Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

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Capo XXVI.

In via verso Fekerié-ghemb. — Università abissina. — Ritorno a Liccè. — La missione di Finfinni. — Maneggi di corte. — Ordinazioni secrete. — Notizie delle missioni galla. — Ambascieria fallita. — Besbes Kassà sopraffà gli altri pretendenti al trono. — Uno straordinario banchetto. — Filippo Verdier. — Innovazioni di Ati Ioannes. — Onorifiche accoglienze a Gilogov. — Occupazioni apostoliche. — Guarigione di una lebbrosa. — Morte di Abdì. — Il Santuario di Devra Libanos.

Verso la metà di luglio, sentendosi bisognoso di un po’ di riposo il nostro Vescovo chiese al re di poter andare a passare alcuni giorni a Fekerié-ghemb, dove essendo stabilita una scuola, quasi seminario, di giovani di varie regioni, sperava di poter fare anche un po’ di bene. Ottenuto facilmente il beneplacito, si avviò, al solito, a piedi, per la montagna di Condy, donde col seguito di cinquanta giovani, che insieme coll’Alaca Tekla Tsion eran venuti ad incontrarlo, scese verso Fekerié-Ghemb, e dopo un’altra camminata di circa quindici chilometri, sempre a piedi, attraverso a dense foreste e per sentieri difficili e paurosi, giunse /301/ alla spianata su cui sorgeva il Seminario o scuola; una chiesa dedicata a San Giorgio, un grosso capannone circondato da alte piante e alcune capanne pei giovani allievi; ecco tutto.

Stanchi e maceri dal viaggio, e con un appetito, quale si può avere dopo una ginnastica di questa fatta, sedettero ad una mensa quanto semplice, altrettanto abbondante, cucinata all’abissina, s’intende, cioè tagliato il collo a un grasso giovenco, parte arrostito e parte così crudo fu distribuito ai commensali, che se lo trionfarono allegramente, avanzandone tuttavia, capperi! una parte che fu distribuita ai poveri.

S’è di sopra ricordato Tekla Tsion; per chi volesse saperlo, era un’ottima persona e riputato il più dotto dell’Abissinia; aveva insegnato prima a Gondar, poi in Dima Ghiorghis a ben cinquecento scolari, e ora, collo stesso uffizio era stato chiamato a Fekerié-ghemb. Costui, il giorno appresso, per festeggiare l’arrivo deii’abuna Messias volle insieme coi suoi discepoli dare un’accademia, in cui vi furono discorsi, poesie intermezzate da canti; il tutto recitato secondo la maniera abissina, con grand’enfasi. Ma il più bello di quell’accademia si fu che molti dei giovani che avevan recitato non sapevan nè leggere nè scrivere; cosa però da non farne tanta meraviglia in uno scolaro abissino, quando si consideri che colà molto spesso neppure i maestri sanno leggere o scrivere una riga; l’insegnamento si fa tutto a viva voce e la memoria fa da libro e da scritto: questione di mode. Tutta la loro scienza (e fra gli Abissini non v’è altra scienza che la religiosa) si riduce a imparaticci della Sacra Scrittura e di alcuni testi dei Padri greci (i latini non li /302/ conoscono neppure di nome), appresi a viva voce per tradizione. Per loro poi i manoscritti son tutto, e i libri stampati nulla; quindi inutile nelle dispute con loro opporre qualche testo di libro in istampa; vi ridono in faccia.

Due mesi si fermò il nostro Massaia, mesi che non passò in ozio, sibbene nell’istruire, nel catechizzare quei giovani, nel rispondere ai molteplici loro quesiti sulla religione. E ne raccolse buoni frutti; perchè la maggior parte si fecero presto assidui alla recita delle preghiere del mattino e della sera, e, nella festa, all’assistenza della Messa e alla recita del rosario; parecchi anzi ricevettero il battesimo e la cresima, tra i quali i due famosi maestri Tekla Tsion e Saheli, alaca (rettore) questi di una delle chiese di Ankober, e reputato come un oracolo della setta dei Devra Libanos: entrambi furono poi ordinati sacerdoti.

Trascorsi due mesi, disposesi a ritornare a Liccè; tutti quei giovani vollero accompagnarlo nel cammino, or l’uno or l’altro movendogli questioni di religione e di scienze naturali, alle quali il buon vescovo, che anche in questo era bravo, con grande amorevolezza rispondeva.

Ritornato a Liccè ripigliò con più vigore l’apostolato di prima. Pensando come avrebbe potuto estendere anche ad altre popolazioni il benefizio del vangelo, chiese ed ottenne dal re un fondo di circa tre chilometri di circuito presso Finfinni da stabilirvi una missione, la quale potesse col lavoro del terreno procurarsi il necessario sostentamento. A reggerla vi mandò il suo vicario, padre Taurin, e il p. Ferdinando, che già discretamente avevano imparato la lingua del paese.

/303/ È appunto in questo territorio di Finfinni, a 300 metri da Antotto, che circa 25 anni dopo, nel 1892 Menelik, divenuto già imperatore, fondava la sua capitale di Adis Abeba che ora è congiunta alla costa, a Gibuti, con una ferrovia.

Nella corte intanto eran seguiti dei cambiamenti. L’astuta Bafana che dominava a sua volta l’inesperto sovrano, sempre calda fautrice della setta dei Karra, aveva studiato uno stratagemma per nascondere il lavoro che veniva facendo per la riscossa dei suoi protetti. Aveva essa in corte un confessore, com’è uso dei grandi e delle persone ragguardevoli dell’Abissinia, un confessore, s’intende, come già altrove s’è detto, di quelli che il meno a cui pensino si è al bene spirituale dei loro penitenti, perchè il più delle volte nemmeno confessano e, se confessano, con qual vantaggio dei penitenti quando essi non reputano necessario il dolore? Chiamavasi costui Ghebra Salassie ed era anch’egli fanatico eutichiano o karra. Ora entrambi s’accordarono, per coprire i loro maneggi che potevano trapelare in pubblico, di far chiamare in corte un altro confessore della setta dei Devra Libanos, perchè fosse ordinato prete dal vescovo abba Messias, che, dicevano, ormai tutto il popolo vedrebbe bene una tal cosa, tanto più che molti capi già mostravan desiderio che l’abuna Messias fosse addirittura dichiarato vescovo capo della chiesa dello Scioa. Ad occupare questa carica fu designato l’alaca del Santuario Emanuele, il monaco Ascetù, persona veramente di buoni costumi. La nomina però, essendo stata una finzione, non ebbe effetto.

Il nostro Massaia che vedeva dove andassero a parare questi inaspettati favori di Bafana e del suo /304/ degno confessore, richiesto del suo consenso, rispose che avrebbe ben ponderata la cosa. Abboccatosi poi con Ascetù e trovatolo ben disposto, anzi desideroso di abbracciare il cattolicismo, gli diede segretamente il battesimo e, qualche tempo dopo, pur segretamente, a lui e a Tekla Tsion la sacra ordinazione, avvertendoli di tener celato il loro nuovo stato per non suscitare le ire dei Karra. Oh! padre, dicevagli qualche tempo dopo l’alaca di Emanuele, ricordo sempre quelle ore felici, nelle quali ricevetti le sacre ordinazioni; sempre mi ridestan le stesse soavi commozioni che allora provai! Che momenti beati! Che gioie celestiali! Che consolazioni di paradiso! E noi possiamo aggiungere: quanta fede! quanto amor di Dio! quanto pronta corrispondenza alla grazia! Corrispondenza che sì l’uno come l’altro dimostrarono prima coll’esercitare di soppiatto il sacro ministero, singolarmente col battezzare le persone in pericolo di morte, e poscia col sostenere generosamente l’esiglio e con coraggio e zelo apostolico evangelizzare i poveri pagani galla.

La missione di Finfinni intanto veniva progredendo; era stata regalata dal re d’un’altra porzione di terreno; il numero delle famiglie gabbar o colone era salito a venti; la chiesa poi era frequentata non solo dai cattolici, ma altresì da eretici, e vi si accorreva, oltreché dai dintorni, anche da lontani paesi; tutto insomma accennava bene.

Il Massaia non restringeva però il pensiero alle sole missioni dello Scioa; aveva spedito un corriere con lettera al suo coadiutore Mons. Cocino, il quale pel medesimo corriere davagli notizie sullo stato delle missioni galla: la missione di Ennèrea, causa l’inettitudine del suo principe, sempre zimbello dei /305/ mussulmani che spadroneggiavano, s’era dovuta abbandonare; quella di Lagamara, scoppiata nel 1868 una guerra civile, era stata dispersa; quella di Kaffa dopo qualche anno di persecuzione era invece rifiorita; in ottime condizioni era quella del Gudrù, dove regnava Gosciò con a fianco il fedele e coraggioso comandante dei fucilieri, anch’esso cattolico, e fervente, Ualde Ghiorghis.

Insieme col corriere giungeva una deputazione composta di membri di tutte le regioni, la quale veniva a pregare il re dello Scioa perchè lasciasse partire con loro il Massaia. Ma Menelik, che non sapeva privarsi della presenza di lui, tanto tergiversò colla deputazione che l’obbligò ad andarsene senza aver nulla ottenuto. Lo scopo dell’ambascieria era così fallito con grave dispiacere di quegli inviati e anche maggiore del nostro missionario.

Intanto notizie importanti giungevangli all’orecchio; abba Ioseph, quello che già abbiamo trovato a Cialokòt, riferivagli che uno dei due pretendenti al trono imperiale, Besbes Kassà, aveva con astuzia chiamato a Gondar un vescovo copto; il che equivaleva a dichiararsi imperatore, perchè essendo Gondar divenuta, dopo Axum, città sacra, capitale della religione, spettava al suo vescovo il consacrare il nuovo imperatore, il riconoscere ufficialmente il legittimo erede del trono del re Salomone. Giacchè è da sapere che è tradizione o leggenda fra gli Abissini, che nei tempi andati la regina di Axum nel Tigrè, Negesta Azeb (secondo loro la famosa Saba rammentata dalla Bibbia) portatasi a Gerusalemme ad ammirare coi suoi occhi quel prodigio di sapienza che era il re Salomone ne fu fatta madre di Menilehec, che successe quindi a lei nel regno; e /306/ da allora in poi tutti gli imperatori abissini pretesero di discendere dal nipote del re Davide. Ma veramente l’unico che potesse con fondamento vantare un tale onore era quel Ioannes spodestato da Teodoro e di cui abbiamo riferito il suo incontro col nostro Massaia. Pur l’una cosa e l’altra, ma più ancora il trono affermava appartenere a sè Besbes Kassà, che perciò aveva fatto tutto quel ch’aveva fatto.

Ciò sentito, Tekla Ghiorghis preparossi a contrastargli una tale dignità coll’estendere le sue aderenze e le sue conquiste. Re del Goggiam era Degiace Desta succeduto al padre Tedla Gualu, il quale era morto avvelenato dal suo monaco di casa. Tekla Ghiorghis ne sollecitò l’alleanza, ma avendolo trovato contrario lo assalì e, vintolo, lo relegò su un’amba; e gli sostituì ras Adal Tessamma. Riuscitogli questo primo tentativo, si rivolse al re dello Scioa e ad altri principi perchè l’aiutassero nell’impresa di cacciare l’intruso, ma non avendo trovato favore dovette da solo venire alle mani col rivale e nella battaglia rimase per sua sventura soccombente. Il vincitore però, simulando rispetto e clemenza pel vinto cognato (ne aveva sposato la sorella), alla presenza di tutti i capi lo ammise nella sua tenda imperiale e, baciatagli la mano, disse in faccia a tutti che riguardavalo quale altro padre; il che non tolse però che alcuni giorni dopo lo facesse stringere in catene; ma, sempre per dimostrargli il suo gran rispetto, le catene le aveva fatte fabbricare d’argento, scusandosi tuttavia che per difetto d’operai non gli fosse stato possibile fornirgliele d’oro.

/307/ Così arrestato lo fece tradurre su quella stessa fortezza, dove il vinto alcuni anni prima aveva già relegata la madre e il fratello di Besbes Kassà, cioè Ozzoro Ualetta Salassia e Sciùm Goxà. L’infelice finiva poco appresso la sua vita, chi dice avvelenato, chi strangolato e chi di stenti. Così per giusto giudizio di Dio si scambiavan le sorti. — Besbes Kassà volendo poi farsi riconoscere imperatore dagli Abissini, pensò di farsi incoronare dall’abuna Athanasios; ciò che avvenne il 21 gennaio 1872, assumendo in quell’occasione il nome di Ati Joannes. Così quella corona, che con maggior diritto sarebbe spettata al re dello Scioa, andava a posarsi sul capo del principe del Tigrè. Per questo non è a dire quale odio Menelik concepisse contro la setta dei Karra e il nuovo abuna Athanasios, che dichiarò pubblicamente di non voler riconoscere. Ma intanto, poveretto! facile zimbello agli intrighi di Bafana e di Ghebra Salassie, lasciava formarsi nella corte istessa un partito favorevole al nuovo abuna.

Almanaccando però tra sè come avrebbe potuto soppiantare il novello imperatore, venne nella deliberazione di imbandire un sontuoso banchetto, non solo a’ suoi sudditi, ma anche alle popolazioni del Goggiam e del Tigrè, cosa che, secondo lui, e non s’ingannava, molto avrebbe giovato a cattivargli gli animi. Per la festa adunque del Maskàl, solita a celebrarsi nell’Abissinia con grande pompa e maggiore allegria, fece apparecchiare lo straordinario banchetto. In un recinto quadrato di ben trecento metri di lunghezza era costrutto una specie di salone, chiuso, in luogo di pareti, da tende e diviso in dodici grandi corsie formate da dodici file di antenne rivestite di tele colorate e fiorite di festoni. /308/ Tra antenna ed antenna alla altezza di circa sei metri correvano dei travicelli, anch’essi rivestiti di tele colorate e insieme colle tende, che sopra vi si stendevano, formanti il soffitto. Dai travicelli, dalle antenne partivano, salendo, discendendo, a guisa di catene, lunghi rami di foglie verdi, ornate di fiori, di gingilli, di conterie che s’intrecciavano vicendevolmente e davan tutti insieme al salone un aspetto fantastico e grandioso. Ai quattro lati del salone s’aprivano degli sfondi, a forma di absidi, destinati pei grandi della corte, in uno dei quali, sopra alcuni gradi, sorgeva il trono reale, ornato anch’esso con molto sfoggio. Nel resto dell’ambiente eran distribuite con simmetria 150 tavole, di dodici convitati ciascuna; tavole abissine, s’intende, cioè formate da specie di cannicci sostenuti da due grosse canne e alti da terra un trenta centimetri. Sulle tavole poi eran disposte torrette di tavite (sorta di focaccie) e un piatto per ciascuno; di tovaglie e di posata non se ne parla, perchè fra i barbari non si usa questo lusso. In alcuni vani poi eranvi le provviste dell’idromele, della birra, mille vasi contenenti due brente ciascuno; quella della carne, cento buoi macellati; e pel servizio dei commensali, duecento camerieri.

Il banchetto durò tre giorni, rinnovandosi ogni dì la stessa provvista, e dal mattino alla sera vi erano quattro o cinque mute di commensali, che si può immaginare se facessero onore all’ospite col mangiar di buon appetito e se levassero grida festose e voci di evviva al re dello Scioa, o meglio all’imperatore, che a lui tanto generoso si gridava doversi veramente l’impero. Le quali voci quanto tornassero care a Menelik non occorre dire, questo appun- /309/ to essendo stato il fine di quella gran liberalità. Liberalità per un re barbaro veramente grande, poichè, senza pur contare la carne e la birra date privatamente a quei di Liccè, tenne in ciascun dei tre giorni alla sua mensa ben diecimila e più persone, spendendo quindicimila talleri, somma favolosa per quei paesi. Dopo questo atto di inaudita munificenza il nome del re dello Scioa non è a chiedere se suonasse onorato e applaudito non solo fra i suoi sudditi, ma ancora fra i Goggiamesi, i Tigrini, certo con poco piacere e meno lusinghiero augurio per l’imperatore Ioannes.

Un altro effetto non politico, ma gastronomico, prodotto da quel banchetto furono, cose solite ad accadere in simili casi, molte sbornie e indigestioni e in taluni anche serie malattie. Tra quelli che ebbero a cadere ammalati, vi fu un viaggiatore francese, Filippo Verdier, arrivato a Liccè qualche tempo prima. Costui che poco onorava il nome suo di civile, (perchè anche fra i barbari è avuta in pregio l’onestà dei costumi), abbandonato da tutti, ebbe ricorso alla carità del Massaia; il quale, benché in certa occasione fosse stato da lui svillaneggiato, corse però con gran premura presso il suo capezzale e l’ebbe curato del corpo e anche lo indusse a pensare all’anima col ricevere i santi sacramenti. Rimessosi di quella malattia, per mediazione del Massaia ottenne un impiego a corte, ma tornato quello di prima, il re collo specioso pretesto di affidargli regali per Napoleone III, lo inviò alla costa, dove l’infelice veniva assassinato dagli abitanti di Aussa.

Ma tornando agli effetti politici ottenuti con quel convito, se Menelik con esso molto aveva vantag- /310/ giato dalla sua parte, Ati Ioannes non si stava però inoperoso, e pensando come rimediare al discapito avuto, cercò di compensarsene col favorire il clero, tra quelle popolazioni molto potente. Fino allora l’amministrazione dei beni della Chiesa era stata in mano di secolari, che davano al clero quello soltanto che sopravanzava alla loro ingordigia. Ora per mettere più in auge il clero ed averlo ligio a’ suoi disegni, l’imperatore, tolta l’amministrazione dei beni ai secolari, la trasferì nel clero. Ma ne avveniva che volendo i famigliari dell’abuna arricchirsi alle spalle del clero e del laicato, nascessero questioni e alterchi che indussero poi l’imperatore a riformare nuovamente l’amministrazione; e questa volta in senso più favorevole ai laici; di qui scontenti, disunioni, che finirono ad un’aperta inimicizia tra l’imperatore stesso e l’abuna.

Intanto il nostro Massaia pensando come convenisse cercar di ammansire costui, se non convertirlo, che era impossibile, gli scrisse una lettera umanissima invitandolo alla tolleranza verso i cattolici, non tacendogli il vantaggio che avrebbe procurato a sè stesso e al suo popolo con un sincero ritorno alla Chiesa cattolica. La lettera, come era da aspettarselo, non sortì il desiderato effetto, anzi neppure ebbe risposta; con tutto ciò, divulgatasene la notizia fra il popolo, servì a dissipar certi pregiudici sui preti e sulla religione di Roma; e questo poteva dirsi un vantaggio.

Qualche tempo prima egli aveva impetrato di impiantare una missione a Gilogov nell’Hamàn, dove governava un certo Ato Govana, eretico di professione, ma per indole benevolo verso i cattolici. Ogni cosa essendo in ordine mosse a prendere pos- /311/ sesso della casa. Fu quella una giornata veramente trionfale pel nostro vescovo. Informato del suo arrivo, il governatore gli andò incontro con grande accompagnamento di uffiziali e di servi recanti doni, lo introdusse nel villaggio e per mostrare a tutti la sua allegrezza imbandì un lauto pranzo al vescovo, a’ suoi ufficiali e alle famiglie di quei dintorni. Finita la mensa, levandosi di mezzo a quella moltitudine, sappiate, disse accennando al Massaia, che questi è mio padre; rispettatelo dunque, servitelo, difendetelo come la mia stessa persona e fate che non abbia giammai a lagnarsi di voi. Indi gli presentò i suoi due figli e lo pregò li tenesse sotto la sua custodia, perchè li educasse secondo la religione cattolica.

Ne minor affezione e stima dimostrava alla missione la moglie del governatore; quasi ogni dì portavasi dalla sua casa, lontana ben due chilometri, alla missione per invigilare sui servi, dare ordini e provvedere quel che occorresse; in questo poi tanto generosa (d’accordo anche col marito), che per ben un anno provvide il nutrimento a quella numerosa famiglia.

Assestate le cose materiali, si pensò alle spirituali con un lavoro intenso, ordinato e continuo; e se ne videro ben presto i frutti consolanti; non passava giorno che non si presentasse qualcuno, od eretico o pagano (che ed eretici e pagani abitavano in quei luoghi), a chiedere di entrare nella Chiesa cattolica.

Ma che faceva in particolare il nostro vescovo? Ogni giorno teneva cinque istruzioni religiose, due per i suoi famigliari, due per la popolazione del vicinato e una quinta per la gente che veniva da lontano; il resto del tempo era distribuito nel far /312/ un po’ di scuola agli interni e ad alcuni giovani che erangli stati affidati ad educare, e nel visitare qualche ammalato. Due volte la settimana poi usciva a passeggio accompagnato da una turba di giovani, ai quali veniva spiegando qualche buona massima del Vangelo, o raccontando gualche fatto edificante delle vite dei santi; cosa che mentre li istruiva, li dilettava insieme ed edificava.

Un giorno, mentre se ne andava così fra i campi ecco accostarglisi a certa distanza una infelice donna, che per essere coperta di piaghe, era creduta inferma di lebbra. Al riconoscere il missionario, avièt, aviet, si pose a gridare, pietà pietà di me! Il nostro buon vescovo accortosi alla prima non trattarsi di lebbra, ma d’altra malattia, le disse che se fosse fedele alla cura che le prescriveva, entro un mese sarebbe guarita. Il che avendo udito un galla che era presente, se voi guarite questa inferma, disse, tutta la nostra gente abbraccerà la vostra religione. Non era trascorso un mese da questo fatto e una turba varia di gente tra canti e grida di esultanza si vedeva arrivare alla missione. Era la donna, che, accompagnata dai parenti e da altre persone veniva a ringraziare il suo benefattore. La notizia di questa guarigione divulgatasi nel popolo trasse tosto un numero considerevole di persone, eretiche e pagane, alla missione per essere curate dalle loro infermità. E così d’allora in poi oltre al lavoro spirituale incominciò pel nostro vescovo anche un lavoro materiale non leggero, segnatamente per l’inoculazione del vaiuolo, dal quale tutti li ebbe felicemente preservati.

Mentre fra queste faccende trovava di che rallegrarsi per l’opportunità che così aveva di istruire /313/ quelle povere anime nella religione, un dispiacere venne ad affliggere il suo cuore. Uno dei figli di Ato Govana, di nome Abdì, caduto malato, per non avere ottemperato alle prescrizioni del nostro Massaia era presto venuto in termine di morte. Divulgatasi questa notizia, tosto una moltitudine di galla accorse presso la sua capanna levando alti gridi di dolore e battendo colpi di tamburi per iscongiurare, secondo la loro credenza, il pericolo. Ma era disegno di Dio che Abdì se ne andasse da questo mondo; ed egli prevedendolo volle acconciarsi dell’anima col ricevere i santi sacramenti; dopo di che, «grazie, disse rivolto al Massaia, ora sono contento e pronto a fare la volontà di Dio». E con queste sante disposizioni spirava. Fu questa una sventura per la missione, poichè se fosse vissuto, molto, certamente, per l’opera di lui essa avrebbe potuto avvantaggiarsi.

Essendo il morto di famiglia nobile venne dai parenti, tuttora eretici, trasportato nel sepolcro di Devra-Libanos, riputandosi da quella gente superstiziosa che sia certo di conseguire la salvezza chi può dopo morte andare a riposare presso quel santuario; una delle tante corbellerie che quei preti eretici danno a bere ai loro seguaci. Devra-Libanos si potrebbe chiamare l’università religiosa dell’Abissinia del Sud. Ivi risiedono molti defteri e monaci, una specie di studenti o dottori che si voglia da una parte e di religiosi dall’altra, ma s’intende scienza e religione al modo di quei paesi eretici.