Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

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Capo XXV.

Villaggio dankalo. — I Danakili. — Il monte Azzelo. — Tradizioni intorno a questo monte. — La vallata dell’Hauash. — Un assalto di Danakili. — Paciere e avvocato dei missionari. — Colla febbre all’ombra di un albero. — Contrabbando e furto. — Entrata e accoglienza nello Scioa. — Un buon deftera. — Il lavoro manuale nello Scioa. — Qualità, usi e costumi. — Dura nottata. La montagna di Fekerié-ghemb. — Ingresso trionfale in Liccè. — Il ghebì di Menelik. — Generoso trattamento. — Le sètte religiose nell’Abissinia. — Ankober. — Fine della guerra tra gli Inglesi e gli Abissini e morte di Teodoro. — Qualità buone e cattive di Teodoro. — L’abuna Salama. — I pretendenti all’impero. — Favori di Menelik verso la Missione.

Partiti innanzi l’alba da Herer, giunsero il secondo giorno ad un villaggio; dove furono cortesemente accolti e ristorati con buon latte da un caro vecchietto. In questo villaggio le capanne eran fatte di muri circolari a secco, alti un metro, coronati da cerchi di legno digradanti in larghezza, sui quali poi stendevasi a modo di tetto una gran pelle. La porta di queste capanne era talmente bassa che la persona doveva entrarvi carponi e proporzionato /286/ alla porta essendo l’ambiente, non era possibile stare in piedi, ma solo seduti o a giacere. Una cosa singolare trovarono nel suddetto villaggio; il terreno tutto intorno seminato di piccoli monticelli o rilievi di suolo alti da uno a due metri, che sono l’abitazione di una specie di formiche bianche. I pastori sogliono aprire un varco alla base e quindi, acceso nel vano scavato il fuoco, obbligano le formiche ad andarsene e a lasciare il posto a loro per ripararsi o dal sole o dalle intemperie. Questo villaggio era abitato da Danakili, popolo nomade che occupa tutta la costa orientale africana dalla baia di Tagiura sino alla baia di Abab al disopra di Massaua. Vive indipendente, di pastorizia, senza mescolarsi alle altre genti, con lingua propria e proprie tradizioni, e abborrente dalla tratta degli schiavi, per cagion della quale odia cordialmente i mussulmani.

Tornando ai nostri viaggiatori, fatta una breve sosta al villaggio di Mullu, dove un dei principali, Mohammed Gura, ebbe fatta ai nostri missionari amorevole accoglienza, si riprese il cammino e la sera del secondo giorno si giunse alle falde del monte Azzelo, o Ayelo; intorno al quale gli indigeni hanno varie superstizioni, secondo la diversa loro credenza. Dicono dunque gli Scioani che sulla cima del monte, su una spianata, sorga un monastero di monaci santi, che vivono in continua preghiera e penitenza implorando la benedizione di Dio sulle popolazioni. I Danakili poi, con questo concetto che hanno del monte, vengono di quando in quando a offrire sacrifizi in onore dei santi che dimoran lassù, e morendo, quei che possono, si fanno trasportare ai piè di esso. Gli Oromo o Galla credono che sopra di esso abitino le aiane o spiriti tutelari delle loro case, e /287/ che di qui si partano per correre in loro difesa. I maomettani infine dicono che su quelle cime dimorino i loro santoni in continua penitenza.

Tutti costoro poi hanno non solo per le persone o spiriti che lassù dimorano, ma anche per esso monte tanto rispetto e venerazione, che non osano strappare un virgulto, nè dare un passo su per l’erta.

Ripartiti da Ayelo, dopo due giorni di cammino per un terreno leggermente ondulato, si prese la discesa verso il fiume Hauash. Bel panorama, regione fresca in confronto alle aride terre fino allora percorse, verzura, molti alberi di acacie, e di famosi baobab, piante di meschinissima ramatura e quasi prive di fronde, ma di tronco sì sformatamente grosso (tale da raggiungere fino i 20 e i 25 metri di circonferenza), che, scavato, potrebbe dar ricetto a una famiglia di quattro o cinque persone.

Qui dalle coste, infestate dalla lunga siccità, s’eran rifugiate le famiglie dei pastori colle loro mandre, onde tutta la gran valle era discretamente popolata. Quando il fiume è in piena la sua larghezza è di 60 metri; allora per effetto di siccità non ne aveva che dieci e proporzionatamente era anche abbassato il livello dell’acqua, cosicché lo si potè comodamente guadare sui cammelli.

Si era entrati finalmente in terra scioana, perchè quantunque quei luoghi fossero popolati da gente dankala o adal, pure in qualche modo questa tenevasi soggetta a Menelik. Passata la notte sulle sponde del fiume, la mattina innanzi l’alba la carovana si mosse; ma aveva fatto appena un breve tratto di strada, che ecco spunta una schiera di Danakili, che minacciosi venivano alla volta dei nostri. Questi si fermarono e si misero sulle difese; ottanta com- /288/ battenti numeravano i nostri con due fucili, gli avversari cento, ma con sole arme da taglio. Stati un pezzo gli uni a fronte degli altri, i capi della carovana si avanzarono a parlamentare tra loro. Le trattative durarono tutta la giornata senza venire ad una conclusione.

La notte perciò, a sicurtà, parecchi stetter vegliando di guardia per dar l’allarme quando si vedessero assaliti dai nemici; ma non si fece udir nulla. Piano, piano, un’ora innanzi giorno, per eludere la vigilanza dei nemici, il capo fe’ levare il campo e ripigliare la marcia; ma ecco sull’alba quelli sbucare improvvisi da un’imboscata. Si stava per venire alle mani; ma non potendosi prevedere quale potesse esser l’esito, si chiese un altro abboccamento coi capi degli avversari per indurli a miti consigli. Mohammed Gura, fattosi innanzi, disse: vedete che siam pari di forze e quindi l’esito della battaglia molto dubbio per entrambe le parti; perciò nè a voi nè a noi conviene cimentarsi... Ma quando voi aveste a riportare vittoria, sappiate che voi avreste combattuto contro i fratelli dei nostri santi del monte Ayelo, contro i veri figli di Dio, poichè queste persone menano la stessa vita dei nostri santi monaci d’Ayelo, sono in continua comunicazione con Dio, e, anche per questo, molto accette al re dello Scioa, il quale appunto le ha fatte chiamare perchè benedicessero il suo regno. Riflettete dunque se vi conviene impegnarvi nella lotta.

Persuasi da queste parole, e prostratisi anzi a terra per venerare insieme coi santi del monte Ayelo anche i nostri missionari, quelli se ne andarono pacificamente, destinando uno dei loro a scortare per sicurezza la carovana. Non ci voleva meno di /289/ questa dichiarazione di Mohammed Gura per placare quei fieri Danakili, giacchè trattavasi di passar sopra ad una legge imprescrittibile per loro, la macchia del sangue, per la quale, ucciso uno della loro tribù, devesi uccidere un’altra persona della nazione (e per loro nazione è sinonimo di continente) a cui apparteneva l’uccisore, se no, stupidamente pensano, l’anima dell’ucciso non potrà giammai entrare al possesso della eterna felicità.

Si seguitò dunque il cammino, non senza il timore di altri assalti, e la sera di quel giorno si fece una fermata. Il p. Taurin reggevasi tuttavia in forze, ma il p. Ferdinando era prostrato, e anche peggio si trovava il nostro vicario apostolico; le labbra crepate, la bocca piena di afte, le gambe tremanti che mal lo sostenevano; dovette come corpo morto gettarsi all’ombra di una pianta. Fortunatamente però alcune ore di riposo con un buon caffè e alcune goccie di elisir lo riebbero alquanto, così che potè rimettersi con gli altri in marcia. Attraversata una pianura dove pascolavano torme di cammelli e di altre bestie, verso notte si attendarono in una valle presso un torrente. — Essendo qui vicina la dogana, tutta la notte fu un gran tramestio per preparare il contrabbando delle mercanzie, e anche per far sparire quel poco di vettovaglie e di tele, che rimaneva tuttavia ai nostri missionari. Figurarsi che, dopo altri latrocini già compiuti durante il viaggio, quel truffatore di capo, degno figlio di Abù Bekèr, vuotò loro alcuni sacchi di datteri e di riso, altri scemò a mezzo e di molte pezze di tele colorate appena ne lasciò loro una o due! Ma bisognava striderci, perchè a chi mai rivolgersi per aver giustizia?

/290/ La mattina seguente, attraversata una boscaglia dove trovarono pascolare altre frotte di cammelli, videro venirsi incontro una squadra di soldati; erano mandati da Menelik a dare per parte sua il saluto e il ben arrivato ai missionari. Entrati nel villaggio della dogana, composto di poche capanne sparse sul pendìo di un colle, ricevettero le visite degli impiegati del luogo e insieme regali di pietanze, di banane, d’idromele e d’ogni ben di Dio; si era finalmente tra amici e si respirava.

Tra gli altri si presentò al Massaia un certo Gulti, deftera abissino, dicendogli che già tempo prima aveva saputo della sua venuta nello Scioa. «E come? domandò il Massaia. — Sappiate, rispose quegli, che io da lungo tempo desidero farmi cattolico e che con questa intenzione ebbi fabbricata sulle mie terre una chiesa e fornitala del sostentamento necessario per due preti, tre diaconi e quattro cantori. Condotta a termine la chiesa, una notte mi apparve la Madonna dicendomi aspettassi la venuta di Abba Messias, di cui già aveva sentito parlar tanto bene, che egli avrebbe benedetta la chiesa e ordinati i preti e i diaconi. Ma saputo poi della vostra cacciata dal Kaffa, stretto dalla necessità, la feci benedire dal vescovo Salama, benchè colui punto non mi garbasse, perchè un cattivo soggetto. Ora essendo voi finalmente arrivato, a voi cederò e ai vostri preti la chiesa e ogni cosa annessa. — Ma, rispose il Massaia, io non potrò fermarmi a lungo in questi luoghi. — Oh! riprese allora con aria di sicurezza il deftera, la parola della Madonna è ben superiore ai nostri disegni e alle nostre intenzioni, e voi dovrete fare quello che essa vorrà». Quanta fede in quel buon uomo e quanto argomento a sperar bene!

/291/ Intanto dovendosi pigliar la via della montagna convenne scaricare i cammelli, e ridotti i colli ad un peso proporzionato, si misero sulle spalle di portatori mandati dal re. Diciamo mandati dal re; nè altrimenti sarebbe questo fattibile, poichè nello Scioa non si trova alcuno che voglia per mercede prestare un servizio; aiuteranno magari un loro vicino a falciare le messi, a costruirsi la capanna, ma gratuitamente, o col compenso di eguale servizio; per mercede giammai, eccettochè vi siano obbligati per patti o per legge, come per esempio i piccoli proprietari verso i grandi dai quali ebbero acquistati i fondi.

E poichè in parte ci cade il discorso, di toccare della condizione degli Scioani (e ciò che dicesi di questi, può dirsi degli Abissini in genere), i grandi del regno sono tenuti fornire al negus un certo numero di operai e di soldati; e proporzionatamente gli stessi obblighi hanno i ricchi verso i grandi. Ogni Scioano poi, come ogni altro Abissino, nasce soldato; il che per l’indole loro guerresca non riguardasi punto come un gravame. Quanto alle qualità loro, gli Scioani sono di ben formata complessione e agile, e di statura più che mediocre, con portamento dignitoso della persona. Hanno occhi vivi ed espressivi, bocca sporgente, che s’apre a mostrare due file di denti candidissimi, barba rada, capellatura crespa, carnagione, come tutto il resto degli Etiopi, nera. Hanno ancora comune cogli altri indole ciarliera e vanitosa, fantasia vivace, ingegno pronto e scaltro, nè alieno dai sotterfugi e dalle bugie; animo verso il forestiero quanto cortese ed ospitale, altrettanto anche indiscreto, quando possono sperare qualche cosa, nel chiedere regali. Sono tenacemente /292/ attaccati alle loro tradizioni, sia riguardo alla vita pubblica e sia privata e difficilmente s’inducono ad abbracciare idee e usi degli stranieri, quand’anche ciò torni a loro manifesto vantaggio. Una lode va loro data, ed è che fra loro sono ignoti il suicidio, il parricidio e l’infanticidio.

Quale il loro vestire? cioè degli Abissini; che non v’è notevole differenza fra Tigrini, Amarici, Scioani, Goggiamesi ed altri. Gli uomini vestono brache larghe, che stringono ai lombi con una cintura; sulle spalle gittano un mantello detto sciamma, generalmente di cotone, e sovra di esso talora aggiungono il burnos o pellegrina, di pelle di capra, se popolani, di pelle di leone o di leopardo, se nobili o graduati militari o principi. Il capo, qualunque sia la stagione, portano nudo tutti, eccetto i preti e i defteri che lo ricoprono con un turbante di velluto bianco, ed i monaci che usano una papalina di tela, pure bianca. Ai piedi, quando, ed è il più spesso, non vanno scalzi, portano sandali. Quanto alle donne, quelle di civile condizione portano gli stessi indumenti che gli uomini, salvochè per loro in più decorosa forma, sopravvestendo inoltre un camiciotto che scende loro dal collo ai piedi, e naturalmente anche (perchè pure fra di loro non è sconosciuta la vanità) infronzendosi di anelli, di collane, di braccialetti d’oro; le popolane hanno un costume molto più schietto, una specie di tunica cinta ai fianchi. Non si è parlato di camicie, perchè tra loro, anziché indumenti ordinari, come tra di noi, sono oggetti di lusso, e distintivo concesso dal sovrano.

Ma è da ripigliare il filo della nostra narrazione. — Rimessisi la mattina in via, la sera giunsero ai piedi della montagna di Fekerié-ghemb. Quivi ven- /293/ nero salutati da un messo del re e ospitati in una capanna, che però trovando già occupata da un esercito di cimici, dovettero lasciare e contentarsi di dormire alla diana, ed a quella posizione altimetrica, tre mila metri circa, e con leggeri panni addosso non è a chiedere se avessero a battere i denti pel freddo. Alzatisi coll’alba e riscaldatesi le membra con una fiammata, e lo stomaco con un buon caffè, pigliarono la montagna, per un buon tratto un dosso domestico coltivato a cereali, poi man mano piante altissime, spesse, con rami conserti gli uni agli altri; per tutto poi liane attortigliantisi, traversanti da questo a quell’albero e di tanto in tanto, ai lati del sentiero, qualche burrone entro cui rumoreggiava l’acqua; e su su in groppa ai muli per ben tre ore, finchè si raggiunse la prima porta della fortezza che trovavasi in vetta al monte.

Quivi presso sorgevano alcune capanne pei soldati di guardia; fatto un altro po’ di strada, si arrivò alla seconda porta, che li introdusse in una vasta spianata, dove s’alzavano un centinaio di capanne, abitate da coloni che vivevano dei prodotti che dava in quel luogo la terra. Questa era la fortezza e insieme la città reale, dove Menelik in caso di estremo pericolo sarebbesi ridotto per difendersi dai suoi nemici. — La mattina seguente ecco arrivare un messo del re, che dice si presentino quel giorno stesso alla sua udienza.

Benché avessero estremo bisogno di riposare, convenne ubbidire e, montato ciascuno su di un mulo, guidati da due giovani, giù a rompicollo per quei sentieri stretti e tortuosi, costeggiami precipizi che facevano rizzare i capelli al solo guardarli. Giunti nella valle e girata la montagna di Emmavràt, /294/ la più alta dello Scioa, si prese a salir quella di Condy. Dalla sua vetta un magnifico panorama si presenta allo sguardo; sotto, una vasta pianura su cui, di mezzo al verde, spicca la città capitale di Liccè; da levante, perduto nell’orizzonte, il mare; da ponente le montagne del Goggiàm e dell’Ennerea, e a mezzogiorno quelle boscose di Kaffa. Le montagne di Emmavràt con quelle di Fekeriè-ghemb a levante e quelle di Condy a ponente costituiscono lo spartiacque di quella regione mandando all’Abbai tutti i fiumi di ponente ed all’Hauash quelli di levante.

A qualche distanza dalla città si formò il corteo solenne; precedevano i portatori seguiti da soldati e da ufficiali a piedi, venivano i missionari fiancheggiati da ufficiali e dal procuratore del re, Ualde Ghiorghis; dietro gran numero di soldati a cavallo. Una folla di curiosi stipava le vie, l’ingresso della città, bella città per quelle contrade! Sulla spianata case ampie, con cortili chiusi da recinti in legno, abitate da ricchi; altre più piccole e capanne di popolani; qua e là qualche chiesa, e alcuni padiglioni per ricevere i forestieri di passaggio. Su in alto, in collina, si estendeva il ghebì o quartiere reale, un aggregato di case in muro, destinate, quali per gli ufficiali di corte, quali per i vari bisogni della reggia, forni, stalle, molini; poi una vasta casa, dove nelle maggiori solennità il re convita i grandi della sua corte; e quindi gli alloggi personali del re. Dappertutto schierate guardie per far onore ai novelli forestieri, che furono alloggiati in un’ampia casa e serviti di tutto l’occorrente con grande larghezza.

Il giorno seguente furono ricevuti in udienza dal re, che li trattò con molta benevolenza informan- /295/ dosi delle loro intenzioni e richiedendoli di mille altre cose. Il Massaia era latore di una lettera del governatore inglese d’Aden con la quale a nome dell’Inghilterra esortavalo a non parteggiare per Teodoro, se non voleva vedersi invaso il regno dalle truppe inglesi. Menelik volle sentire in proposito il parere del nostro missionario, il quale gli disse che inutile sarebbe stata ogni resistenza da parte di Teodoro contro le possenti armi dell’Inghilterra; come il fatto poi lo provò. Perchè poi non avessero a mancare di nulla, ogni giorno mandava loro, dalla sua casa, provvista abbondante e svariata di cibi, talché ne avevano non solo per sè, ma anche per i poveri.

Quale che poi si fosse il motivo, mostrò desiderio che tenessero conferenze di religione ai dissidenti delle due principali sètte in cui si divide il cristianesimo nell’Abissinia, cioè quella dei così detti Karra, o eutichiani, che ammettono una sola natura in Gesù Cristo, e quella dei Devra Libanos o seguaci d’un famoso monaco detto Tekla Haimanòt, il quale aveva portato in Abissinia una falsa credenza anch’essa, ma diversa da quella d’Eutiche, insegnando che in Gesù Cristo vi sono due nature ma tre generazioni, avvenuta la terza allorché nella sua umanità ricevette, diceva egli, l’unzione dello Spirito Santo. La prima setta è, diremmo così, ufficiale, perchè sostenuta dall’abuna supremo; la seconda no, ma ha più seguaci; Menelik propendeva per questa. Saputosi questo desiderio del re, fu un accorrere dei vari dissidenti presso il nostro Massaia per sostenere le loro opinioni e sentirne il parere; il che se per un lato procuravagli molta occupazione, per l’altro por- /296/ gevagli però il destro d’esporre la dottrina vera della nostra santa religione.

Avvicinandosi intanto il termine della quaresima, il re portossi, secondo l’uso, per celebrarvi l’imminente Pasqua, alla città sacra di Ankòber, dove lo seguì la corte e l’esercito, che a questo effetto era stato richiamato dalle vicinanze di Magdala. È da sapere che Menelik, titubante, nella guerra tra gli Inglesi e Teodoro, da qual parte schierarsi, aveva mandato a buon conto un esercito de’ suoi nei dintorni di Magdala, dove questi s’era ultimamente trincerato; secondo piegherebbero gli eventi, sarebbesi dichiarato per l’una o per l’altra parte. Ora erano appena partiti gli Scioani, che giunse l’esercito inglese condotto da Napier; il quale avendo intimata la resa a Teodoro e non avendola ottenuta, mosse all’assalto della fortezza e in poche ore se ne impadroni. Ma l’imperatore non potè avere nelle mani, perocché questi, visto il caso disperato, s’era barbaramente tolto da se la vita con una pistola, dopo avere poco prima precipitati a sfracellarsi il capo nei burroni 600 prigionieri di Stato. Così finiva la guerra; e così dopo aver sparso il terrore in tutta l’Abissinia cessava tragicamente di vivere quel grande, ma feroce guerriero. La notizia della morte di Teodoro fu festeggiata da Menelik, favorendo egli per convenienza, ora che erano vincitori, la causa degl’Inglesi.

A onor del vero bisogna dire che Teodoro aveva iniziato la sua carriera con nobile intento, quello di purgar l’Abissinia dai mussulmani, che infiltrandosi nel governo presso molti principi, e valendosi del commercio in gran parte esercitato da loro, hanno, da due secoli in qua, propagate fra quelle /297/ popolazioni le dissolutezze della lurida legge di Maometto. Pieno d’ardore militare, di molta prudenza strategica, e per questo simpatico ai soldati, moveva di conquista in conquista, ed era già riuscito a sottomettere quasi tutta l’Abissinia ed a fiaccar l’orgoglio dei mussulmani. Aveva anzi, quel ch’è meglio, preso a regolare cristianamente la sua condotta, persuaso, come diceva, che il potere imperiale sarebbe stato di breve durata, qualora sopra i suoi sudditi avesse cessato di regnare la legge di Dio, in ciò mostrandosi più avveduto politico di molti dei nostri civili principi d’Europa.

E l’esempio suo, segnatamente riguardo al tener una sola moglie, era stato seguito da gran parte dell’esercito, in ispecie dai capi. Ma disgraziatamente Teodoro non fu costante ne’ suoi propositi, che, lasciandosi abbindolare da quell’astuto intrigante e ribaldo che era l’abuna Salama, prese a darla attraverso nei costumi, e così mandò in fumo le già concepite speranze. Le sue crudeltà poi contro i prigionieri (battiture a sangue, recisioni di mani e di piedi), le sue rapine, le sue spogliazioni, finirono con alienargli gli animi; ed infine Dio a punirlo de’ suoi disordini gli ebbe inflitta, come vedemmo, quell’umiliante sconfitta. — Il suo perfido consigliere Salama aveva cessato di vivere l’anno prima, nell’ottobre 1867, spento, a quanto pare, di veleno, propinatogli dallo stesso Teodoro, che così vendicavasi del delitto contro di lui perpetrato, di avergli, com’egli diceva, rapita la fede.

Alla notizia della morte di Teodoro, Menelik aveva ordinato grandi dimostrazioni di gioia, ma più per secondare le intenzioni del popolo che per propria convinzione. Egli infatti, perduto il padre, /298/ Hailù Malakòt, in ancor tenera età, aveva sposato una figlia di Teodoro e d’allora in poi sempre aveva riguardato lo suocero come un secondo padre. Con lui anzi era rimasto fino al diciannovesimo della sua età, al 1866; nel quale anno dal campo di Magdala, ove allora si trovava, era corso nello Scioa ad occupare il regno usurpatogli da Betsabè. Morto Teodoro, pareva la corona dell’impero dovesse ricadere a lui, come al più prossimo parente, e perciò si proclamò imperatore col nome di Menelik II; e come per far sentire la sua autorità fece una corsa col suo esercito fino a Gondar, dove però non osò entrare; ma temendo qualche sorpresa ripiegò quasi subito nei suoi stati. Senonchè due altri pretendenti s’eran frattanto dichiarati imperatori cioè Waxum Govesié, principe dell’Enderta e dell’Amara che aveva preso il nome di Ati Tekla Ghiorghis II, e Besbes Kassà, re del Tigrè, il quale, più scaltro, aveva stretto patti cogli inglesi e ricevutone armi e munizioni. Non è a dire quanto queste notizie turbassero l’animo del re dello Scioa, il quale perciò era spesso a interrogare il Massaia sui provvedimenti da prendere, molto stimando la sua prudenza ed i suoi consigli.

Ma non solo su cose di stato Menelik consultava il suo terzo padre, come chiamava il Massaia, ma anche sul modo di regolarsi nella vita privata e pubblica e nelle sue relazioni coi sudditi, anzi lo pregò gli volesse scrivere a questo riguardo alcuni avvertimenti; e sebbene poi, specialmente per le arti seduttrici di una donna, non li mettesse fedelmente in pratica, se non altro tuttavia dimostrava buona volontà e sincero rispetto al Massaia e a’ suoi compagni. Non tralasciava occasione di parlarne in /299/ bene e di lodarli a quanti venissero a lui e di mostrar loro, segnatamente al Massaia, la più schietta venerazione fino ad andarlo a visitare accompagnato dai grandi della sua corte; cosa che non faceva neppure coi principi del sangue.

Non pigliava poi decisione di momento, eziandio in cose di Stato, senza aver prima sentito il parere di lui. Questi segni così straordinari di rispetto e di amicizia non è a dire quale effetto favorevole operassero fra il popolo, che perciò accorreva numeroso e con frequenza al Massaia, sia per ottenere colla sua mediazione favori dal re, sia anche per essere istruito nelle cose della fede. E le conquiste alla fede, quando palesi e quando segrete, aumentavano, e tra queste è da ricordare la nonna di Menelik, Betsabea, la quale ricevette segretamente il battesimo.

Un altro motivo conduceva il popolo al Massaia, il desiderio di ricevere dalle sue mani l’inoculazione del vaiuolo, che là, come in altri paesi, mieteva tante vittime; come pure il rimedio ad altre pericolose malattie, che il nostro apostolo, diventato anche medico, soleva curare, quasi sempre con esito felice. E queste guarigioni mentre giovavano ad acquistargli popolarità, conferivano pur grandemente a rendere gli animi docili agli insegnamenti suoi e de’ suoi compagni. E se ne vide ben presto l’effetto nella diminuzione degli scandali e in una maggior morigeratezza.