Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

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Capo XXI.

Un matrimonio cattolico. — I viaggi nei paesi abissini. — Un furfante punito. — Le lodi di Mons. Massaia. — Partenza da Nagalà. — Aspetto fisico dell’Abissinia. — Nei kuolla. — Durante la stagione delle pioggie. — Al fuoco! al fuoco! — Due nuove conquiste. — In riva al Takkazè. — Curiosa zattera. — In balìa dei ladri. — In monaco o mago di casa. — Liberati e diventati amici. — In via verso Sokota. — Ad Intàlo. — Cortesi accoglienze. — Giuste meraviglie.

La permanenza al campo di Teodoro doveva procurare al nostro missionario una dolce consolazione. L’imperatore avendo sentito dal giovane corregna il cambiamento operato ne’ suoi costumi risolse di dargli in isposa una sua cugina; cosa che non aveva mai voluto permettere a cagione delle sregolatezze del giovane. Avutolo pertanto a sè gli manifestò la sua intenzione, a cui il giovane disse di aderire di gran cuore, purché gli fosse concesso di stringere il matrimonio secondo la legge insegnatagli dall’abuna Messias. E acconsentendo l’imperatore i due giovani dopo una conveniente prepara- /237/ zione furono dal Massaia battezzati e da lui legati in matrimonio. Era una seconda vittoria che la Provvidenza faceva ottenere ad un prigioniero. — Ma anche una mezza vittoria possiam dire che il nostro Massaia avesse ottenuto su Teodoro stesso; poichè tale era la stima che in quei pochi giorni nei colloquii con lui tenuti questi gli ebbe posta, che prima di congedarlo volle benedicesse la sua persona e il suo regno.

Il 20 luglio 1863 il nostro missionario lasciava il campo di Teodoro e accompagnato da un conduttore, Kidana Mariàm, datogli per sua protezione dallo stesso imperatore, s’avviava verso Nagalà. Il viaggio riuscì assai faticoso, perchè, quanto esso durò, e furon ben dieci giorni, non cessò mai di cadere una pioggia dirotta che rendeva le strade altrettanti pantani. Però non mancava nè a lui nè a’ suoi compagni nulla del necessario; che ad ogni fermata si era ospitati dal capo del villaggio che loro forniva vitto e alloggio. Giacchè è qui a ricordare che in Abissinia quando si viaggia sotto la protezione del governo, questo pel suo rappresentante, conduttore della carovana, si fa dare, spinte o sponte, dai capi dei villaggi dove fa sosta quanto occorre. E questo Kidana Mariàm sapeva molto bene, anzi anche troppo, far valere gli ordini dell’imperatore; perchè il briccone esigeva anche più del necessario: tela, pecore, burro, miele, ecc.; e questo superfluo naturalmente andava a tutto suo vantaggio, sicché quando giunse presso Nagalà aveva già ammassato un grasso bottino che ebbe però l’avvertenza di nascondere presso certi suoi amici. Ma il furfante non potè fare tanto destramente il colpo che lo sciàlaca Gember non lo venisse a scoprire. /238/ Fingendo questi di andar incontro al Massaia con una scorta di soldati per più onore, fece bravamente arrestare il galantuomo, che così fece la sua entrata trionfale in Nagalà legato, mentre il Massaia e la sua comitiva, che pochi giorni prima egli aveva condotti legati a Teodoro, procedevano liberi e sciolti, e salutati e riveriti.

Da ricordarsi che in questo viaggio il nostro Massaia fu una notte ospite di un Ati Ioannes, discendente dall’antica famiglia imperiale e stato già egli stesso imperatore, finchè il potente e prepotente Teodoro l’ebbe sbalzato dal trono e relegato in quelle terre come in esilio, assegnandogli però un conveniente appannaggio. Questo Ati Ioannes, come i suoi antenati, era cattolico e come tale non è a dire quanto restasse consolato dalla visita del Massaia, al quale, valendosi di quella buona occasione, volle fare la sua confessione. Morì qualche anno dopo da buon cattolico, fra le braccia di Ualde Michael, discepolo prima del De Iacobis e poi del Massaia.

A Nagalà lo sciàlaca Gember s’era dato cura di preparare e adornare pel nostro Massaia una capanna; quella stessa che circa un mese prima l’aveva accolto prigioniero! Vicissitudini delle cose! — Quivi vennero a trovarlo i due sposi cugini dell’imperatore e per esprimergli la loro riconoscenza vollero regalargli una preziosa tenda, con letto, dono dello stesso Teodoro per la solennità delle loro nozze. Sciàlaca Gember desideroso di festeggiare l’arrivo dei cugini dell’imperatore ed insieme di onorare il nostro missionario, cui tanto Teodoro aveva mostrato di stimare, imbandì in loro onore ai prigionieri liberati e ai soldati un sontuoso ban- /239/ chetto. Ne veramente potevano mancargli le provvigioni, e molto meno la carne per tante persone, avendo in custodia per conto dell’imperatore nientemeno che diecimila capi di bestiame, predato, s’intende, dalle milizie imperiali nei paesi soggiogati.

A tanta allegrezza mancava il povero Kidàna Mariàm, trattenuto tuttora in catene, e sentendone il Massaia compassione ne perorò la causa presso lo Sciàlaca, che, trattandosi di un tale intercessore ed avvocato, gliela diede vinta: lo sciagurato venne sull’istante sciolto dai ceppi. Saputo costui a chi fosse debitore della sua libertà andò a ringraziare il Massaia; del quale poi ragionando col cugino di Teodoro tutto meravigliato e commosso insieme diceva: Ma chi è mai quest’uomo così saggio e giusto? Voi legato alla sua catena da lupo vi siete tramutato in agnello; l’imperatore che col solo suo aspetto fa tremare la gente innanzi a lui si vide cambiar natura, e laddove tutti credevano che gli avrebbe senz’altro fatto mozzare la testa, l’ha colmato di lodi, dichiarato suo amico, e ora lo fa scortare nel viaggio come un gran personaggio.

E a sua volta il giovane uffiziale gli diceva: Qualunque possa essere la sua condizione, egli è certo un uomo provvidenziale. Per un mese suo compagno di catena non l’ho giammai visto fare che cose sante nè udito parlar altro che di Dio, e mentre io gli amareggiava il cuore coi miei peccati, egli pre gava per me. Un uomo che ama tutti, anche i suoi nemici, che a tutti, potendo, fa del bene e tutti vorrebbe veder buoni e onesti, l’avete già visto nei nostri paesi? Un uomo che disprezza gli onori e le ricchezze, ogni comodità della vita, è veramente per noi un essere nuovo, straordinario. L’imperatore /240/ voleva trattenerlo presso di sè, gli offrì danari, gli offrì vesti, gli offrì muli e tanti altri regali gli fece; ed egli tutto rifiutò e volle partire povero, a piedi, col bastone alla mano, con nessun’altra veste che la sua povera tonaca. Per conto mio davvero lo venero come persona venuta dal cielo e mi reputo molto fortunato quando posso stargli vicino e udirne le parole. E voi che per suo mezzo avete già ottenuta la libertà dovreste gettarvigli ai piedi e mettervi interamente nelle sue mani. E docile a questi consigli del buon giovine Kidàna recavasi nella tenda del missionario pregiandolo volesse istruirlo nella sua religione, che anch’egli voleva abbracciarla; e così veramente fece, come vedremo.

Prima di partire da Nagalà giunse una lettera dell’imperatore allo Sciàlaca Gember con cui gli si diceva di provvedere di tutto l’occorrente pel viaggio il Vescovo e di scortarlo per un buon tratto, destinandogli anche un mulo riccamente bardato. Ma il nostro Massaia ringraziando rifiutò ogni cosa e si mosse al solito modo, a piedi. Traversando l’altipiano di Nagalà, si scese per burroni e precipizi paurosi, e qui non è a dire con quanta premura il giovane sorreggesse il braccio al nostro missionario e l’aiutasse in tutti i modi con l’affetto di un figliuolo. E mentre si camminava il missionario rispondeva alle interrogazioni che ogni tanto il giovane rivolgevagli su cose di religione. Finalmente si arrivò nel luogo destinato per passarvi la stagione delle piogge. Il luogo era incantevole e delizioso: grandi alberi di acacie, di euforbie, di palme selvatiche, di cardi giganteschi spandevano attorno i loro rami a cui innumerevoli rampicanti s’attorcigliavano per ogni verso; il tutto poi rallegrato e smal- /241/ tato di fiori di ogni generazione. In questo fresco boschetto trovarono tre capanne preparate per il vescovo e la sua comitiva, ben adorne e in tutto punto; lavoro dei due ferventi neofiti pel loro caro padre.

Per avere un’idea del sito ove il Massaia si trovava convien notare come l’Abissinia si divide quanto alla natura del suolo ed al clima in tre regioni. La prima tutta montagne, a grandi ripiani, dell’altezza sopra i tre mila metri e, benché non veda mai la neve, assai fredda e pressoché spoglia di vegetazione. La seconda con clima temperato, alta dai mille e cinquecento metri ai tre mila e rotta in colline e vallate, rivestite di foreste e di svariata e lussureggiante vegetazione. La terza finalmente, più bassa, con clima alquanto caldo, ma umido e malsano e comprendente vallate di una vegetazione sformata, promossa dalle lunghe piogge a cui va soggetta e dai grandi fiumi che rigano il terreno, come l’Abbai, il Bascilò, l’Hauash e il Takkazè.

Questo fiume, nato nel versante settentrionale degli alti monti (quattro mila e più metri) del Lalibelà, scorre un tratto verso mezzodì e, girato con larga curva il suddetto territorio, piega verso ponente incontrando successivamente nel lungo suo corso, a sinistra le provincie di Daùt, Vadla, Beghemèder, Dembèa, Amhara, Semièn, Valdubbà, Volkait, e alla destra quelle di Lasta, Agàu, Endèrta, Tenbièn, Scirè, finchè, dopo aver diviso il Tigrè dalle regioni centrali ed essere uscito dai confini dell’Abissinia, entra nella Nubia pigliando il nome di Atbàra; col quale nome traversa quell’immensa regione, correndo infine a metter foce nel Nilo, poco sotto alla città di Berber.

/242/ I nostri si trovavano appunto in riva al Takkazè e propriamente di fronte al paese degli Agàu. Questa regione, messa a coltivazione, produce frutti abbondanti e prosperosi; vi crescono il tief, il dura (specie di frumento), il cotone, il ricino e la palma. Quivi dovette fermarsi il Massaia ben quaranta giorni; finchè cioè fosse finita la stagione delle pioggie. Ma questi quaranta giorni non passarono inoperosi per lui, nè pei suoi neofiti infruttuosi. Che questi non mai sazi del pascolo delle eterne verità erano istancabili nell’udire l’Abuna a parlare di Dio, dei Santi, delle cristiane virtù. E con questi discorsi venivan sempre più accendendosi di desiderio di ricevere il Kurvàn, la SS. Eucaristia, parendo loro, ed a ragione, che solo allora avrebber potuto essere veramente felici. Ma ostava una gran difficoltà, essenziale, mancava il vino pel santo sacrificio. Che fecero essi? Tanto s’ingegnarono in cercare che vennero a capo di trovare presso una buona donna un canestro di uva fresca, della quale fatto vino si potè celebrare il santo sacrificio.

Premessa una buona confessione e ornata per la solennità, con quanta maggior pompa fu loro possibile, la cappella, si disposero ad ascoltare la santa Messa ed a fare la santa Comunione. I due cari neofiti vi assistevano immobili come due statue o meglio come due angeli del Paradiso. Ma arrivato il celebrante all’elevazione ecco la sposa gridare: Il fuoco! il fuoco! Si voltò, guardò attorno il Massaia: guardarono lo sposo e l’inserviente Stefano, ma non videro nulla. Rassicuratosi il vescovo proseguì il santo sacrifizio e giunto alla consumazione comunicò gli assistenti: i due cari neofiti avevano gli occhi umidi di lacrime.

/243/ Finito il ringraziamento, il celebrante si portò dagli sposi che trovò seduti a terra, muti dall’interna commozione. E che vuol dire questa mestizia, domandò, che mi pare di scorgere sui vostri volti? — Oh padre, esclamarono insieme i due, oh padre! tristi noi? giammai giorno più bello è spuntato o potrà spuntare! — Ma, riprese poi il Massaia rivolto alla sposa, ma dove mai hai tu veduto il fuoco che dicesti? — Oh padre! rispose ingenuamente la giovine, quando voi levaste in aria l’ostia santa vidi scendere pel tetto un raggio di luce smagliante (ch’io credetti fuoco) che investì voi e l’altare, talché parevami che tutto dovesse divampare; ma poi, vedendo che non ne era nulla, mi tacqui e, sentito dal mio sposo che egli nulla aveva scorto, mi persuasi che i miei occhi m’avessero ingannata.

La buona giovine era stata, senza saperlo, fatta degna di una visione, visione che si ripetè per più di quindici giorni, quante volte assistette alla Messa; il raggio sempre, come s’è detto, durava dall’elevazione alla consumazione delle sacre specie. Allo sposo poi confidò che ogni qualvolta il Massaia la comunicava nel ricevere la sacra particola vedeva la mano di lui trasparente come cristallo infocato. — Oh! Dio, ci vien qui da esclamare, quanto siete buono colle anime semplici, veramente amanti di voi!

Questo fatto non è a dire quanto tornasse di consolazione al nostro missionario, il quale ebbe inoltre la ventura di guadagnare in quei giorni a Gesù Cristo altre due anime, una schiava ed uno schiavo addetti al servizio dei padroni. I due giovanetti, istruiti, ricevettero il santo battesimo a cui vollero fare da padrini i due cugini dell’imperatore. /244/ All’osservare quelle sante ed auguste cerimonie del battesimo cattolico tanto diverse da quelle strane e talora indecenti del battesimo degli eretici, esclamarono: Oh quanto è mai bella la vostra fede!

Al qual proposito è da ricordare che il nostro missionario aveva composto una parafrasi sulla liturgia del battesimo e facevala imparare a memoria dai catechisti perchè se ne servissero a istruire i catecumeni sul battesimo, sugli obblighi che esso impone, e sugli ineffabili beni che ci procura. E se questa pratica, osserva egli, si tenesse nell’amministrazione degli altri sacramenti anche con le nostre popolazioni civili non darebbe frutti di santità e di edificazione? Non sarebbe essa la migliore preparazione pel sacerdote che amministra e pel cristiano che riceve? Quanti sublimi sentimenti, atti ad eccitare la più santa commozione e a disporre gli animi ai divini misteri non contengono le varie parti liturgiche dell’Ordinazione, del Sacrificio della Messa, dell’Estrema Unzione, del Matrimonio e di tutti gli altri sacramenti! Non si direbbe che il Massaia abbia precorso i tempi in questo felice ritorno allo studio e alla divulgazione della sacra liturgia anche fra il popolo?

Verso il termine della sua fermata nei kuolla, come colà chiamansi quei luoghi, giunse Kidàna Mariàm, di sopra menzionato, che essendo già stato abbastanza istruito da abba Michael potè ricevere il santo battesimo, con non minore consolazione sua che del vescovo.

Risolta intanto la stagione delle pioggie, questi decise di partire. Una mattina adunque, celebrata la Santa Messa e comunicati i nuovi cristiani, Monsignor Massaia accompagnato dal suo antico cor- /245/ regna, dallo Sciàlaca Gember e da altri mosse verso il Takkazè, dove giunto trovò su ambe le sponde parecchie persone appositamente mandate da Teodoro per aiutarlo a tragittare il fiume. Da una parte e dall’altra si accesero grandi fuochi e si mandavano urla come di fiera e ogni tanto gettavansi nell’acqua dei sassi per ispaventare i coccodrilli e gli ippopotami che abbondavano in quelle acque. Uno stuolo di scimmie che era sceso alla spiaggia a bere risalì su un’alta pianta e si aggrappò ai rami e di là facendo mille capriole e smorfie stava mirando tutto quel tramestìo che avveniva in basso. Preparata con canne la tradizionale zattera ed accomodatosi sopra il vescovo con abba Michael e Stefano, venticinque nuotatori si posero all’opera ed in poco d’ora raggiunsero l’altra sponda.

Guadagnato dopo due ore di salita l’altipiano opposto, giunsero alla capanna di un messeleniè, dal quale furono generosamente ospitati e dopo un breve riposo, verso la mezzanotte, al chiarore di una bella luna ripresero il cammino. Infilata una gola, s’erano un pezzo inoltrati, non senza un qualche sospetto, quand’ecco una mano d’uomini accerchiarli e senza dar retta alle loro proteste di pacifici pellegrini legarli e condurli su in una capanna.

Attorno ad un focherello stavan seduti discorrendo un vecchio ed un monaco. Questi fattosi ad abba Michael: — Chi è codesto tuo padrone? gli chiese. — Questo so, gli rispose l’interrogato, che è un uomo di Dio e che è diretto in pellegrinaggio a Gerusalemme. — A Gerusalemme?! fece attonito il monaco; oh quanto volentieri mi ci recherei anch’io! — Sta in voi, riprese abba Michael, procu- /246/ rarvi questo piacere. Fateci restituire in libertà e potrete venire in nostra compagnia. — Il monaco si fece tosto al vecchione e gli borbottò all’orecchio alcune parole e tornato riferì che la libertà l’avrebbero ottenuta ma mediante lo sborso di una qualche somma. — E quale? chiese il Massaia. — Cinque talleri. — Cinque talleri! Non ne ho che uno che tenevo in serbo per un bisogno estremo: pazienza! acconsentirò a darvelo.

— Ebbene date qua. — Così conchiusa la cosa e diventati tutti amici, i padroni della capanna si diedero attorno a preparare una buona cenetta con pane e carne ai loro già prigionieri. Non basta; uno della famiglia dei rapitori volle accompagnare la comitiva fino a Sokòta.

Ma chi era quel monaco tanto provvidenziale pei nostri viaggiatori, che abbiamo trovato in quella capanna? In Abissinia è uso delle famiglie ricche di tenersi in casa un monaco che faccia loro da mago, da medico nelle malattie, da consigliere nei partiti da prendersi e da indovino ancora sulla loro sorte futura. E naturalmente trattandosi di cose future, il monaco, o mago, o indovino, che torna lo stesso, predice sempre ai suoi ospiti gli avveniri più lieti, le sorti più felici; se poi l’esito lo sbugiarda, allora lui non ne ha colpa; è qualche maligno che coi suoi incantesimi ha mandato a male ogni cosa, ha cambiato corso agli eventi. Detto monaco esercitava in quella famiglia appunto questo poco onorifico ed onesto, ma comodo mestiere. Il bello si è che costui reputava il Massaia anch’esso un simile mestierante, ma di molto maggior potere che il suo; e perciò fattoglisi ai panni lo tempestava di preghiere volesse per conto del padrone predirgli l’esito di certo /247/ affare, aggiungendo, ad indurvelo, che il vecchio veramente lo aveva lasciato libero con questa speranza, di ottenere da lui un tal favore; che naturalmente l’illuso non potè ottenere.

Rimessisi dunque in cammino dopo alquante ore giunsero in vista della gran valle di Sokòta. Quale magnifico panorama! Un vasto piano tutto verdeggiante di dura, e qua e là capanne sparse attorniate da piante in fiore. Saziata la vista in quella deliziosa prospettiva, si tirò innanzi fino alla città di Sokòta, capitale degli Agàu, dove giunti furono dal governatore che li trattò con ogni cortesia.

Signore degli Agàu era poco prima Waxum Madin, il quale era stato spodestato da Teodoro ed impiccato. L’erede Govesciè era fuggito fra gli Assobu Galla coll’intento di prepararsi alla riscossa. E difatto un anno dopo che il Massaia passò per questi paesi Govesciè, radunato un forte esercito, rientrò nesli Stati suoi accolto a gran festa. Nello stesso tempo Menelik riacquistava il regno paterno dello Scioa. Teodoro che si trovava così a dover combattere due nemici, non osando dividere le proprie forze, fu costretto a rassegnarsi alla sorte.

Tornando ai nostri, passata di poco la mezzanotte del giorno seguente, si misero nuovamente in via e dopo un’ora di cammino sull’altipiano di Sokòta presero a discendere verso il fiume Tallaré, limite tra il paese degli Agàu e l’Enderta. Quivi, essendo giunti verso sera, furono costretti a passare la notte; con loro grave danno, come si vide alcuni giorni dopo, esalando quelle acque miasmi perniciosi.

La sera del giorno seguente, sempre salendo, giunsero ad un villaggio, il cui messeleniè avendo /248/ sentito chi fossero gli ospiti che gli si presentavano fece loro le più oneste accoglienze. Trovandosi quivi grandemente ad agio il giovane ufficiale e l’altro convertito pregarono il Massaia volesse per gran favore celebrare la S. Messa e comunicarli, che forse, essendo per lasciarlo, mai più in vita loro avrebbero potuto partecipare al sacro banchetto. Il nostro missionario acconsentì ed allora anche il giovane ufficiale ebbe la fortuna toccata già alla sua sposa, di vedere durante la Messa, dall’ elevazione alla consumazione, l’altare come investito da viva luce e le mani del celebrante come di fuoco e trasparenti.

Il giorno dopo, ripigliato il cammino, furono da Intàlo, capitale dell’Enderta, accolti con ogni premura dal governatore Goxà, il quale riguardandoli come amici volle anzi il giorno dopo condurli in una sua villeggiatura poco distante dove dimorava sua madre Ualetta Salassie. Questo Goxà discendeva da Ualde Salassie che sul principio del secolo passato aveva tenuta la signoria dell’Abissinia. Goxà aveva un fratello minore che dimorava al campo di Teodoro, il quale prese più tardi il nome di Besbes Kassà e riuscì a cingere la corona imperiale col nome di Ati Ioannes, tristamente infausto al nostro Massaia.

Tornando a Ualetta Salassie, questa avendo sentito che nella comitiva trovavasi un cugino dell’imperatore, rivoltasi al giovane ufficiale che cinto i fianchi di una tela serviva alla mensa gli domandò dove fosse. — Sono io stesso, rispose l’interrogato. — Come voi, voi cugino dell’imperatore in questo abito così dimesso (vestiva modestamente) e con questo costume da servo?! — La è così, riprese il /249/ giovane; nè dovete punto meravigliarvi, perchè quando si è figli di Dio e fratelli di Gesù Cristo non contano più nulla le dignità della terra e ne manco il grado di ufficiale e di cugino dell’imperatore. — Parole che fecero stordire di meraviglia quella buona donna, che perciò prese a ben volere al nostro giovane come a un suo figliuolo.

Dopo tre giorni di riposo in questo dolce soggiorno, il Massaia congedò il giovane ufficiale ed il suo compagno dando ancor loro per l’ultima volta la consolazione di udire la S. Messa e di ricevere la santa Comunione.

Quanto avessero a patire entrambi, il Massaia e il buon ufficiale, in questa separazione è facile intendere dal loro reciproco affetto.