Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

/212/

Capo XIX.

Nuovamente a Lagàmara. — Missione fruttuosa. — Malattia disperata. — Guarigione. — Tra amici. — Il padre del fantatà. — Un pranzo d’onore. — A Gemma Nunnu. — Timori svaniti. — Un altro pranzo d’onore. — Elma Gibba. — A Kobbo e a Loia. — Neofita missionario. — Ricevimento trionfale. — Un capitano modello. — Battesimo e matrimonio. — Partenza pel Goggiàm. — Il monaco Tecla Haimanòt; quanto zelo! — Dubbia accoglienza. — La fuga del traditore. — Ritorno forzato nel Gudrù. — Occupazioni apostoliche.

Tornando da quesia lunga digressione, lunga ma necessaria a farci conoscere la orribile mostruosità della schiavitù ed il beneficio ineffabile arrecatoci dalla religione cristiana che ci dichiara tutti fratelli, tornando, dico, al filo della nostra istoria. Mons. Massaia dopo raccolti non pochi frutti di salute in Leka, mosse pel villaggio di Ciau. Dopo alcuni giorni di ministero in questo villaggio accompagnato da ben cinquanta persone a cavallo e da tutta, si può dire, la popolazione che mandavagli lieti evviva, prese la volta verso Lagàmara. Oltrepassato il fiume Ghiviè, ecco una folla anche maggiore di gente che /213/ l’aspettava, cento uomini a cavallo e una gran calca di altre persone a piedi, che tutte con alte grida d’allegrezza gli diedero il ben venuto e cantando e danzando l’accompagnarono festosi alla casa della missione. Quivi giunto Mons. Massàia, fatta sedere tutta quella moltitudine all’ombra di un sicomoro e di un’euforbia che potevano proteggere sotto la loro chioma ben mille persone, cordialmente la ringraziò di quella entusiastica accoglienza e, assicuratala del suo costante affetto, la congedò. La casa per l’occasione di tanto ricevimento era stata addobbata di tutto punto, erasi persino coperto il pavimento di prezioso tappeto (uno strato di finissima erbetta, specialità in tappeti di quei paesi) ed erasi pure, naturalmente, preparato un buon pranzo, regalo d’un maggiorente del luogo.

Fatta la dovuta visita al padron di casa, cioè a Gesù Sacramentato, sedettero tutti in circolo per godere di quel ben di Dio. Ed ecco cominciare una sfilata di persone che venivano a portare i loro regali all’abuna: burro, latte, pane, birra, idromele, galline, uova, pecore, persino buoi; in tal quantità che se ne ebbe fatta una provvista da bastare al sostentamento di trenta persone per ben otto giorni. — Oh! com’è vero che anche il cuore del selvaggio sente la gratitudine!

Il giorno dopo, domenica, per secondare il proprio desiderio e ricompensare la loro carità temporale colla carità spirituale il nostro vescovo annunciò avrebbe la dimane incominciata una missione generale che sarebbe durata otto giorni. Incredibile fu il fervore con cui si corrispose a questa grazia del Signore: a non parlare degli abitanti di Lagàmara, ogni giorno giungevano da /214/ luoghi distanti numerose carovane di persone per ascoltare i catechismi, le prediche, assistere ai divini uffizi, riconciliarsi con Dio, e partecipare alla santa mensa. E per soddisfare al desiderio di tutti si dovette da due sacerdoti confessare due interi giorni e gran parte della notte. Era uno spettacolo di fede e di pietà che davvero metteva consolazione e che segnatamente al nostro Massaia faceva dimenticare tutte le pene precedentemente sofferte.

Un’altra consolazione riceveva in quei giorni il nostro apostolo, e fu l’arrivo del suo coadiutore Mons. Cocino, che gli recava varie notizie, tutte liete: che nel Gudrù aveva trovato quasi tutti i soldati di Gama Moràs fatti cristiani dal loro bravo comandante, Ualde Ghiorghis, e che egli era riuscito a Gemma Nunnu a far abolire in favore dei missionari il diritto del sangue, che quale fosse vedremo più avanti. Potevano così d’ora in avanti viaggiare per quelle regioni con sicurtà, anzi certi di essere molto ben accolti: poichè il capo di Gemma Nunnu aveva in pubblica adunanza dichiarato l’abuna Messias suo padre e i discepoli di lui suoi fratelli.

Ma intanto sorgevano altre questioni per le quali si rendeva necessario un suo viaggio a Roma. E decise di partire. Ma ecco la sera di quel giorno stesso, forse per la fatica durata in quei giorni di missione, forse pei precedenti strapazzi della sua cattura, forse per tutto questo insieme sentirsi male tantoché dovette porsi a letto con una gran febbre; e le cose si fecero in breve tanto gravi che gli furono amministrati gli ultimi sacramenti; gli fu persin preparata la cena e il loculo nel cimitero per la sepoltura. Sparsasi questa notizia in Lagàmara e nei dintorni, fu tosto un accorrere premuroso di quella /215/ gente alla casa della missione a chiedere notizie dell’infermo, a sospirare, a pregare Iddio di non volerle così presto togliere il suo buon padre; talché se da una parte si doveva piangere pel timore di perderlo, dall’altra si doveva gioire di consolazione a mirare il vivo affetto che quel popolo gli portava.

Ma il Signore si degnò di ascoltare le preghiere di quei buoni cristiani e Mons. Massaia potè, sebbene adagio, ripigliare a mano a mano le forze e ristabilirsi, sicché il 26 agosto egli nuovamente saliva all’altare. Fu una festa per quei fedeli, e per ringraziare Iddio del favore loro accordato ascoltarono in quel giorno la Messa e fecero la Santa Comunione. In questo medesimo tempo giunsero al nostro vescovo notizie confortanti dei suoi cinque mila cristiani di Kaffa, e doni di quel re e doni altresì da parte del re di Ennèrea. Come si vede, le cose erano molto mutate in favore della Missione.

Presa la risoluzione di avviarsi verso la costa per tornare in Europa, una notte col sacerdote Ioannes, abba Fessah e alcuni catechisti il Massaia lasciò segretamente Lagàmara e mosse verso Gobbo, dove essendo conosciuto il suo arrivo venne accolto fra le più entusiastiche dimostrazioni di gioia. Fermatosi alcuni giorni per inoculare il vaiuolo e istruire quelle popolazioni si diresse quindi verso Giarri; anche qui fu ricevuto colle stesse cordiali maniere e salutato da una turba di fanciulli al canto di certe canzoni in onor suo che finivano col ritornello: Kan finuo curiccoà dufe; egafinuo engirù (È venuta la medicina del vaiuolo; non c’è più vaiuolo).

Sostenute anche qui le solite fatiche di medico spirituale e corporale, prese verso Gombò. Giunto /216/ sulla cima della montagna che divide Gombò da Giarri volse uno sguardo a tutti quei paesi che lasciava e sentissi intenerire il cuore; senza saperlo, era l’ultimo sguardo, l’ultimo saluto che loro rivolgeva. Scesa la montagna, ecco una moltitudine di gente; era la popalazione di Gombò che con grida e canti e salti d’allegrezza veniva a ricevere il padre del fantatà, come chiamano essi il vaiuolo, dal quale per suo mezzo erano stati preservati. — Entrato in casa dell’ospite non ebbe appena tempo di prendere un po’ di riposo che tosto fu costretto uscirne e andarsi a sedere sotto un albero (stile di quei paesi) per ricevere le congratulazioni di quella buona gente. Venivano a lui portando regali e, inchinatolo, gli baciavano affettuosamente chi i piedi, chi le mani, chi ancora la bocca con grandi schiocchi di labbra, perchè, dicevano, la bocca del gran prete bianco ha la virtù di fugare le malattie.

A compiere l’allegrezza il giorno dopo, impaziente di vederlo, comparve Avietu; il che, essendo egli tenuto per il più cospicuo personaggio del Gudrù, fu reputato per Gombò un grande avvenimento. Quivi sarebbesi il Nostro volentieri fermato alcuni giorni, ma avendo data parola di portarsi nel termine di tre giorni a Gemma Nunnu, ed essendo spirato questo termine, convenne apparecchiarsi alla partenza. Non è a dire con quale dispiacere ricevesse la popolazione tale notizia; per rifarsene, non contenti delle dimostrazioni d’affetto già dategli, ancora la notte parecchi s’introdussero cautamente nella capanna dov’egli dormiva ed accostatisi gli baciavano reverentemente i piedi, esclamando commossi: Oh! il padre ci lascia e non lo rivedremo più! Scena che ci richiama alla mente quella pur tanto patetica di /217/ S.  Paolo allorché stava per abbandonare quei di Mileto.

La mattina seguente ecco un’improvvisata: arriva con un seguito di dieci lancie il capo di Gemma Nunnu, Natan, appositamente venuto per vedere quel bianco tanto buono e condurselo ospite qualche giorno in casa sua. Non occorre dire che per onorare insieme il forestiero e il nostro missionario si tenne un sontuoso banchetto in cui non finivano di risuonare gli elogi al gran padre bianco, al gran benefattore degli uomini. Per conoscere il motivo di tanta premura di Natan pel nostro Massaia è da sapere che quest’uomo s’era dieci anni innanzi raccomandato alle preghiere del nostro vescovo per avere da Dio un figlio: ora il figlio l’aveva avuto e contava già nove anni, anzi era qui venuto con suo padre per conoscere di presenza questo straordinario bianco.

Commovente e affettuoso oltre ogni dire fu il congedo del nostro Massaia da quella popolazione che volle seguirlo fra cantici di lode e grida di gioia fino alla frontiera di Gemma Nunnu, dove un’altra turba di gente l’aspettava per abbracciarlo e dargli il ben arrivato. Circa un mese dovette fermarsi a Gemma Nunnu per poter soddisfare al desiderio di quella popolazione; durante il quale inoculò il vaiuolo a ben mille persone e per sè e per i suoi aiutanti istruì quella gente nelle cose della nostra santa fede raccogliendone copiosi frutti. Ma il più notevole e di maggior conseguenza fu la conversione di Elma Gibba, l’uomo più autorevole del paese. Questi lasciandosi corrompere dalle arti di un infame mussulmano teneva una cattiva condotta e lasciava in doloroso abbandono la sua sposa. Ma /218/ istruito dal nostro apostolo cambiò vita, la ruppe apertamente con quel cialtrone e si riconciliò sinceramente con sua moglie, anzi decise di abbracciare con lei il cristianesimo, come poi fece.

Intanto essendo passato il termine fissato, si volle, prima che partisse, dargli un segno della loro riconoscenza e del loro affetto coll’imbandire un banchetto in cui si consumò tanta roba da saziare, nonché poche persone, ma l’intero villaggio. Tutti poi che avevano ricevuto da lui il benefizio dell’innesto del vaiuolo e quello più prezioso della cognizione della fede vollero fargli qualche regalo, Elma Gibba di due buoi, e gli altri di capre, di pecore, sì da formare addirittura delle mandrie; senza contare il miele, il pane, la birra ed altro. Anche qui la partenza fu commovente: i capi lo accompagnarono fino alla frontiera a cavallo, uomini e donne a piedi, salutando, acclamando, e i fanciulli prendendolo per la tonaca e a modo loro esprimendo la propria riconoscenza. Era spettacolo da cavare le lacrime.

Ricordando questi ed altri fatti il nostro santo missionario scriveva: «A dire il vero io non credevo che la vita dell’apostolo in mezzo a tante spine che inevitabilmente incontra nel suo difficile cammino possa far trovare quasi ad ogni passo le rose del conforto e delle più dolci consolazioni... E di queste gioie e consolazioni il Signore mi ha tanto colmato che temo non abbia a privarmi del merito e del compenso delle povere mie apostoliche fatiche nel gran giorno dei finali conti».

Varcato il confine, fu ricevuto da Gama Moràs e dal seguito dei suoi cavalieri che lo precedettero in Kobbo per avvertire la popolazione del suo felice arrivo: e uomini e donne, vecchi e fanciulli, non /219/ solo cristiani ma e pagani ed eretici gli mossero festevolmente incontro. Dopo otto giorni di fermata in questo villaggio, spesi nella cura spirituale dei cristiani e nel trattare la pacificazione dei vari capi del Gudrù con Gama (cosa che poi gli riuscì di concludere), mons. Massaia volse i passi verso Loia, patria del suo caro Avietu.

Quivi ebbe molte consolazioni, perchè con suo stupore trovò quasi tutta quella popolazione sufficientemente istruita nella religione cristiana; e tutto, si può dire, per opera di Avietu, trasformatosi pel suo zelo in vero missionario. Il buon giovane infatti prima a’ suoi famigliari e dipendenti e poscia colle sue insinuanti maniere anche agli altri, in ciò imitato dalla moglie, aveva dato assetto cristiano alle famiglie sia coll’invitarle a prender parte alle preghiere che ogni giorno egli faceva in una sua cappella e sia coll’indurle a disporre ogni cosa in modo da non offendere i costumi. Pel che non è a dire quanto restasse edificato ed insieme consolato il cuore del nostro vescovo: davvero aveva di che gloriarsi di questo suo figliuolo spirituale. Anche qui, specialmente pei motivi sopraddetti, raccolse il nostro apostolo larga messe di frutti spirituali, il battesimo di molti fanciulli e adulti e la confessione e comunione di parecchi.

Lasciata Loia e fatta nel percorso una breve sosta ad Ameliè, premurosamente accolto dalla madre di Gama, Dunghi, cristiana nonagenaria, si avvicinò col suo seguito ad Asàndabo. Qui l’aspettava una accoglienza veramente principesca. Gama Moràs, circondato dai grandi del suo regno, gli diede il benvenuto; cento fucilieri guidati dal fedele Ualde Ghiorghis sparavano a salve; la popolazione tutta /220/ riversatasi per le vie applaudiva freneticamente; squadre con tamburi e pifferi suonavano la marcia; gli occhi di tutti fissi nel Massaia che procedeva fra tutta quella moltitudine come un sovrano che da lungo tempo assente ritorni allora fra gli affezionati suoi sudditi.

Questo clamoroso e schietto ricevimento certo consolò il cuore dello zelante apostolo, ma molto più lo consolò il trovare la religione cattolica fra quella popolazione largamente progredita: il merito principale, dopo i missionari che ogni tanto avevan dato colà qualche corsa, doveva attribuirsi al capo dei fucilieri, Ualde Ghiorghis, che fra i soldati aveva veramente fatto l’apostolo. Infatti quasi tutta la sua arme, un centinaio, egli aveva ridotta cristiana ed ascritta alla compagnia di S. Michele, da lui fondata ed altri cento lancieri aveva pure guadagnati alla stessa causa e mantenutili fedeli alle pratiche religiose ed in esse infervoratili.

Fin qui aveva seguito Mons. Massàia anche Elma Gibba, il quale al veder così festose accoglienze all’abuna, così schietti sentimenti di pietà e religione in Ualde Ghiorghis risolse di anticipare il suo ingresso alla religione cattolica. Tolto pertanto commiato dal Massaia, tornò tutto lieto a Gemma Nunnu a riferire le meraviglie vedute, e a consolare i suoi parenti e specialmente la sua sposa coll’annunciarle il suo proposito di farsi anch’egli cristiano, e di serbarsi quindi innanzi fedele all’abuna, per essere, diceva, anch’egli felice come aveva trovato felice il suo amico Avietu e Ualde Ghiorghis. La sua comparsa in contegno e maniere tanto aperte e liete rallegrò la famiglia che perciò per tre giorni ne menò festa, e intanto sì stabilì che egli e la sposa /221/ si porterebbero ad Asàndabo per prepararsi entrambi al battesimo e ricevere la benedizione nuziale secondo il rito cattolico. E anzi il termine convenuto Elma era di ritorno ad Asàndabo per sollecitare il desiderato compimento dei suoi voti. Alcuni giorni dopo Mons. Massaia battezzava in Loia ed univa in matrimonio coi riti della Chiesa Elma e la sua compagna. Non occorre dire che Avietu preparò per l’occasione un lauto banchetto e che reduci i novelli sposi nella loro patria furono accolti coi segni della più viva allegrezza.

Ritornato ad Asàndabo e date a Mons. Cocino le istruzioni necessarie pel governo della missione durante la sua assenza, il nostro Massaia agli ultimi di maggio 1861 mosse verso il Goggiàm, diretto, come già abbiamo detto, verso la costa. Con sè aveva un vecchio venerando, abba Gualu, e quel tristo arnese di abba Fessah che tanti dispiaceri già gli aveva dati e che lo aveva costretto a tenerlo per molti anni sospeso dalla messa. S’era condotto seco costui con intenzione di rimandarlo nella sua patria passando pel Tigrè, donde era nativo. Tragittato dunque l’Abbai sulla solita zattera spinta a forza di braccia da esperti nuotatori, fu all’altra riva sul territorio goggiamese. A brevi tappe nei villaggi di sua conoscenza, Zemiè, Naura, sempre cortesemente accolto da antichi e nuovi amici giunse al santuario di Devra-Iacob dove ebbe ospitalità dal clero che lo ufficiava.

Passata ivi la notte, la mattina, giorno di domenica, prese il cammino verso Monquorer o Moncòrer, residenza di Tedla-Gualu e presente capitale del Goggiàm.

Ad un certo tratto ecco farglisi innanzi un mo- /222/ naco che gli dice con petulanza e insieme con aria di autorità: che religione è la vostra che vi mettete in viaggio in giorno di domenica senza avere prima ascoltata la Messa, e non riflettendo che come Vescovo non potete traversare questi paesi senza il permesso del principe? Sappiate che vi potrei fare arrestare. Sono ai vostri ordini, rispose modestamente il Massaia, ma posso dirvi che non solo n’ho il permesso, ma l’invito dal Degiace Tedla Gualu. Quel prepotente rimase sconcertato. Ma chi era questo tipo strano di monaco? Era Tecla-Haimanòt, già altrove da noi menzionato, dai Goggiamesi tenuto in concetto di santo, ma che però veramente dava poco odore di santità come tutti i monaci eretici di quelli e d’altri paesi.

Ma come aveva potuto questo monaco conoscere la condizione del nostro missionario? Era stato il tristo abba Fessah che andato con finti motivi a lui, lo aveva informato di ogni cosa, anzi gli aveva, da buon discepolo del Massaia! fatto intendere che questi venisse a Monquorer con animo di tradire Tedla Gualu! Lo scellerato poi per non essere scoperto fuggì una notte segretamente, lasciando detto che si portava alla sua patria, ma in realtà ritornando ad Asàndabo. Tecla Haimanòt, sentite tutte queste notizie dal degno suo amico abba Fessah, fu tosto a riferirne a Tedla Gualu presso cui godeva grande autorità e da cui era lautamente mantenuto. E Tedla Gualu dando ascolto a quelle voci, contro le promesse fatte per iscritto, trattò il nostro missionario assai freddamente e per più giorni anzi lo tenne sotto severa guardia: finchè venuto in chiaro di quegli indegni maneggi lo ricevette cortesemente dandogli buone parole di amicizia e di favore. Ma di /223/ andare avanti pel povero vescovo non ne fu nulla; dovette suo malgrado tornare al Gudrù.

Saputosi il suo ritorno, i soldati di Ùalde Ghiorghis gli mossero incontro e vedutolo arrivare alle sponde dell’Abbai, tosto si cacciarono in acqua e fatto delle loro braccia un sedile o zattera, sopra di essa nuotando lo tragittarono allo sponda opposta. Giunto il Massaia in Asàndabo fu a trovare Gama Moràs, al quale fece rimostranze di non avere, secondo la promessa, fatto legare il traditore abba Fessah, dicendogli che per questo forse Iddio l’avrebbe punito. E veramente qualche giorno dopo gli Uarakumbi, suoi nemici, subornati dallo stesso abba Fessah, assalirono e misero a fuoco tre capanne di Gama; e peggio avrebber fatto se non fosse sopravvenuta la compagnia di S. Michele, cioè i soldati di Ualde Ghiorghis, a disperderli. — Abba Fessah fu inseguito dai soldati ma potè sfuggire alle loro mani e riparare in Lagàmara, dove, gettata la maschera, si fece pagano, compiendo poi anche altre imprese degne di lui, tra le quali quella di abbattere e svaligiare la chiesa cattolica: ma arrestato, fu condotto in carcere a meditare un po’ sui proprii traviamenti.

Intanto, essendo sopravvenuta la stagione delle pioggie, bisognava, volere o no, in quanto al viaggio mettere il cuore in pace, Rincrescendogli però gettare inutilmente il tempo, il nostro missionario rivide i paesi dei dintorni, Kobbo, Loia, Ameliè, dappertutto istruendo, esortando, dando norme di vita cristiana. Mandò anche a dare una missione tra gli Urumi, popoli abitanti lungo le coste del Nilo Bianco, i sacerdoti Ioannes e Iacob, i quali tornati qualche tempo dopo riportarono notizie di /224/ molti frutti ottenuti, segnatamente la conversione di uno di quei principi, il quale pregava gli si inviasse un missionario stabile, che egli l’avrebbe provveduto di cappella e del necessario sostentamento; cosa alla quale molto volentieri avrebbe aderito il Massaia, se gli fosse stato possibile.

Ma ciò che non era dato compiere a lui la Provvidenza pochi anni dopo disponeva compiesse un altro grande missionario italiano, mons. Daniele Comboni, al quale e a’ suoi figli furono appunto assegnati ad evangelizzare tra gli altri anche i popoli abitanti lungo il Nilo Bianco.

Scemate intanto le acque dell’Abbai, il nostro Massaia prese a passare qualche volta nel Goggiàm; anzi, trovata scavata nella roccia una grotta abbastanza capace, colà ogni tanto si recava fermandosi anche parecchi giorni in spirituale ritiro e ricevendo le persone che venissero a lui per essere istruite. In Asàndabo diede una muta di esercizi spirituali alla compagnia di San Michele che gli fruttò molte consolazioni; e volendo poi giovare altresì ai popoli lontani ed anche dopo che fosse costretto ad abbandonare quelle regioni tradusse in lingua amarica (lingua volgare abissina) e in lingua galla gran parte delle lezioni del secondo notturno del breviario, contenenti in compendio la vita dei santi, e un manuale di istruzione religiosa intitolato: Differenza tra i cristiani d’Etiopia e i cattolici latini in materia di fede, di riti e di costumi; i quali libri diffusi a molte copie produssero abbondanti frutti. Sopraggiunta intanto la buona stagione, pensò a preparare la sua partenza che doveva essere segreta per non disgustare quelle buone popolazioni e per non crearsi degli ostacoli.