano dai missionari di Parma: ogni numero contiene magnifiche e veramente artistiche illustrazioni. [Torna al testo ]