Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

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Capo XXIV.

Ministri cattolici e ministri protestanti. — A Zeila. — L’emiro Abù Bekèr. — In Europa: a Roma, a Parigi e a Lione. — Di nuovo per l’Africa. — I preparativi del viaggio nell’interno. — Ad Ambabo. — Lunga e noiosa dimora. — Il disinteresse di Abù Bekèr. — La carovana si muove. — Il Lago Assal. — Una notte nel deserto. — In una grotta. — Manca l’acqua! — Superstizioni mussulmane. — Ad Herer.

Spediti, come abbiam detto, in Europa quei dieci giovani, il Massaia attese ad istruire altri due che aveva con sè; uno che aveva riscattato e l’altro che eragli stato affidato da un mercante perchè lo curasse di certa malattia, di cui l’ebbe poi guarito. L’opera sua fu coronata da ottimo successo, perchè i due giovani domandarono entrambi di ricevere il santo battesimo, ch’egli loro conferì nella cappella di Umkullu, levandoli al sacro fonte anche questa volta il signor Munzinger. Questo signore desiderando d’averli con sè nell’esplorare le coste orientali fino allo stretto di Bab el Mandeb a conto dell’Inghilterra che aveva rotto guerra a Teodoro li chiese /275/ al Massaia che volentieri glieli cedette accompagnandoli egli stesso a bordo. Sulla nave su cui erano saliti trovavasi anche il governatore di Aden, il signor Meroweter, protestante, come abbiam detto, il quale ammirato del contegno tanto modesto ed edificante di quei due giovani, e saputa la loro condizione e da chi erano stati educati esclamò: Soltanto voi cattolici avete il segreto di ammansire e di trasformare questa gente, di cattivarvi il loro affetto e rendervi padroni dei loro cuori. I nostri ministri invece non sanno far altro che spacciar bibbie ed invece di mandare a Londra liste di proseliti, mandan lunghe liste di spese e continue richieste di danari e di bibbie.

Quanto preziosa questa confessione in bocca di un protestante!

Visitata l’isola di Perim presso lo stretto di Bab el Mandeb, filò verso Aden, donde dopo una breve fermata il nostro Massaia co’ suoi alunni fece vela per Zeila dove sperava di trovare la via per penetrare nell’interno e giungere alla sua missione. In questa città comandava l’emiro Abù Bekér, un furbo mussulmano, che in barba alle leggi teneva gran mercato di schiavi ed estorceva ai poveri viaggiatori che toccavano quel porto quanto poteva. Per addentrarsi nel centro dell’Africa la via di Zeila era in quelle circostanze la via più facile e più sicura, epperò il nostro missionario s’era qui diretto a tal fine. Sapendo però con chi aveva da trattare s’era provveduto di quanto poteva fargli buon giuoco e ottenergli grazia presso quella buona lana di governatore. Fattagli visita ed espostogli il motivo del suo viaggio nell’interno, lo pregò caldamente del suo appoggio. Questi lo accolse molto gentilmente e /276/ quale amico profferendoglisi gli disse che volentieri gli avrebbe concesso quanto desiderava, anzi lo dispensava dalla dogana. A parole, perchè poi avendo conosciuto come il nostro missionario portasse con sè alcune casse di bottiglie di acquavite lo consigliò portarle per maggior sicurezza in una sua capanna. Per fargli onore poi, benché il Corano vieti l’uso dei liquori, volle assaggiarne una bottiglia, e poi un’altra ancora co’ suoi amici; tanto basti che di settantadue bottiglie gliene asciugò nientemeno che settanta, carpendogli infine, come a titolo di buona grazia, due talleri e mezzo pel trasporto delle casse nella capanna; senza contare che ogni giorno invitavasi da sè a mensa dal nostro missionario, dicendo però a tutti che egli, quel forestiero, come uomo di gran rispetto, mantenevalo a tutte sue spese.

Quanto poi alla questione del viaggio gli disse che doveva sborsare almeno un sessanta talleri al corriere che avrebbe recata una lettera sua a Menelik, re dello Scioa per dove aveva da passare: poi il giorno dopo lo pregò gli procurasse dalle armerie di Francia mille fucili che egli avrebbe poi pagato; s’intende, coi denari del Massaia. E con tutto questo po’ po’ di gabella e di estorsioni predicavasi da sè stesso come un miracolo di generosità verso questo forestiere.

Ma in questo frattempo giunsero al Massaia lettere che lo richiamavano in Europa; quindi, lasciata Zeila senza aver nulla ottenuto, ma molto speso, tornossi ad Aden e di qui a Massaua per imbarcarsi per l’Europa. Sbarcato a Civitavecchia, mosse verso Roma, dove assistette alla processione del Corpus Domini che in quell’anno, celebrandosi il 18° centenario della cattedra di S. Pietro in Roma, riuscì /277/ solennissima; basti dire che ben cinquecento e dodici vescovi facevano corona al Sommo Pontefice, e ventimila preti e circa centomila persone formavano il corteo. Mentre si trovava tuttavia in questa città gli giunse la lettera di risposta da Menelik, in cui questo re gli annunziava che non solo accoglieva la sua domanda, ma aspettava con desiderio la sua presenza. E subito il nostro Massaia sarebbe corso in Africa, ma altri gravi affari trattenevano ancora, suo malgrado, in Europa; diedesi però a sbrigarli quanto gli fu possibile più presto. Fu a Parigi, dove col d’Abbadie potè rivedere le ultime prove della sua famosa grammatica amarico-galla, e quindi nel ritorno passò a Marsiglia a visitare i suoi cari alunni Galla ai quali conferì la Santa Cresima, assistendo alla funzione una moltitudine straordinaria di popolo.

Indi, spacciate altre faccende, la mattina del 9 settembre 1867 da Marsiglia ripartiva per la sua cara terra africana. Ossequiato a Suez da’ suoi alunni, il 2 ottobre giunse in Aden, dove lo stava aspettando l’inviato di Menelik, Ato Mekew, il quale riceveva poi il compenso de’ suoi servizi resi al Massaia col pervenire per mezzo di lui alla fede cattolica. — Fatti i preparativi pel viaggio, buona provvista di vettovaglie, due sacchi di dura (specie di grano arabo), due di riso, otto di datteri ordinari e due di scelti, formaggio, burro, carne secca e buona quantità di biscotti per il mantenimento della sua numerosa carovana, un sacco di zibibbo e un altro di farina di grano per il vino e le ostie della Messa, e una provvista di tele di vari colori, di conterie e di gingilli, e un sacco di pepe e di garofano per saziare la fame dei cerberi, che avrebbe /278/ incontrato sul cammino, cioè dei doganieri e capi di villaggio, e per regali più o meno spontanei, lasciò Aden e quattro giorni dopo, il 31 ottobre, giunse in faccia ad Ambàbo. Lo accompagnavano tre padri cappuccini francesi della provincia di Savoia, cioè il p. Taurin Cahagne, già guardiano del convento di Marsiglia, il p. Luigi Gonzaga Lasserre e il p. Ferdinando da Hjeres. Giacchè è qui da ricordare che fin dal 1863 ad istanza di Mons. Massaia la sua missione dalla provincia del Piemonte era passata a quella di Savoia, di cui allora era provinciale il p. Lorenzo da Aosta.

Il litorale di Ambàbo su cui i nostri missionari erano sbarcati è senza dubbio il più ameno e il più fertile di tutta la costa orientale dell’Africa, da Suez al capo Guardafui. Per il tratto d’un chilometro di lunghezza e quattro di larghezza, tutto a falde leggermente ondulate, è coperto di ricca e svariata vegetazione, e alquanto più addentro ha un gran lago salato, donde si estrae il sale, di cui si fa gran commercio nell’interno della regione e come condimento e come moneta frazionaria. Oltre a ciò, cosa rara nell’Africa, la città o villaggio d’Ambàbo ha presso la spiaggia parecchie sorgenti d’acqua dolce, e per la configurazione del suo litorale e per la catena dei monti, che gli si stendono a nord è difeso dai venti infocati dell’interno; e se s’aggiunge che ha sporgenze e seni molti e capaci di ricoverare navi, si ha da concludere esser veramente una posizione che dovrebbe attirare l’attenzione e le brame dedi Europei, molto meglio che le sterilissime spiaggie di Obok e di Massaua, e le più sterili contrade che lor si stendono a lungo spazio intorno

/279/ Un luogo così bello e delizioso era però abitato da gente corrotta, da luridi e fanatici mussulmani, i quali durante la permanenza dei nostri missionari in quella spiaggia diedero loro non poche occasioni di pazienza, non solo guardandoli con occhio bieco, ma non di rado anche pigliandoli a sassate. E non si poteva alzar la voce, perchè i missionari erano pochi e senza difesa, in una capanna in cui tutti potevano facilmente penetrare, laddove i nativi erano in casa propria e liberi di far quel che loro talentasse senza paura di leggi e di guardie di polizia.

L’unico che potesse tenerli a freno era Abù Bekèr, ma noi già conosciamo che tristo arnese fosse costui, e come pei missionari avesse solo melate parole per ispillar loro denaro, come ne spillava a quanti poteva. Basti, per citare un esempio, che incaricato dal governo inglese di provvedergli i cammelli che gli bisognavano per la guerra contro Teodoro, glieli fece pagare nientemeno che 40 talleri l’uno, mentre a lui non eran costati che dieci!

Bisogna adunque soffrire e tacere, e ingraziarsi con doni quell’ingordo emiro. Un’altra ragione v’era di trattare tanto bene chi punto non se lo meritava. Abù Bekèr poteva dirsi padrone di tutto quel tratto di regione, che da Ambàbo si stende fino ai confini dello Scioa, abitato da gente nomade per la quale l’uccidere uno straniero è atto di valore, tanto che quasi non reputasi uomo chi non ha ancor ucciso un nemico; e la nobiltà presso di loro consiste nell’aver commesso maggior numero d’assassinii, segnatamente se d’Europei. E tra questa sorta di gente bisognava passare per giungere allo Scioa e di là fra i Galla. Era quindi giocoforza assicurarsi contro costoro col caricare di doni Abù Bekèr, che solo /280/ poteva tenerli in rispetto, giacchè tra loro molto bene se la intendevano.

Dopo quattro lunghi mesi di aspettativa in Ambàbo, finalmente verso la fine di gennaio del 1868 compariva con molta sollecitudine, secondochè aveva promesso, Abù Bekèr, per allestire la partenza; che senza di lui nulla potevasi fare. Questo furbo matricolato, o meglio ladro in guanti gialli, non contento dei furti fatti, col pretesto di rivedere gli oggetti contenuti ideile casse e d’ordinarli meglio e ridurli ad un carico proporzionato, venne ancor sottraendo parte della roba restante, tanti metri di tela, tante misure di grano e di riso, tanti oggetti di conterie; e trovando poi che, secondo lui, la provvista di vettovaglie fatta dai missionari non era sufficiente pel mantenimento di tutta la carovana, volle graziosamente ceder loro della roba sua, a un prezzo molto discreto, il triplo del costo. Similmente, sempre pel grande affetto che portava a questi suoi buoni amici, come li chiamava, vendette loro per soli trenta talleri l’uno venti cammelli che a lui erano costati dieci. Non volendo poi che i servi che mandava per cammellieri e per iscorte ai missionari fossero loro di gravame, disse li avrebbe provveduti egli stesso del vitto, ma poi il farabutto si dimenticava di dar loro pur un granello di riso, e così i nostri dovettero far loro le spese.

Insomma apparecchiava loro la carovana gratis, essi poi avrebbero, a solo titolo di mancia, dato a ciascuno dei servi una zizzola da nulla, quindici talleri che avrebbe riscosso egli stesso a nome loro; e si capisce il perchè. Ma non si finirebbe troppo presto se tutte si volessero ricordare le cortesie, cortesie da mussulmano, usate da Abù Bekèr ai /281/ nostri missionari. Ma questi, specialmente il nostro Massaia, pazientando e dissimulando erano pure arrivati al giorno della definitiva partenza.

Il 1° febbraio 1868 pertanto la carovana composta di circa quaranta persone, tra missionari e servi, e di 40 cammelli, parte ad uso dei missionari e parte di altri viaggiatori, si mosse da Ambàbo. Nel congedarsi Abù Bekèr, dopo i soliti complimenti, quasi preso da una buona ispirazione, rivolto al Massaia, «Per carità, gli disse, per carità, o radetevi la barba, o almen nascondetela, che se i Danakili (popolo dell’interno pei quali dovevano passare) vedranno così bella barba, bionda e brizzolata di bianco, la scambieranno per una criniera di leone, vi salteranno addosso e vi uccideranno per averla ed ornarne i loro scudi»; ed accostategli con mostra di premurosa bontà, e prendergliela fra le mani e torcergliela e cacciargliela sotto il colletto della camicia fu tutt’una. Alla commedia succedeva la farsa.

Entrati adunque in carminino, si costeggiò la spiaggia fino a Tagiurra, città (ora appartenente alla Francia), che sorge alle falde di alte montagne, donde, presa la via dell’interno, in due giorni si giunse in riva al lago salato di Assal. Trovasi questo chiuso come da un anfiteatro di colline vulcaniche, e misura una superficie di ben quaranta chilometri quadrati; in gran parte composto di sale cristallizzato dello spessore di più che mezzo metro, così duro e consistente che vi passò sopra tranquillamente tutta la carovana. Questo lago distante dal mare un dodici chilometri, pare che con esso abbia comunicazione, e che anzi l’acqua salata siasi per sotterranei condotti colà infiltrata formando ap- /282/ punto quel lago, e che tutta quella distesa, più bassa di 70 metri del livello del mare, fosse anticamente un cratere di vulcano, dove per cataclismi tellurici fuggendo le acque del mare, abbiano prodotto quella grande accolta di sale. Quest’opinione sarebbe avvalorata, oltreché dai banchi di corallo e di conchiglie che circondano il lago, dal fatto dell’immense caverne che durante la bassa marea si possono osservare lungo la spiaggia che sta dirimpetto al lago.

Traversato questo nello spazio di un’ora e mezza, non senza una grande noia e stanchezza per le sue forti ed acri esalazioni, la sera sostarono sul ripiano di una collina. Il capo della carovana, che era un figlio dello stesso Abù Bekèr (degno figlio, come vedremo), diede ordine di attendarsi. Piantato in terra un gran palo e attorno attorno, a certa distanza, altri, vi si distese sopra una gran pelle; poi, messe in circolo, nell’interno, ammontate le une sulle altre, le casse delle provviste, come per difesa, e fuori, pure in cerchio, i cammelli, e appostati in quattro punti altrettanti uomini armati, a guardia della carovana, dopo un po’ di cena, stesi ciascuno sulle proprie pelli, presero un po’ di riposo.

La mattina, sorbito un buon caffè, la bevanda più confortante del deserto, si rimisero in via camminando parecchie ore per colline vulcaniche, brulle di ogni vegetazione. Ad un certo tratto ecco venir avanzando una carovana. Eravi quivi presso una spelonca. Presto, presto là dentro, disse il capo della carovana ai nostri missionari. Sono Danakili, che vedendo voi bianchi, potrebbero farvi qualche brutto tiro; dentro, avviluppati nelle vostre tele, fingete di dormire finchè non se ne siano andati. Difatti giunti quelli in vicinanza della grotta e su- /283/ bodorando qualcosa del vero domandarono ad Ato Mekew, che stava all’imboccatura come di guardia, lasciasse lor vedere quei forestieri. Ma questi: lasciateli dormire, poveracci; sono stracchi morti dalla fatica; non sentite come russano saporitamente? E in verità russavano, tenendo però molto ben deste le orecchie per sentire e gli occhi aperti per osservare da un lembo della tela come andasse a finire quella faccenda. Finalmente, come Dio volle, quegli importuni si persuasero di andarsene, e i nostri riavutisi da quella maledetta battisoffia, uscirono dalla spelonca e si rimisero in groppa ai cammelli.

Ma dopo alcuni giorni di cammino per un terreno arido e spoglio di ogni vegetazione, da ben due anni non essendovi più piovuto, cominciò a mancar l’acqua. Mandaronsi alcuni uomini in cerca, ma questi dopo alcune ore tornarono cogli otri vuoti, dicendo che avevano bensì trovata una fonte di limpidissima acqua, ma che sgraziatamente vi era caduto dentro un cinghiale, e che quindi avevan dovuto lasciarla. Tra i maomettani vi è la stupida superstizione che il cinghiale sia animale immondo (che coscienza colombina!), e che quindi chi lo tocca diventi con ciò anch’egli immondo. E guai a chi s’ardisse toccarlo! Una poveretta donna che per estrema necessità avea mangiato carne di questo animale venne legata ad un palo sulla spiaggia del mare e lasciata in balìa dei pesci che se la divorarono; anzi per cinque giorni fu proibito di pescare, perchè anch’essi, poveri pesci, eran diventati immondi. Che candidi figli di Maometto!

Ma tornando al nostro racconto, per causa del maledetto cinghiale dovettero quella sera rimanere senz’acqua. Il giorno dopo se ne potè finalmente /284/ ritrovare un poco, ma tanto cattiva e tanto torbida che bisognava chiuder gli occhi per berla. E pur meno male questo, perchè dovettero seguitare un altro giorno senza vederne una goccia; talché l’arsura diventava insoffribile, e un altro po’ che l’acqua fosse mancata avrebbero dovuto rassegnarsi a morir di sete. Finalmente il giorno 14° dalla loro partenza da Ambàbo, giunti al deserto villaggio di Herer, ne trovarono in copia e della buona, cosicché poterono calmare quella terribile arsione, cuocere un po’ di vivanda e fare un po’ di tanto necessario caffè.