Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

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Capo XXVII.

Una caverna meravigliosa. — Pittoresco paesaggio. — Mosse di guerra. — Makallè e i suoi ricordi storici. — Guerra tra Abissini ed Egiziani. — L’abuna Athanasios. — Arti politiche. — La fortezza di Hennoàri. — Un’ambasciata a Vittorio Emanuele. — Un girella bugiardo e ladro. — Messo infedele. — Peripezie del padre Luigi Lasserre. — Luttuosa fine del padre Giovanni Damasceno. — Consecrazione di Mons. Taurin. — Mons. Massaia e una compagnia di viaggiatori francesi.

Tornando alla residenza di Gilogòv, riesce utile il darne qui una più particolareggiata notizia. La missione sorge all’estremità di un altipiano, su una striscia di terra a foggia di triangolo congiungentesi da un lato al resto dell’altipiano e dagli altri due lati innalzantesi un trecento metri sul livello di due fiumi che le scorrono a’ piedi. Il pendio del monte digrada da queste due parti a modo di anfiteatro formando quattro o cinque ripiani, distanti l’uno dall’altro un cinquanta metri e sopra di ciascuno sorgono capanne, pascolano armenti, crescono piante. Nel dosso del monte poi si aprono /315/ caverne a uso di abitazione per gli uomini e di stalle per gli animali, di magazzini e depositi per le derrate e simili.

Ma il più meraviglioso si è quello che si osserva nel primo ripiano: affacciandoti a un’imboccatura, fatta a foggia d’arco, ti si para innanzi una vasta spelonca perdentesi nella penombra. Inoltrandoti, qua e là trovi sfondi ad uso di ripostigli e di magazzini, ampie sale, larghe corsie con uno spazio da contenere comodamente ben mille persone e cento cavalli; avanzandoti ancora, ecco, vista fatata, un lago di cristalline acque tranquille che per cavare che se ne cavi mai non decrescono, certo alimentate da canali sotterranei. Il lago è abbastanza esteso, tanto che alla luce di candele o stracci incerati ad uso di candele, come colà usano, non se ne vede la sponda opposta, e la grotta intera da un’estremità all’altra misura circa un chilometro.

In questo antro ai tempi dell’invasione di Teodoro o a vero dire di Betsabee, suo luogotenente e vassallo, Ato Govana rinchiuso con cinquanta cavalieri e cinquecento soldati sostenne un assedio di ben diecimila nemici, che dopo alquanti giorni furono obbligati a battere in ritirata; e così lo Scioa potè conservare un lembo della sua indipendenza. Un’altra grotta d’egual dimensione dicono i paesani si trovi nella parte opposta del monte.

Nel ripiano che guarda l’entrata dell’antro scorre un torrentello che dà vita ad un verde boschetto, rallegrato da varie specie di uccelli che svolazzano cinguettando allegramente fra i rami.

Tra il primo e il secondo ripiano poi s’apre nel dosso del monte, senza uscire dal filo, una specie di galleria lunga ottanta metri, alta dieci, larga /316/ otto da cui si gode lo spettacolo di un orrido incantevole: le varie gradinate del monte, il torrente che dal piano di Gilogòv scendendo sulla prima e quindi sulla seconda forma due belle cascate spumeggianti, fragorose, imperlantisi ai raggi del sole; le capanne di quei pacifici abitatori; i boschetti di aloe, di euforbie, di ricino, che coprono i diversi ripiani; e le bestie tra essi pascolanti e giù in fondo, cupamente rumoreggiante le acque del Ciacià.

Ma come scendere a quella galleria che s’apre a perpendicolo nella roccia? e come ai diversi piani mentre questa si alza dappertutto a picco? Con funi; così fece il nostro Massaia.

Abbiamo accennato già alle mire politiche di Menelik; continuando in queste notizie è da sapere che esso per riuscire più facilmente nel suo disegno aveva stretta segreta alleanza col Kedivè d’Egitto, col sultano d’Aussa e coll’Emiro di Zeila per un’azione comune contro Ati Ioannes.

Concertato il piano di guerra, egli corse ad occupare Uarra-Ilù, fortificandovisi per difendersi, diceva, contro i vicini Uollo-Galla; l’esercito egiziano mosse da Massaua verso l’interno; il Pascià Munzinger con un altro esercito di mussulmani si avviò per la costa ad Aussa. Ma intanto che questi lentamente s’avanzavano, Ioannes, non fidandosi delle dichiarazioni amichevoli che faceva Menelik, assalì improvvisamente il Goggiam e lo sottomise e il suo principe Degiace Desta trasse seco prigioniero.

A questa notizia gli eserciti alleati affrettarono le mosse; ma quello di Munzinger, assalito notte tempo da una squadra di nomadi Danakili, fu disperso e lo stesso Munzinger con la sua famiglia trucidato.

/317/ L’esercito egiziano tratto in una gola di montagne detta Gudda Guddi fu sorpreso dai soldati di Ioannes alle due estremità e tagliato a fil di spada: erano seimila uomini che così cadevano senza aver quasi sparato un colpo. Questo avveniva il 17 Novembre 1875.

Cattiva tattica dell’esercito egiziano; prima di tutto il comandante Arakel bey non conosceva nè i luoghi, nè i costumi dei popoli fra i quali si inoltrava; in secondo luogo non ebbe il buon senso di accamparsi in luogo deserto e di qui muovere a molestare il nemico; e si capisce la convenienza di questo partito. L’esercito di Ioannes, numeroso di 30 mila soldati e con le donne e i fanciulli di 100 mila persone, non avrebbe potuto resistere lungamente per mancanza di viveri; laddove l’esercito egiziano essendo vettovagliato dalla costa non aveva questo svantaggio.

Ati Ioannes potè così ritornare vittorioso nell’Enderta, alla sua residenza in Makallè.

È questo un alto monte che si innalza a foggia di cono, il quale quanto è più svantaggioso all’assalitore per il difficile accesso, tanto per lo stesso motivo è favorevole all’assediato. Sovra di esso, durante le guerre tra l’Italia e l’Abissinia, nel gennaio 1896, trinceratosi il maggiore Galliano con quattro compagnie di soldati, vi sostenne intrepido otto vigorosi assalti; e già mancando l’acqua stava per mandare il forte all’aria, quando dall’inviato del Governo Italiano, Felter, fu contrattata la resa. Gli assediati uscivano con gli onori militari, ma l’Italia, si seppe poi, sborsava una bella somma in compenso: il che però nulla toglie al valore certa- /318/ mente mirabile dei soldati, e sopratutto del loro comandante, degno certo di miglior sorte.

Tornando alle guerre sopraccennate l’Egitto, volendo lavar l’onta della patita sconfitta, nel 1876 allestì un secondo esercito di ben 20 mila combattenti sotto il comando di Hassàn, figlio del Kedivè; ma avendo questi sconsigliatamente coi suoi data battaglia nel piano di Gura, il nemico, scaltro, lasciatili avvicinare, ad un tratto dalle montagne che fiancheggiano la valle in numero di duecentomila piombò loro addosso, e ben sedicimila ne stese al suolo (marzo 1876). Gli altri quattro mila col generale Hassàn a stento riuscirono a riparare nella fortezza, donde poi solo pochi poterono giungere salvi alla costa. E così Ati Ioannes rassodava una seconda volta il contrastato impero.

Venuto poi a conoscere come l’abuna Athanasios coi suoi famigliari avesse tenuto segreti maneggi col re dello Scioa, sdegnato, lo condannò a morte. Questi, veduto che il disegno contro Ioannes gli era fallito, simulando amicizia, spedì una deputazione di ufficiali a rallegrarsi con lui e a presentargli i suoi regali, alcune centinaia di cavalli. Nonostante però tutte queste proteste di amicizia seguitava ad agguerrirsi. Considerando che la fortezza di Fekeriè-ghemb, per essere in luogo quasi deserto e quindi difficile a vettovagliarsi, non avrebbe potuto sostenere un lungo assedio, la lasciò incompiuta com’era e ne fece costruire un’altra nella provincia dell’Hamàn, lungi una giornata di cammino da Gilogòv, in un luogo detto Hennoàri, che è un’estremità dell’altipiano galla, per posizione strategica e feracità del suolo molto più adatto all’uopo.

/319/ Finiti i lavori, si inaugurò la città reale (tutte le fortezze sono dichiarate città reali) con grandi banchetti e relativi canti e baldorie.

Intanto capitava alla corte di Menelik abba Michael (quel che aveva accompagnato i giovanetti galla, destinati a Marsiglia, fino al Cairo), un faccendiere ed imbroglione solenne, consigliandolo pel vantaggio e l’onore del suo regno di mandare lettere e regali al Re d’Italia; egli stesso sarebbesi incaricato dell’ambasciata. Menelik, fatto chiamare il nostro Massaia, gli espose la proposta avuta; ma questi, ben conoscendo con chi avesse a fare e d’altra parte essendo già pervenuto qualcosa al suo orecchio dei fatti di Roma, non però il netto, nè la presa della città (e si era nel 1873!) ne lo dissuase. Senonchè, insistendo il re, perchè gli volesse tradurre le lettere in italiano, finalmente il Massaia acconsentì, aggiungendovi però di suo una lettera di paterne esortazioni al suo antico figlio spirituale Vittorio Emanuele e un’altra di rispettoso ossequio al Sommo Pontefice.

Preparati i doni, uno scudo di pelle di bufalo, un braccialetto d’oro e una spada lavorata, abba Michael partì dallo Scioa; e, per essere ignaro della lingua italiana, preso a compagno e interprete uno dei giovanetti galla del collegio di Marsiglia, che eran dovuti uscirne e ritornare in Africa, si avviò per l’Italia. Ma l’infedele ambasciatore, trovate le cose nello stato che tutti sanno, in cambio di contenersi in un prudente riserbo col governo, dichiarossi apertamente ostile al papa, al quale, naturalmente, non curossi di recapitare le lettere del Massaia, con indicibile dispiacere del compagno che era di tutt’altre idee.

/320/ E dopo varie festose accoglienze da questa e quella persona del ministero, cui spacciava le più strane fandonie sulle condizioni dello Scioa, tra le altre trovarsi colà dei cavalli verdi! e dopo aver presi molti succolenti pranzi e complimenti, tornossi allo Scioa, ripetendo alla corte altre grosse bugie intorno all’Italia.

Senonchè il re accortosi che il farabutto delle ottomila lire che gli aveva date per comperargli certi oggetti preziosi forse non ne aveva speso neppur uno, avendogli invece recati dei gingilli da nulla, convintolo infedele, lo fece mettere in carcere, donde non uscì che un anno dopo, e per interposizione del Massaia, che pure da lui aveva ricevuto quel bel servizio!

In questo frattempo erano giunte al nostro missionario lettere e oggetti sacri e di altro genere speditigli dal p. Alfonso da Macerata nientemeno che due anni prima! E pazienza quanto all’enorme ritardo, ma dovette accorgersi, a non dubbi segni, che la parte migliore e più abbondante se l’era trattenuta presso di sè quel ladrone di Abù Bekèr, avendo dovuto i corrieri passare per Zeila.

Abbiamo accennato di sopra al giovane galla, compagno di Abba Michael nella sua ambasciata a Roma. Or è da sapere che il collegio galla di Marsiglia, ideato dal nostro Massaia, dopo due anni di prova, visto che i giovani vi deperivano rapidamente di salute, s’era dovuto chiudere ed i giovani rimandare in Africa. Senonchè giunti questi a Massaua, e trovate le vie dell’interno per la guerra di Teodoro cogli Inglesi tutte chiuse, dovettero riparare in Aden e quivi aspettare miglior occasione. Finalmente, sedate le cose, in compagnia del p. Luigi /321/ Gonzaga Lasserre, sbarcarono a Massaua e di qui mossero per l’interno.

Giunti in Adua, furono cortesemente accolti da quel governatore, ras Barià, che li accompagnò all’imperatore Ioannes, allor di stanza in Ambaraccià presso Gondar. Questi li trattò con ogni gentilezza e diede loro un Kalatie per guida, un tal Alka Fork, col quale i nostri percorsero un bel tratto di strada, dappertutto accolti e trattati onorevolmente. Senonchè giunti a Magdala, senza rispetto alla volontà dell’imperatore, furono legati quai malfattori e trattenuti prigioni dai soldati del signore di quel luogo.

Dopo venti giorni di penosa prigionia, finalmente lasciati liberi, ripresero il cammino e ai 18 agosto del 1873 giunsero a Gilogov. «Appena, così in una sua lettera il detto padre, appena io scorsi il venerabile vecchio, affrettarsi coi piedi nudi per accogliermi, caddi alle sue ginocchia. Mi rilevò ed abbracciò teneramente. Egli non mi aspettava. Nella sua riconoscenza verso Dio, Mons. mi condusse incontanente in chiesa, ove recitammo di tutto cuore il Tedeum».

Un grande vantaggio veniva a ricevere il Massaia da questi giovani e dal padre Luigi per la missione, e per un’altra opera che da qualche tempo stava maturando. Aveva dunque pensato esser cosa molto utile in sè, e pel popolo edificante, se avesse potuto stabilire una specie di convento. Ne aveva parlato col re, il quale approvando il disegno gli aveva a quest’effetto ceduto un fondo ad Escia, villaggio posto alle radici di Fekeriè-ghemb. Lasciando adunque il p. Luigi ad attendere alla missione di Gilogov, egli avrebbe potuto soggiornare al convento di /322/ Escia e formare allo spirito religioso quei che ne mostrassero desiderio e vocazione.

Un altro missionario era destinato a venire a coadiuvare il nostro Massaia nel suo apostolato, il p. Giovanni Damasceno. Avendo questi sentito dell’itinerario tenuto dal p. Luigi per arrivare allo Scioa, pensò che avrebbe potuto battere anch’egli la medesima strada; ma portatosi all’imperatore Ioannes per ottenere il permesso di attraversare il suo regno, non solo non fu ricevuto, ma ebbe anzi l’ordine di tornarsene immediatamente indietro. Risolvette allora di prendere la via di Zeila, ma dopo due mesi di inutile attesa presso Abù Bekèr, dovette un’altra volta ritirarsi deluso. Finalmente associatosi a una carovana di mercanti mussulmani e a un certo Pottier, francese, potè incamminarsi alla volta dell’interno; senonchè, giunto a mezza via, sorpreso dalle febbri, veniva improvvisamente a morte. La funebre notizia portata nello Scioa arrecò ai nostri missionari tanto maggior dolore, quanto più grande era il bene che potevano sperare dal suo apostolato.

Intanto desiderando Mons. Cocino per ragioni di salute essere esonerato dal suo ufficio di coadiutore e vicario del Massaia fra i Galla, conveniva provvedere un successore. A questo uffizio pensò il Massaia di designare il p. Taurin Cahagne: onde preparatolo con alcuni giorni di ritiro spirituale, il 14 febbraio 1875 coll’assistenza del p. Luigi e del sacerdote indigeno Tekla Tsion, fra l’ammirazione e l’esultanza dei novelli cristiani, nella cappella del monastero di Escia lo consacrò vescovo.

Ma anche così la missione si trovava tuttavia troppo scarsa di operai; perchè Tekla Tsion e Ascetù, benché già ordinati sacerdoti, pure non cele- /323/ bravano ancora; il nostro Massaia non vedeva conveniente che celebrassero in rito latino per non destare sospetti e attirarsi guai dagli eretici. Che fare? Se avessero potuto celebrare la Messa nella lingua sacra abissina la cosa si sarebbe potuta accomodare. Tradusse adunque una messa latina in lingua gheez che è la lingua adoperata nella liturgia abissina; e così questi due poterono celebrare senza destare dicerie.

Il nostro Massaia non era solo missionario di Gesù Cristo e padre delle anime di quei poveri negri, ma per la sua carità, nei limiti del giusto e dell’onesto, anche il natural amico e protettore di quanti Europei capitassero allo Scioa.

Già abbiam narrato della sua caritatevole assistenza, benché punto meritata, al francese Filippo Verdier. Or è da parlare di due compagnie di viaggiatori, l’una francese a scopo commerciale, l’altra italiana a scopo scientifico, che entrambe ricevettero da lui segnalati benefizi. La prima, composta di cinque individui, Dissart, Bergier, Piquinol e Joubert con a capo il signor Arnoux, assoldati due interpreti indigeni, Gabre Taklè e Giuseppe Grasmàn, avea perso [preso] la via di Zeila, pagando anch’essa, e ben caramente, il diritto di pedaggio a quel ladrone di emiro di Abù Bekèr, che già conosciamo; ma in una delle prime notti di attendamento essendo stata assalita improvvisamente da una banda di Danakili aveva perduto due dei suoi membri, Bergier e Dissart. Rimessasi con tristi presentimenti in via, era potuta arrivare allo Scioa, dove, benevolmente accolta dal re, aveva tosto dato mano ai suoi lavori.

Il signor Arnoux, preparata una grossa spedizione di merci da trasportare in Francia, si era /324/ avviato alla costa; ma giunto a Zeila per intrigo di due farabutti, dopo di aver pagata un’enorme somma al famoso Abù Bekèr, fu costretto a lasciare ivi la mercanzia e recarsi in Francia per farsi rendere giustizia. Rimessosi in via per l’Africa con alcuni negozianti francesi, a poca distanza da Obok nel marzo 1882 fu proditoriamente assalito da tre Danakili e trucidato; complice, s’intende, come era sempre di tutti gli assassinii di Europei e come fu, tra gli altri, del viaggiatore italiano Giulietti, il famoso Abù Bekèr. Questi poi e i suoi degni compagni di truffa, Gabre Taklè e Giuseppe Grasman si divisero il bottino, a Menelik mandando ciò che loro piacque, e al loro solito, molte buone parole.

A lode dell’infelice Arnoux è da ricordare che nello Scioa sempre si diportò da buon cristiano e che prima di prendere la via del ritorno in Europa volle fare una settimana di spirituali esercizi sotto la direzione del nostro missionario, il quale molto ebbe a lodarsi dei religiosi sentimenti manifestati dall’Arnoux.