Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

/225/

Capo XX.

Verso la costa. — In una grotta. — I Uoìto. — Lugubri spettacoli. — L’imperatore Teodoro. — Sperduti nella nebbia. — Nelle mani dei predoni. — Prigionia dolorosa. — Conversione del corregna. — Cure affettuose del convertito. — Al campo di Teodoro. — Tristi pensieri. — Il supplizio del manchor. — All’udienza di Teodoro. — Inaspettata liberazione.

Sullo scorcio del maggio 1863 accompagnato da un giovane di nome Stefano, fratello del prete indigeno abba Matteos, e da abba Michael, giovane monaco di Saint, il nostro Massaia riprendeva il viaggio verso la costa; al solito, a piedi, col bastone in mano e la bisaccia sulle spalle. Essendo la contrada infestata dai soldati o meglio predoni del re Teodoro, che ormai col terrore dominava dappertutto, conveniva usare delle precauzioni. E però camminava sempre di notte, il giorno riposando presso qualche fidato amico o conoscente dei suoi due compagni di viaggio. La sera del settimo giorno sentendosi stracco morto dalla fatica del viaggiare deliberò di fare una sosta un po’ più lunga presso un amico /226/ di abba Michael. Costui per assicurarli da ogni pericolo dei soldati che razziavano in quei luoghi li condusse in una grotta segreta. Attraversato un bosco, si discese in un burrone e per un sentiero a zig-zag, appena tracciato tra rovi e piante, si giunse ad una caverna, dove entrati, in poco d’ora fu loro apprestata una buona cenetta con polenta d’orzo condita di burro e con latte, pane e birra, che li ebbe tutti ristorati.

Ma chi erano questi ospiti tanto benevoli? Essi, in numero di quattro, tra coniugi e figli, erano individui della razza Uoìto, la stessa che i Mangiò, già trovati in Kaffa; una razza che vive a sè, senza mescolarsi colla razza amarica o paesana; che ha usi e lingua propria di cui il nostro Massaia raccolse memorie preziose, che poi sgraziatamente andarono perdute; come vedremo. Hanno qualche idea di Dio, della creazione, dell’immortalità dell’anima e del fine ultimo dell’uomo e in quanto a moralità sono per molti rispetti migliori degli altri popoli dell’Africa. Una caratteristica del loro tipo che conservano invariato non usando imparentarsi con altra razza è il portare il lobo dell’orecchio molto allungato; ciò che ottengono coll’appendervi fin da fanciulli una pietra che lo aggravi in basso, Si cibano molto volentieri delle carni d’ogni sorta d’animali e con più gusto della carne di scimmia, come di pelle di scimmia è il cappello a forma di piramide che usano portare.

Passati alcuni giorni con questi cortesi ospiti, una mattina si ripartì e la sera si giunse presso un santuario tutti fradici dalla pioggia. Trovato un po’ di ristoro nella carità di alcune buone donne, che quivi presso abitavano come dedite alla vita pia, e /227/ preso un po’ di riposo, come era possibile in quei luoghi, la mattina seguente si riprese il cammino con una nebbia così folta che a pochi metri non si distingueva nessuno, ogni tanto trovando traccie del passaggio dei soldati di Teodoro, cioè cavalli, buoi, pecore, altre morte di fresco, altre già putrefatte, quivi ammazzate o morte di fame. Fortuna che la notte le belve della foresta, le iene singolarmente, s’incaricano esse di fare pulizia col divorare quelle carogne, se no l’aria ne rimarrebbe appestata.

Teodoro non era dapprima che un vassallo di ras Aly, di cui sposò una figlia. Animo audace e ambizioso, concepi presto il disegno di soppiantare il suocero nell’egemonia dell’Abissinia. Col pretesto che Aly favoriva i mussulmani gli ruppe guerra. Questi che trovavasi a campo contro la fortezza di Somma nel Goggiàm mandògli contro due eserciti, ma un dopo l’altro furono sconfitti. Allora Teodoro andò ad assalire lo suocero a Somma e l’obbligò a rifugiarsi a Devra Tabor. Uscito di là Aly chiamò in soccorso i Uollo Galla, mussulmani, ma anche questi furono vinti; e da quel punto Aly cessò di regnare, abbandonato da tutti. Così l’Abissinia cadeva man mano sotto il dominio del nuovo conquistatore. Questo famoso Teodoro, chiamato dal nostro Massaia il Napoleone africano, aveva abilità guerresca straordinaria e strategia somma. Con rapidissime mosse giungeva improvviso sui nemici che non se l’aspettavano e ne faceva macello, depredando poi le case, devastando le campagne, conducendo gli abitanti schiavi e impadronendosi di quanto trovasse, bestie, vettovaglie e ogni cosa. A niuno, neppure ai suoi soldati, svelava la sua tattica; se li faceva venire dietro alla cieca, dopo averli colla /228/ sua vibrata parola entusiasmati e affascinati. Quelli che resistevangli venendo poi sottomessi erano trattati col massimo rigore e con vera ferocia: depredazione, ostaggi dei principali personaggi e tasse ingenti. In breve il paese da lui percorso, e fu quasi tutta l’Abissinia e altresì alcune tribù galla, divenne un deserto. La sola provincia del Beghemèder, donde era egli nativo e dove teneva il suo quartier generale, godeva i frutti di tante rapine; poichè vettovaglie, bestie, tutto era quivi dai paesi depredati trasportato e, per loro maggior dolore ed onta, dai vinti stessi. Ma avvenne poi che gli abitanti del Beghemedèr vedendo tanta bella grazia di Dio non pensassero più a lavorare i campi; onde, consumata pure quella gran provvisione, si trovarono affamati, aggiungendosi al flagello della fame quello della epidemia, cagionata dai miasmi che le bestie, morte per non trovar foraggi, emanavano dai loro carnami putrefatti.

Rimessasi, come abbiam detto, la nostra comitiva in via, tirò avanti tutta la giornata, sempre tra quella fittissima nebbia, sperando dovesse servirle di salvaguardia; ma sgraziatamente doveva esserle fatale, perchè non conoscendo bene per qual via fossero incamminati, ecco nel salire l’altipiano del Nagalà dare proprio nelle mani dei soldati di Teodoro, che non è a dire se subito con piglio feroce e ghigni di diabolica compiacenza furon loro addosso. Legatili tutti e tre li condussero ad una capanna dove, tolta loro la provvisione e quei pochi talleri che avevano, miser loro una catena ai piedi legandoli a due a due, Abba Michael col giovane Stefano e il nostro Monsignore con un giovane di colà. Per soprassello la notte prese a piovere dirotta- /229/ mente; onde coll’acqua che cadeva di sopra, dal mal riparato tetto, e con quella che s’apriva il varco di sotto, al piede delle pareti di frasche, aggiuntavi una brezza tagliente, quale si prova all’altezza di 3 mila metri sul livello del mare, con quei leggeri cenci ch’eransi lor lasciati addosso, non è a dire qual delizia fosse.

Dopo una nottata così terribile ecco al mattino giungere l’ordine dallo sciàlaca Gember, governatore militare dell’alto e basso Nagalà, di tradurre i prigionieri al campo di Teodoro. Tolte loro le catene ai piedi e messele invece ai polsi, vennero avviati ad una prima stazione, a Nagalà, e presentati al suddetto sciàlaca, che un po’ più umano di quelle tigri di soldati assegnò loro una capanna a parte ordinando ai soldati li trattassero con riguardo. Tuttavia il nostro vescovo era sempre legato colla catena ad un corregna, o compagno di ceppi, il quale non cessava di dargli molestia coi suoi pessimi costumi e coi non meno luridi discorsi che teneva coi compagni che venivano a trovarlo. Pure pensava il nostro missionario che il miglior modo di cavarsi da quel fastidio si era di cercar di ammansirlo; e prendendolo a trattare colle buone riuscì infatti ad attaccare un discorso un po’ serio con lui. Dal quale molte cose venne a sapere: che il suo padrone sciàlaca Gember era stato il capo di quella fazione che aveva disertato i pastori Zellàn, quei suoi buoni amici che ricordiamo: che tutti in quell’assalto erano stati uccisi e quindi anche il suo caro Melàk; che una delle donne fatta schiava di Gember istesso menava nella sua condizione una vita molto morigerata. Costei, aggiungeva poi il giovane, ogni tanto racconta come quando si trovava al suo paese capitò /230/ colà un bianco di modi molto cortesi e di aspetto veramente venerando, il quale insegnò loro tante belle cose, specialmente in quanto al vivere onesto e pio e in quanto al bisogno di ricevere il battesimo per salvarci, ma non il battesimo dei preti abissini, sì un altro battesimo che insegnava lui. E tante altre cose diceva intorno al bianco il nostro giovane narrate da colei, che il Massaia già molto bene conosceva per essere egli stesso quel famoso bianco.

Colle sue belle maniere intanto il Massaia cominciò ad insinuarsi a poco a poco nell’animo del corregna, cosicché in breve l’ebbe affatto mutato: come si vide chiaramente allorché venuto uno dei soliti compagni per fare uno dei soliti discorsi il nostro giovane gli disse reciso: Levamiti dinnanzi; che mi sembri un sepolcro. Godo tanto di star vicino a questo monaco che vorrei essergli corregna anche dopo la morte.

Ma che ha da intendersi per corregna? È uso in Abissinia di dare a certi prigionieri un custode, detto corregna; il quale legato alla catena del reo deve rispondere di lui. — E poichè siamo in questo tema non saranno fuori proposito altri accenni. Quando uno vuol dar querela, lega il suo sciamma a quello del suo avversario e così lo trae innanzi al giudice e dice sua ragione; stando frattanto sia egli sia l’accusato colle spalle denudate per ricevere, chi sarà convinto aver torto, le nerbate di prammatica. A volte i contendenti, anziché ricorrere al giudice, rimettono la decisione del loro piato in un fanciullo, che suppongono per l’innocenza dei costumi debba intuire lo stato della questione ed essere spassionato nella sentenza.

/231/ E quali sono le condanne che sogliono pronunciare? Il taglio della lingua a chi mentisce o bestemmia, della mano a chi ruba oggetti di gran valore, del piede o della mano a chi si ribella alla legittima autorità, la perdita del capo a chi ha commesso omicidio. Quando l’offensore s’induce da sè a chieder perdono si presenta innanzi all’offeso con una pietra al collo; e così fa il servo che vuol placare il padrone corrucciato.

Tornando al nostro racconto, eran così trascorsi alcuni giorni, quando venne l’ordine ai nostri tre di comparire innanzi a Teodoro. Al posto del suddetto giovane fu allora messo un altro; ma quegli forte dolendogli d’essere strappato dal suo nuovo amico tanto insistette che ottenne di non cedere quell’onore e quel piacere, come ei lo chiamava, di accompagnarlo. A quelli che ne facevano le meraviglie il nostro giovane rispondeva: tante belle ed utili cose m’ha detto quest’uomo che ad ogni costo voglio seguirlo, sia pure in catene: dovessi anche spargere il sangue per un uomo tanto buono non mi rincrescerebbe punto; sarebbe anzi per me la più grande felicità. La grazia s’era fatta strada in quel cuore; le parole di salute che il missionario gli aveva rivolte lo avevano convertito.

Nè solo nutriva in cuore sentimenti di venerazione e di stima pel suo benefattore, ma in quel lungo viaggio che si dovette fare da Nagalà al campo di Teodoro, volle rendergli, quanto era possibile, men duro il cammino con tutte quelle premure che un figlio affettuoso userebbe verso il proprio padre. Nelle salite e discese difficili camminava con riguardo per non dare stratte di catene che gli facessero male; piovendo o spirando rigida l’aria pone- /232/ vagli sulle spalle il proprio mantello; incontrando di tanto in tanto delle carogne puzzolenti che mozzavano il respiro, avvicinavagli al naso certa boccettina d’acqua odorosa e infine giungendo a qualche stazione davasi attorno, essendo a lui concessa una certa libertà, per apprestargli un po’ di cena sostanziosa e un giaciglio men duro. Il nostro missionario ne era veramente commosso e quasi benediceva la sua prigionia che gli aveva fatto trovare un giovane tanto servigievole ed affettuoso, che gli aveva procurato un sì prezioso acquisto.

Il viaggio, interrotto da frequenti stazioni, durò ben quindici giorni, sempre trovando lo stesso spettacolo rattristante e schifoso, di bestie morte e imputridite, e di tanto in tanto poi il regalo di qualche pioggia torrenziale che allagava le strade facendovi delle pozzanghere; talché non è a dire quale fatica e noia fosse camminare a questo modo. Finalmente, salita l’erta montagna di Derek Uanz, soprannominata dei brividi, nome troppo bene giustificato da quello che su di essa accadeva, si presentò ai loro occhi, sparso su per un vastissimo altipiano, l’accampamento di Teodoro. Erano ben centomila soldati, ripartiti tribù per tribù in tanti gruppi di tende e capanhe, sì da formare ciascuno quasi un villaggio; e qua e là monti di fucili e di lance, bestie da macello e da soma e altresì, brutto a vedersi, bestie morte e imputridite, lasciate ivi stesso ov’eran cadute.

Nel mezzo, sovrano, stava il quartiere imperiale; alcune capanne senza ordine, e senza arte, chiuse da uno steccato di pali e di spine; ecco tutto.

Qui speravano d’essere finalmente ascoltati dall’imperatore e, chiarita la loro innocenza, di essere /233/ rimandati liberi. Ma quale fu la loro delusione, quando, chiesto di lui, sentirono dirsi che era partito per la guerra, nè sapevasi quando sarebbe tornato! S’avvicinava la notte e non avevano ne una capanna dove ripararsi dal freddo e dalla pioggia che seguitava a cadere, nè un po’ di cibo, con che ristorare le ormai esauste forze. Che fare? La provvidenza neanche qui doveva mancare. Il giovane compagno del Massaia slegatosi dalla catena andò a parlare a vari suoi conoscenti ed amici che colà aveva e un’ora dopo tornò con una tenda e alcune legna per cuocere una manata di ceci secchi e fare un po’ di caffè; magra cena in tre, ma troppo cara ai nostri prigionieri in quelle circostanze.

Trascorsi due giorni, ecco improvviso uno squillo di tromba che annunzia l’arrivo dell’imperatore; ad ognuno dei poveri prigionieri si strinse il cuore; temevano la dimane sentirsi pronunziare inesorabile la condanna; e tanto più forte fecesi il timore, quando il giorno dopo udirono risonare dal recinto imperiale grida lamentose e indi videro uscirne tre cadaveri e poi cinque o sei prigionieri grondanti sangue, destinati al supplizio del mancor. Consiste questo in un grande asse circolare con un foro nel mezzo entro cui viene stretto il collo del paziente, che non potendosi recare le mani alla bocca deve così perire di inedia. La stessa sorte toccherà a noi, dicevasi; il nostro missionario anch’egli era grandemente soprapensiero. Quand’ecco entrare nella capanna uno sconosciuto e parlare col corregna del Massaia. Partitosi quello, il giovane tutto lieto si fa al nostro vescovo e gli dice, coraggio: in corte si ha buona intenzione verso di noi; domani avremo udienza.

/234/ La mattina infatti furono chiamati: su una pelle distesa per terra (il più umile trono del mondo) stava seduto l’imperatore fra ras Ubiè e ras Hailù a destra, e ras Engheddà a sinistra; alquanto discosto venivan due che incontreremo più innanzi, Besbes Kassà, il futuro imperatore Ioannes, e Menelik, parecchi degiasmaci e i grandi della corte in alta tenuta; e dietro una squadra di soldati; incaricati gli uni di sentenziare, gli altri di eseguire e tutti di approvare a gran voce e con battimani ciò che al signore fosse piaciuto.

Comparso pel primo il Massaia, cioè lui e il corregna a cui era legato, Teodoro gli disse: Chi siete voi? Sono un vescovo, rispose l’interrogato, ma non del vostro paese. — E perchè attraversate queste regioni senza il mio permesso? — Perchè quando io entrai in Abissinia voi non eravate ancora imperatore. Ma una volta ebbi già l’onore di pranzare con vostra maestà imperiale ai tempi di ras Aly; e due volte di scrivervi e di riceverne una graziosa risposta. All’udire queste parole Teodoro esclamò: Sappiano tutti che oggi per la prima volta Teodoro si dichiara vinto da un monaco, e presto lo mostrerà col fatto. Intanto il portaparola (banditore o messo secondo i casi) faccia conoscere a tutto il campo questa mia deliberazione affinchè tutti applaudiscano. Il Massaia era salvo e con lui eran salvi i suoi due compagni, e altresì per riguardo di lui un’altra schiera di prigionieri, ai quali tutti vennero issofatto tolte le catene, e insieme colle robe restituita la libertà personale.

Anche al nostro Massaia fu restituito il denaro toltogli, non però un manoscritto prezioso sulla razza degli Uoìto, che già era andato disperso. Al /235/ bravo corregna poi, in segno di gradimento dell’opera sua a favore dell’illustre prigioniero, l’imperatore oltre la libertà conferiva, seduta stante, il grado e la divisa di ufficiale di corte. Un battimani fragoroso e prolungato, questa volta veramente ben meritato, accolse la sentenza.

Dopo questo fatto i nostri pellegrini sedettero a un lauto banchetto, con quanta allegrezza, dopo tutta quella grande apprensione, non occorre dire. L’imperatore poi non contento di quel breve colloquio col Massaia volle sul conto di lui sentire più volte il corregna, suo compagno di catene, e, apprese le meraviglie della sua vita, esclamò: Quanta differenza tra il nostro vescovo Salama e questo! Veramente v’ha una differenza infinita tra questi vescovi e quelli della nostra Abissinia! Un vescovo che cammina a piedi come un povero eremita; che nelle catene dimentica le proprie sofferenze per fare del bene al prossimo; che non si lamenta e non mostra astio contro alcuno, certo è una cosa nuovissima pei nostri paesi.

E aveva tutte le ragioni di parlare a questo modo.

Teodoro aveva posto tanta stima al Massaia che mostrò il desiderio di averlo per del tempo presso di sè; cosa alla quale il Nostro non potè consentire. Avendo poi sentito che era stato truffato da certo Ghebra Mariàm e da un certo Giuseppe di parecchie centinaia di talleri, volle prenderne vendetta, e assalito il monastero dove costoro eran riparati, v’appiccò il fuoco; e così quei due disgraziati pagarono terribilmente il fio del loro delitto.