Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

/251/

Capo XXII.

Cialokòt. — Trasportato su una barella. — Gualà; mesti confronti. — Son pronto, o Signore! — Fra i Soho. — Felice incontro. — Partenza da Massaua per l’Europa. — Patimenti e consolazioni. — Il sepolcro di Eva. — Una processione di visitatori. — Un mussulmano che vuol confessarsi. — In Terra Santa. — Una seconda comunione. — Morire e andare in Paradiso!

Accompagnato dallo stesso governatore e da abba Iosef, un antico discepolo di mons. De Iacobis, il nostro Massaia mosse verso Cialokòt e dopo due ore di cammino giunse all’orlo dell’altipiano. Quale stupendo spettacolo si offerse in quel punto ai loro occhi! Sopra un piano di due chilometri di giro, chiuso tutto intorno da monti alti un trenta metri, quasi ad arte tagliati a picco sorge Cialokòt colle sue casette di pietra e fango e terminate a terrazzati, e nel centro, quasi sovrano, circondato da piante, un tempietto, pur esso, come le case, in muratura e col suo tetto a cono acuminato. Vi scorre per mezzo un fiumicello che sboccando per una forra della montagna da una parte e dall’altra /251/ uscendone apre agli abitanti due passaggi, mostrando nello stesso tempo due striscie di orizzonte. Una vera città fantastica! Cialokòt è uno dei principali santuari dell’Abissinia e però abitato in gran parte, come tutte le città-santuari, da clero e da deftèri addetti al servizio della chiesa.

Lasciato Cialokòt, si ripigliò il cammino verso Terrà, ma dopo poche ore il nostro vescovo ecco sentesi colto da insolita stanchezza e da febbre sì che è costretto a fermarsi. Sopravvenuto un leggiero miglioramento, volle rimettersi in via; ma un’altra volta fu preso dalla febbre e costretto ad adagiarsi sotto un albero. Ricoverato poi in una capanna da una buona famiglia, potè esser meglio assistito e dopo alquanti giorni ripigliare un po’ di vigore. Desiderando proseguire il viaggio, costruita una specie di barella con un piano di canne intessute e un po’ di pagliericcio di fieno e sopravi per sopraccielo una tenda, venne sopra di essa trasportato a braccia da due robusti negri. La sera, in mancanza d’altro, presero riposo in una grotta scavata nel tufo, abbastanza capace per contenere tutta la comitiva. Non era la sola che colà si trovasse, molte ve n’erano, scavate dalla mano dell’uomo, che avevan servito già di abitazione ai soldati di guardia ai prigionieri di Stato che trovavansi rinchiusi in una vicina fortezza. S’innalza questa sopra una montagna o amba, come colà si dice, ergentesi solitaria dalla pianura e quasi inaccessibile da ogni parte. Il terreno quivi intorno era fertilissimo, ma non si vedeva alcuna dimora di contadini, perchè in Abissinia è inutile seminare presso stazioni di soldati; che essi e non i contadini avrebbero poi a raccogliere. Del resto in Abissinia non sono soltanto i soldati che sfruttino i /252/ sudori altrui. Là non si conosce la proprietà fondiaria, ognuno occupa quella porzione di terreno che può coltivare e con ciò ne diventa padrone. E senza dover per questo pagare alcuna imposta. Senonchè alla stagione del raccolto chi a nome del governo, chi a nome dei signori o impiegati subalterni e chi finalmente con la ragione del più forte tutti d’accordo s’affrettano a dividere col padrone i frutti. E questo, si capisce, non è un mezzo molto efficace per incoraggiare l’agricoltura. Alquanto meglio corrono le cose nello Scioa, dove la proprietà dal più al meno è tutelata e per la quale si paga bensì un qualche tributo, ma col vantaggio di vedersi assicurato il frutto delle proprie fatiche.

Tornando al nostro missionario, dopo una breve sosta in quella grotta riprese la via per la provincia di Adigrat, e, fatta una tappa presso una buona famiglia nella città capitale dello stesso nome, avanzò verso Gualà, dove prese ospizio nella casa di Ghebra Mariàm. In Gualà v’erano tante dolci reminiscenze! l’ordinazione da lui fatta di vari sacerdoti, tra cui questo Ghebra Mariàm, la casa della Missione lazzarista del De Iacobis, il fervore di quella popolazione cattolica. Ora tutto mutato! e la casa della Missione passata agli eretici ed eretici diventati pure in gran parte, più veramente per timore che per convinzione, gli abitanti.

Qui dovette suo malgrado fermarsi più che non avesse intenzione, perchè, fatta una grave ricaduta, fu a un punto che si credette davvero giunto agli estremi; onde volle ricevere i santi sacramenti, «E riandando, così egli dice nella sua umiltà, la mia vita trascorsa vedeva che se aveva servito Dio non erami mai potuto spogliare delle miserie ereditate /253/ dal primo padre Adamo e di debiti dovean certo trovarsene sul libro della divina giustizia. Tuttavia conoscendo a prova la bontà del padrone e fidando nella sua misericordia non solo per grazia speciale era tranquillo sul giudizio che di me avrebbe fatto, ma disposto ad imprendere il difficile viaggio dell’eternità». Parole degne di un apostolo, di un martire! Quanta umiltà ed insieme quanta sicurezza di coscienza! Ma, come Dio volle, si riebbe anche di quella gravissima infermità e potè presto ristabilirsi.

Dimorando tuttavia in Gualà ricevette lettere dal p. Gabriele residente in Massaua in cui gli si dava una notizia veramente curiosa: che, essendosi in Roma sparsa voce che il vicario apostolico dei Galla fosse morto, da più d’un anno la congregazione di Propaganda aveva nominato un altro al suo posto ed insieme con due sacerdoti l’avea spedito alla sua destinazione.

Rimessosi dunque, come abbiam detto, novellamente in forze, il nostro vescovo potè riprendere il cammino verso Massaua. Oltrepassata di poco Tukunda, osservarono in una gola di montagna molti ruderi di antichi monumenti: colonne spezzate, capitelli e avanzi di mura; segni d’una dominazione civile antica, cose che si ammirano anche in Adua e in altre città vicine. Tukunda è città famosa presso gli Abissini, essendosi quivi, dicono, fermata l’arca santa; con quale fondamento poi sel credano non è facile dimostrare. Questa loro credenza fa il paio con l’altra, secondo cui nella chiesa principale di Adua (un edifizio quadrato in muratura) conserverebbersi le tavole della legge da Dio date a Mosè.

Discesa a gran fatica la montagna del Taranta, /254/ si entrò nel deserto che dalla montagna suddetta giunge fino alla spiaggia del mare. Questa contrada è abitata dai Soho, popolo nomade che attende alla pastorizia e anche, porgendosene il destro, a vessare i viaggiatori che battono quei luoghi. Pure anche tra questi Soho vi avevano molti cattolici; i quali, come seppero chi fosse quello straniero, tosto gli fecero ressa intorno per salutarlo, chiedergli la benedizione e, benché poveri, per regalarlo di qualche cosa, pane, latte, e altresì qualche capra. I Soho quanto a origine paiono della stessa razza degli Adal, Taltal, Danakili, come porterebbe a credere la somiglianza di linguaggio e di religione e il riconoscere anche essi, come quelli fanno, quale loro capo il sultano di Aussa. Quanto a religione, se non si possono dire pagani perchè adorano in qualche modo Iddio, poco però se ne differenziano. Or chi li aveva fatti i sopraddetti cattolici? Mons. De Iacobis.

E sentendo costoro che il Nostro era, secondo essi dicevano, un suo fratello, vollero condurlo sul luogo dove quel santo apostolo era spirato, in una deserta campagna fra Hallai e Digsa, dove giunti sedettero in circolo mandando grida lamentose, come se fosse trapassato allora allora. Tanto può il sentimento di riconoscenza sul cuore di gente che noi chiamiamo barbara!

Seguitando il nostro Massaia il viaggio, a sette chilometri da Archiko fu incontrato da p. Gabriele da Rivalta, il quale, veduto il Nostro in quella divisa poco conforme alla dignità vescovile, una tonaca in più parti stracciata e un ruvido bastone alle mani, quasi per celiare, sturata una bottiglia d’acqua di Colonia, lo asperse da capo a piedi. Il Massaia sorridendo: — Con questa sorta d’acqua benedetta mi /255/ ricevete? Ma il buon amico non aveva recato seco solo una bottiglia d’acqua, ne aveva recata anche una di vin generoso, e immollatovi il Massaia alcuni biscotti e bevutone alcuni sorsi, «Siate benedetto, esclamò, che con questo vino che da più anni non assaggio mi avete fatto rinascere»; e veramente con minore disagio, benché il caldo su quelle aride sabbie fosse soffocante, potè giungere ad Archiko. In questa città, posta sulla spiaggia del mare, fu graziosamente accolto dal governatore che gli assegnò una barca che lo tragittasse a Massaua. Finalmente dopo tante traversie, dopo tante peripezie aveva toccato la prima sospirata mèta!

Primo suo pensiero fu di visitare i missionari lazzaristi che raccolsero colle più squisite e cordiali dimostrazioni d’affetto; nè men umanamente, starei per dire, fu ricevuto dal governatore, benché mussulmano. Dovendo quivi dopo Natale essergli recapitate lettere dell’imperatore Teodoro, pensò di fare per conto suo e dei suoi famigliari gli esercizi spirituali nella casa che il padre Gabriele, procuratore della missione, aveva inalzato in Umkullu, città distante un due ore di cammino da Massaua.

Erano da pochi giorni finiti gli esercizi spirituali che giunse dall’Europa Mons. Biancheri, superiore dei lazzaristi, e dall’interno dell’Africa due francesi, già dal Nostro incontrati presso Teodoro, cioè il console Le Ian e il dottor La Garde, tutti e due in istato compassionevole; visi sparuti, scarpe rotte e abiti sdrusciti. Inviati costoro dal governo francese in missione politica presso Teodoro, non avendo voluto assoggettarsi alle ridicole cerimonie della sua corte (Teodoro reputavasi il più potente re del mondo), erano stati imprigionati e dei maltrattamenti subiti /256/ portavan le dolorose traccie. Il loro arrivo fu un giorno di festa e di schietta allegria per tutti.

Intanto si avvicinava il giorno della partenza: passata una legale procura dei beni della missione a mons. Biancheri, due giorni dopo il Natale abissino, che cade per loro nella nostra Epifania, seguendosi colà tuttora il calendario giuliano (1), insieme con abba Michael, il giovane Stefano, il padre Gabriele e il signor La Garde, monsignor Massaia s’imbarcò per l’Europa. Fin dal principio del viaggio ebbero ad esercitare non poco la pazienza; poichè coi posti di prima classe e il vitto a cui avevan diritto per averne sborsato anticipatamente il prezzo, furono costretti a stare in quei di terza ed a metter mano alla provvista che fortunatamente avevan portato seco. Tutto questo per causa del comandante della nave, un turco fanatico e incivile. Trovarono però buona accoglienza nel macchinista, un protestante scozzese, persona di cortesi maniere, col quale il Massaia poco per volta venne introducendo discorsi di religione che sortirono esito felice, come vedremo.

Al qual proposito scrive: «Confesso che mal volentieri starei in una conversazione dove non si parlasse che di materie scientifiche e profane e mai di cose religiose, di dottrine morali, di quelle verità insomma che sono il miglior pascolo dello spirito. Tengo poi che facendo diversamente tradirei i miei doveri, poichè ciascuno in questo mondo deve fare la parte sua; ed io vescovo e missionario sono obbligato ad adempiere, anche in viaggio, il sacro dovere di giovare spiritualmente al mio prossimo».

/257/ Eran partiti da Massaua il mezzodì dell’otto gennaio 1864 e la sera di quello stesso giorno già avevano attraversato l’arcipelago Dahlak, molto pericoloso alle navi per i frequenti banchi di coralli onde è coperto il fondo del mare. Tre giorni dopo ancorarono alla spiaggia opposta, a Gedda; dove discesero sotto la protezione del console francese prendendo alloggio in una locanda tenuta da un cattolico maltese. Una cosa curiosa osservasi in questa città di fanatici mussulmani; che quando vi capita un sacerdote cattolico intervengono alla Messa non solo i cattolici, ma anche gli scismatici e gli eretici, i quali tutti perciò senza distinzione son guardati con occhio bieco da quei feroci figli di Maometto, e anche talora trucidati, come era avvenuto pochi anni prima dell’arrivo dei nostri viaggiatori.

A due chilometri da Gedda in un’arida pianura sorge il sepolcro di Eva; nientemeno! così dicono i mussulmani che vi vanno come in pellegrinaggio. È formato di un recinto quadrangolare, lungo circa 100 metri, largo 8, in mezzo al quale s’innalza un tempietto a guisa di moschea. Vi si recò tutta la comitiva facendosi uno sforzo estremo per non ridere a vedere quei mussulmani che appena entrati nel limitare s’arrestano a baciare con gran divozione i piedi di Eva (rimangono ancora i piedi; piedi, si intende, fatti da mano d’uomo) che sporgono appunto dal limitare, e la testa, dicono essi, posava all’estremità opposta. Capperi! che gigante di donna doveva essere la nostra buona madre Eva!

Entrati nella moschea trovarono nel centro un peristilio come un tempietto, chiuso negli intercolunni da ricche tende, attorno al quale bisognava fare tre giri (chi sa perchè tre e nè più nè meno); /258/ ma i nostri non ne fecero ne tre nè uno. Si fermarono invece a mirare alcune iscrizioni fatte proprio, a detta di quei babbei, fatte da Eva! Data la solita mancia ai custodi di tanto tesoro e lasciate le sacre scarpe (si sa che per entrare nelle moschee bisogna calzare scarpe apposite, forse benedette da Maometto), se ne uscirono con una voglia matta di ridere, voglia che dovettero tenersi in corpo finchè non furono rientrati nella loro locanda, che guai se quei bravi figli del profeta li avessero visti ridere della loro buona madre Eva!

Venendo alla loro fermata in Gedda, questa non fu senza frutto pel nostro missionario, che continuando le sue conferenze collo scozzese lo ebbe invogliato ad abiurare l’eresia e a rendersi cattolico: ciò che fece ivi medesimo di notte ricevendo con sua infinita consolazione dal nostro Massaia il battesimo sotto condizione.

Alcuni giorni dopo la nave levò l’ancora: erano coi nostri ben cinquecento schiavi che giunti a una certa baia vennero come merce scaricati e tratti al loro infelice destino. Dopo aver corso un ben grave pericolo di andare a fondo per rincontro di banchi di sabbia fecero sosta a Tor, ove, sbarcati, il buon scozzese, pieno di contentezza per la grazia ricevuta, volle dare un pranzo ai nostri missionari. Avendo poi questi fatte alcune spese a conto di loro, il Massaia voleva rimborsamelo; ma non fu vero che si potesse indurre ad accettare qualcosa, dicendo che la fede che per suo mezzo aveva ottenuta e con essa la speranza del Paradiso valevagli bene per ogni più grande tesoro. Dopo una settimana di fortunoso viaggio il battello gettava finalmente l’ancora nel porto di Suez. Saputosi l’arrivo di Mons. Massaia /259/ tosto fu una processione di Francesi, Italiani, Abissini, prime le autorità, che venivano a congratularsi con lui, per vederlo ancor vivo, mentre da tutti credevasi morto.

Queste dimostrazioni di stima non gli fecero però dimenticare il suo zelo di apostolo; nei pochi giorni che ivi si fermò diede un corso d’istruzioni a parecchi operai abissini, dei quali alcuni cattolici, e altri eretici, desiderosi di convertirsi, ricavandone frutti copiosi di salute.

Da Suez mosse, questa volta sulla ferrovia, verso il Cairo, che come Suez trovò dall’ultimo suo passaggio in quei luoghi notevolmente ingrandita e abbellita. Molti altri cambiamenti eran seguiti durante la sua assenza in questa città; erano morti diversi viceré e governatori e morto pure era il delegato apostolico, suo procuratore, Mons. Guasco, a cui era succeduto Mons. Uiccic, prelato molto zelante e verso il nostro Massaia come il suo predecessore egualmente affettuoso.

Visitato al Cairo un fiorente collegio dei Fratelli delle scuole cristiane e gli educandati delle suore del Buon Pastore e delle Clarisse terziarie, si diresse verso Alessandria in compagnia del p. Elia, segretario di Mons. Uiccic, e del dottor La Garde. Anche in Alessandria esisteva una casa dei Fratelli delle scuole cristiane che fu a visitare, celebrandovi la S. Messa e rivolgendo infine un discorso in lingua francese. Da notarsi che nell’Egitto prima di questa lingua si parlava, ed è ora tuttavia inteso, l’italiano o meglio un italiano un po’ corrotto lasciatovi dai Veneziani e dai Genovesi che in quelle regioni ebbero già in mano il commercio.

Nel suddetto collegio gli capitò un caso curioso e /260/ nello stesso tempo consolante. Erasi egli messo a confessare ed ecco fra gli altri presentarglisi un giovanetto mussulmano per accusare anch’egli le sue colpe. «Ma non sei tu maomettano? gli chiese il Massaia. — Sì, rispose il giovane; ma che colpa ci ho io se sono nato maomettano? E poi, perchè non potrei anch’io diventare cattolico, ricevere il battesimo dalle vostre mani, come l’hanno ricevuto tanti giovani galla già pagani? Io non commetterò più i peccati, che son per confessare e osserverò anch’io la legge di Gesù Cristo, come la osservate voi, perchè voglio andare in Paradiso con fratello Adriano (era il superiore della casa) e non so proprio che farne del Paradiso di Maometto». Convenne ascoltasse l’esposizione delle sue colpe, e non potendo nel resto lì per lì accontentarlo, gli diede però buone promesse: onde il giovane si partì, se non soddisfatto, almen per quel momento rassegnato. Per quel momento diciamo, perchè trovandosi qualche giorno dopo nuovamente il nostro missionario nella stessa casa a confessare i collegianti, ecco un’altra volta comparirgli innanzi il giovane e, baciandogli riverentemente la mano, dirgli: Voi, Monsignore, non volete battezzarmi per non creare fastidii alla casa dei Fratelli, ma perchè quel che non volete far voi non potreste permetterlo ad uno dei miei compagni, affinchè ancor io possa diventare figlio di Dio? Il nostro Vescovo era grandemente commosso: lodatolo di quelle buone disposizioni, gli promise elle al suo ritorno in quella casa l’avrebbe battezzato egli stesso, e così lo rimandò in parte soddisfatto.

Partiti i nostri da Alessandria le dieci del mattino la sera del giorno seguente furono a Giaffa. Accolti /261/ dai padri di Tèrra Santa, già informati dell’arrivo del Massaia e dei suoi compagni, furono ospiti nella loro casa e quindi la mattina seguente con altri 60 pellegrini, tra francesi e spagnuoli, mossero verso Ramle, donde si condussero a Gerusalemme, graziosamente accolti dal patriarca Mons. Valerga. Da Gerusalemme fecero varie gite nei dintorni, a Begialla, al villaggio detto dei Pastori, donde la tradizione vuole si partissero i pastori per andare ad adorare il neonato Messia, ad Emmaus, a S. Giovanni in Montana, a Betlemme, alla chiesa di S. Anna, dove secondo la tradizione sorgeva la casa della madre della Madonna, e ad altri memorandi luoghi.

Chiuse il nostro Vescovo queste memorande visite con un ritiro spirituale, in fine del quale il Signore gli riservava una grande consolazione, quella di vedere il suo compagno di viaggio, il dottor La Garde, accostarsi alla S. Comunione: la seconda che facesse in vita sua, diceva egli stesso, aggiungendo commosso: Ora ho fatto la pace col Signore e spero di mantenerla.

Ritornato col piroscafo ad Alessandria il nostro Massaia fu un’altra volta ad ospizio dai Fratelli delle scuole cristiane. Ed ecco un’altra volta ancora presentarglisi il giovane mussulmano, come ei lo credeva, dicendogli che già s’era fatto battezzare da un suo compagno e che perciò ora aveva diritto anche lui di confessarsi. Aggiunse che ora nient’altro più desiderava che di ricevere la santa comunione e poi morire con fratello Adriano per andare in paradiso con lui. E già un po’ di paradiso lo gustava il buon giovane nella pace della coscienza: n’era prova il suo linguaggio.

(1) Come sono indietro nel computo dei giorni, così nel computo degli anni; v’è in questi la differenza di sei. [Torna al testo ]