Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

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Capo XXVIII.

La spedizione geografica italiana e le benemerenze di Mons. Massaia. — Il ricevimento degli Italiani nella capitale dello Scioa. — La commenda a Mons. Massaia dei Ss. Maurizio e Lazzaro. — Cortesie reciproche. — Il dottor Bartorelli. — Una conversione. — Prime idee d’una colonia cattolica. — Lit Marafià. — Un Gadàm. — Vicende religiose dell’Abissinia. — Messi infedeli. — Il padre Alessio. — Peripezie della seconda spedizione italiana. — Accoglienza trionfale in Liceè. — Il capitano Martini in Italia.

Or è da parlare dell’altra spedizione, che, siccome composta di Italiani, più specialmente ci riguarda. Nel 1876 la società geografica italiana di Roma spediva in Africa a studiare le regioni equatoriali una commissione composta del signor Sebastiano Martini, già capitano dell’esercito, del signor Chiarini, laureato ia scienze naturali, di un certo Lorenzo Landini e del marchese Ignazio Antinori come capo. Sbarcati a Zeila e gustate anch’essi le carezze di Abù Bekèr, dopo due mesi di preparativi spesi nella compera di cammelli e delle altre provviste avean finalmente preso la via dell’interno. Ma eran appena giunti alla metà del viaggio, a Tulle /326/ Harrè e i dieci mila talleri che possedevano, per le truffe e le mangerie di quell’infame assassino, s’eran ridotti a duecento appena, cosicché il capitano Martini fu costretto a tornare in Italia per venirsi a rifornire di denaro.

I suoi compagni continuarono il viaggio, ognun vede sotto quali auspici, e dopo circa un mese poterono arrivare allo Scioa; ma dopo quali peripezie, e in che stato! Nel passaggio dell’Hauash, fatto quasi a nuoto, e nel tragitto di un terreno paludoso, in cui l’acqua e il fango arrivavan loro fino al ginocchio, avevan sciupati parecchi strumenti scientifici di gran valore e anche, quel che è peggio, la salute. E quali accoglienze avrebbero trovate alla corte? Buon per loro che avean colà un valido protettore. Sentito lo scopo del loro viaggio, il Massaia ne parlò favorevolmente con Menelik, il quale perciò diede tosto ordine che venissero trattati con ogni cortesia. Giunti ad Aramba si scontrarono col nostro missionario il quale abbracciarono e baciarono come fosse stato un fratello.

E veramente quale fratello tenerissimo aveva il Massaia già perorato la loro causa dissipando i pregiudizi e i timori che si avevano sulle intenzioni della loro venuta; e poi in appresso anche meglio dimostrò loro il sincero suo affetto eccitando il governo a riceverli onorevolmente nella stessa capitale. E le sue parole trovarono ascolto; furono ricevuti in Liccè addirittura come principi, incontrati da uno stuolo di cavalieri, fra lo sparo dei cannoni e dei fucili, e ammessi poi alla udienza del re, che li accolse nella sala del trono circondato dai grandi del regno e dai nostri missionari. Ricevuti i loro regali e le lettere commendatizie del Re Vittorio /327/ Emanuele, che il Massaia tradusse nella lingua del paese, Menelik dopo un cortese colloquio, li congedò, ordinando ai suoi servi li trattassero con ogni agevolezza.

A notarsi che fra i regali vi era anche la croce di commendatore dei SS. Maurizio e Lazzaro pel nostro Massaia, onorificenza che, se egli non disprezzò, non mostrò certo, come amante dell’umiltà francescana, di compiacersene, non riputandola meritata, come dice nelle sue memorie, per aver servito, non il re, ma la Chiesa, alla quale, veramente, aveva dedicate tutte le sue fatiche, tutta la sua vita, «La croce, aggiunge, alla quale io aveva qualche diritto, era quella del Calvario, o meglio la grazia del martirio, ma non ne fui reputato degno». Parole che ci fanno vedere tutta la grandezza di quell’anima generosa.

Sebbene, a dir vero, anche quella onorificenza civile non sarebbe stata immeritata, avendo egli, massime ad esortazione del governo, fatto conoscere a quei popoli l’Italia e avendo questa, per opera sua, potuto stringere con essi relazioni commerciali e diplomatiche, a tacere della spedizione geografica suddetta. — Tornando alla quale, il re non contento a quelle prime dimostrazioni di stima verso gl’Italiani, ordinò che fossero alloggiati in una vasta capanna, e provveduti ogni giorno del cibo dalla cucina reale, e che uscendo sopra muli riccamente bardati, che a tal uopo avea loro regalato, fossero come alti personaggi sempre accompagnati da qualche servo. Di più ordinò che, tutto a sue spese, fossero trasportate le casse dei loro bagagli da Aramba a Liccè; nel che furono impiegati ben duecento uomini, servizio questo certo non indiffe- /328/ rente. Gli Italiani alla loro volta per ricompensarlo in qualche modo di sì squisiti trattamenti regalarongli cinquanta fucili, che il re mostrò di gradire assai.

Potevano certo dirsi contenti dell’accoglienza trovata i nostri italiani; ma un giorno accadde all’Antinori una grave disgrazia, che avrebbe anche potuto esser mortale. Cacciando nei dintorni di Liccè, partito improvvisamene il colpo dal fucile lo colse nella palma della destra mano, che ne rimase tutta sfracellata. A chi ricorrere in simili frangenti, giacché nè in città ne altrove vi avevan medici? Si pensò di mandare un corriere al nostro Massaia, che dimorava a Fekeriè-ghemb. — Era notte, e questi stava per andare a riposo, quando ricevette la dolorosa notizia; ciò nonostante, senza guardare a pericoli e difficoltà, si mette coraggiosamente in cammino e via attraverso a fitte boscaglie, per sentieri costeggianti paurosi abissi. All’alba giunge trafelato e coi piedi sanguinolenti a Liccè, dove tosto dà mano a curare il ferito; e con felice esito, ricevendone in compenso la consolazione di riconciliarlo con Dio con una buona confessione.

Durante la sua permanenza a Liccè attese a far un po’ di bene ai cattolici del luogo e dei dintorni, e tra le altre cose amministrò il battesimo ad un certo uomo soprannominato il morto risuscitato a causa di una brutta vicenda occorsagli. Avendo costui commesso un omicidio fu condannao alla pena del taglione, cioè ad essere fucilato dai parenti dell’ucciso, i quali alla scarica dei moschetti avendolo veduto cadere, l’avevano abbandonato per morto; ma stando i parenti di costui per calarlo nella fossa, ecco che il creduto morto, quasi desto da profondo /329/ sonno, si riscosse; onde, riferita la cosa al re, fu graziato della vita. E ne seppe poi usare in bene, perchè da quel punto si diede sinceramente a menar vita onesta, abbracciando in fine la religione cattolica.

Di ritorno ad Escia il nostro Massaia trovò Saheli, alaka (rettore) di uno dei santuari di Ankober e dei più reputati maestri, il quale gli fece la proposta di fondare una colonia di cattolici, ove questi potessero riunirsi ad abitare tranquillamente senza essere disturbati dagli eretici. Gli diceva che sarebbevi un ottimo posto presso il fiume Dinki, sui confini orientali dello Scioa; terreno fertile, abbondanza di acqua e copia di selvaggina. Non è a dire se il nostro missionario approvasse quest’idea, essendo anzi questo un suo antico desiderio. E il Signore qualche giorno dopo parve volesse porgergli il destro di effettuarlo. Quel territorio apparteneva all’Abegaz Ualasma, il quale in quei giorni appunto mandò a pregare il nostro missionario perchè volesse inoculare il vaiuolo ai suoi dipendenti, i quali sarebbersi a quest’uopo portati ad Escia. Ma il nostro Massaia approfittando dell’occasione, per amicarsi maggiormente quell’uomo, portossi in persona a Dinki, ove l’Abegaz gli venne incontro seguito da tutta la popolazione e, per gran solennità, al suono del negarit. Fermatosi quivi due giorni, ed innestato il vaiuolo a quanti desideravano, concluse il contratto di compera del fondo; un chilometro di estensione, al prezzo di tre talleri, che poi per riconoscenza del beneficio ricevuto l’Abegaz gli condonò.

Il nostro Massaia possedeva anche in dono una tenuta a Lit Marafià, ma vedendo che da quegli /330/ infedeli coloni non poteva mai avere nulla, d’accordo col re la cedette alla spedizione italiana, che l’avrebbe potuta far fruttare, e ne ricevette in compenso un’altra a Devra Bran presso la capitale.

Per avere un’idea della sfrontatezza di quei coloni nel rubare basti citare questo fatto. allorchè il capoccia, diremmo, seppe della cessione di quel fondo, portatosi dal Massaia gli regalò un salame dicendogli: [«]Questo dovete mangiarlo voi, perchè è roba vostra, essendo stato fatto con la carne di quell’ultimo bue (1) che vi si disse caduto in un precipizio. Invece fu scannato da noi per fare un po’ di festa a onore e gloria del padrone. Voi vi contentaste della pelle e noi ci mangiammo la carne cantando lodi alla vostra persona». E con queste parole il galantuomo credeva quasi di farsene un merito! Lit Marafià, posta quasi ai piedi di Fekerièghemb, è tuttora possessione della società geografica italiana.

Non lungi da Lit Marafià, a Mentek, v’era un gadam o monastero, con due riparti, uno per gli uomini, e l’altro per le donne. Avendone ricevuto invito, il Nostro si recò a visitarli; trovò nessuna o quasi nessuna pratica giornaliera di pietà, e tutti gli individui applicati a lavori manuali, gli uomini di fabbri ferrai, tessitori, vasai, le donne ad altri lavori manuali più leggeri. Questi così detti monaci non professano propriamente la religione del paese, ma un miscuglio di cristianesimo e di ebraismo, e più di ebraismo, ed osservano anzi una certa dipendenza dal capo degli Ebrei di Gondar. Per cono- /331/ scere la ragione dell’esistenza di questa specie di setta fa duopo risalire ai principii del cristianesimo in Abissinia.

Primo apostolo della fede cristiana in Abissinia fu l’eunuco della regina Candace che regnava ad Axum. Era costui ebreo di religione e portatosi nel 70 al tempio di Gerusalemme, si scontrò nell’Apostolo S. Filippo che lo istruì e battezzò. Ritornato in patria si fece apostolo del cristianesimo presso la regina che l’abbracciò e con essa anche i suoi sudditi. Senonchè, morta questa, con la stessa facilità con cui avevano abbracciata la fede l’abbandonarono.

Fra il 330 e il 340 venuto alla corte dell’imperatore d’Etiopia il missionario S. Frumenzio, in breve ebbe convertito lui, la sua famiglia, i suoi ufficiali alla religione cattolica. E desiderando l’imperatore che la popolazione lo seguisse, dichiarò religione dello Stato la religione cattolica, invitando tutti ad abbracciarla. Molti, più per assecondare i desideri del principe, che per convinzione, si fecero cattolici, altri invece, adontatisi che si volesse far loro cambiare religione, stettero anche più ostinati all’antica; dappertutto poi, mancando il clero abbastanza istruito e zelante che continuasse l’opera del primo apostolo, ne venne che prendesse voga un cristianesimo uffiziale, larvato e misto di molte superstizioni e credenze antiche, e dominando prima in quelle contrade l’ebraismo, questo si traforò largamente nelle pratiche religiose dei nuovi cristiani. Di questi alcuni stettero più saldi alle pratiche del mosaismo, come furono i monaci del Gadàm dei quali vi sono circa cinquanta case soltanto nello Scioa, gli altri, senza quasi addarsene, per igno- /332/ ranza propria e dei loro preti, mescolarono malamente insieme pratiche cristiane e ebraiche, di cui molte perdurano ancora, come i sacrifici di animali in molte chiese, la circoncisione, l’osservanza festiva del sabato ed altre.

Nel popolo propagossi così un cristianesimo misto a molti errori, anche per colpa del clero ignorante: tuttavia la religione, diremo così, ufficiale dello Stato continuò ad essere la cattolica, tantoché nel secolo IV troviamo sedere sul trono d’Abissinia un santo, Ilesbaha; e così continuossi a ricevere il vescovo o abuna dal patriarca cattolico di Alessandria, fino al vii secolo, in cui Beniamino, capo degli eretici giacobiti, valendosi del favore del califfo Omar che aveva soggiogato l’Egitto, riuscì a scacciare i vescovi cattolici e a dare fraudolentemente agli Abissini un abuna copto eretico.

Corsero lunghi secoli di tenebre, finchè sulla fine del xiii secolo un manipolo di frati domenicani penetrati nel Tigrè riuscirono a ritornare alla fede il popolo insieme col suo sovrano. Senonchè il fanatismo eutichiano insorse e scatenò un’orrenda persecuzione: i cristiani costretti a rifugiarsi nelle caverne dei monti vi perirono colà entro di fame e sono tuttavia ricordati col nome di santi addormentati, e i loro avanzi si vedono in numerosi mucchi di ossa nei fianchi delle montagne di Remè, Baraka e Meter. Ai domenicani tennero dietro poco dopo i francescani spargendosi per tutto l’Egitto, penetrando anche nel Sennaar e nell’Abissinia; e in particolare è menzione del beato Tomaso da Firenze e di Alberto da Sartiono, spediti da papa Eugenio IV fra il 1430 e il 1445 nell’Etiopia. E prova del loro zelo è il martirio sostenuto da ben 17 di essi. Un /333/ secolo appresso un avvenimento politico apriva l’adito in quelle regioni ai missionari cattolici.

Nel 1541 regnando Claudio Atanàf Sagàd, meglio conosciuto sotto il nome di prete Gianni, un famoso avventuriero di nome Gragne, nativo dell’Harra, messosi a capo dei mussulmani, alzò la bandiera della ribellione. L’imperatore vistosi in pericolo, chiamò in suo aiuto i Portoghesi promettendo, se riuscissero ad assicurargli il trono, avrebbe egli e il suo popolo abbracciata la religione cattolica. Accorsero questi in numero di 400 e capitanati dal famoso Cristoforo di Gama, debellarono quei rivoltosi e uccisero lo stesso capo. Ma l’imperatore non attenne la parola. Però il buon seme della dottrina cattolica potè essere sparso da alcuni sacerdoti che avevano accompagnata quella spedizione. Alcuni anni dopo sopravvennero i gesuiti, pochi di numero ma valenti di zelo, che riuscirono a propagare la vera fede, finendo però la più parte col martirio, nobile figura tra gli altri, il patriarca Oviedo, che dopo una lunga serie di fatiche e di stenti, di prigionie e di esilii, all’ultimo minacciato dall’imperatore Adamas Sagad di morte se non desistesse dal predicare la religione di Roma, rispose col mettersi a ginocchi e offrirgli il capo perchè glie lo troncasse. Fu condannato a duro esilio, relegato in una grotta nell’aperta campagna, perchè avesse a rimaner vittima degli assassini o preda delle bestie feroci.

Otto anni appresso fu richiamato dall’esilio a petizione di una dama di corte che aveva visto l’antro dell’Oviedo illuminato da luce soprannaturale; ma poco dopo nuovamente fu mandato in bando e quindi con una schiera di altri confessori di Cristo /334/ cacciato in un’arida pianura a morirvi di fame. Senonchè giunti presso un fiume le acque a preghiera del santo patriarca gettarono sulla spiaggia abbondante pesce. Il che divulgatosi fra il popolo valse a indurre il re a rivocare il decreto: ma una terza volta ancora lo condannava all’esilio, a Fremona; dove l’intrepido apostolo cessava finalmente di vivere il 29 giugno 1580.

Ad occupare il suo posto venne eletto il p. Giorgi che travestitosi da mercante per entrare nei vietati confini, diede nelle mani dei mussulmani, che gli proffersero il salvocondotto a patto che si piegasse a venerare il loro gran profeta. Al che rispose senza esitare il coraggioso apostolo: il vostro Maometto io lo stimo meno dei miei calzari; onde quelli avventatiglisi addosso lo finirono a ripetuti colpi di scimitarra. Questo avveniva verso il 1585. Nove anni dopo la religione cattolica poteva di nuovo essere predicata liberamente e man mano espandersi, talché nel 1623 il negus Seltàn Sagàd abiurava l’eresia nelle mani del p. Paez e dichiarava la religione cattolica religione dello Stato.

Seguirono alcuni anni di corsa trionfale del cattolicismo, anni veramente gloriosi; senonchè nel 1631 il negus lasciandosi arreticare dalle mene dei copti ritornava all’errore e ristabiliva nel regno il culto antico. Questi erasi contentato di mandare a confine i nostri missionari cattolici; Facilidas, suo figlio e successore, nell’anno seguente li condannava a morte (1b). Tra le vittime del suo furore vanno ricor- /335/ dati i p. cappuccini Cassiano di Nantes e Agatangelo di Vandóme, testé innalzati all’onor degli altari.

Sbarcati costoro nel 1638 segretamente a Massaua eran potuti penetrare fino a Debarona, allorchè furono scoperti da un capo e imprigionati. Dopo un mese di duro carcere vennero attaccati alla coda di un mulo e così trascinati per lunghissima via fino a Gondar dove avean da essere impiccati. Senonchè il boia aveva dimenticato le corde. Allora essi: perchè non potranno a quest’uopo servire i cingoli del nostro saio? E con essi furono strozzati. Un altro tentativo di conversione fecero nel 1700 i Padri Riformati, che loro arrise a meraviglia, riuscendo a ristabilire le relazioni tra la S. Sede e l’imperatore Iasus I; ma, questo morto, le cose nuovamente cambiarono e inutili tornarono altri sforzi fatti dai medesini Padri nel 1719, nel 1750 e nel 1778. Miglior sorte ebbero verso la metà del secolo passato i lazzaristi, segnatamente col De Iacobis, come in parte abbiam visto e come vedremo.

Ripigliando il filo del nostro discorso, venuto il nostro Massaia fra i monaci di quel Gadàm e non patendogli l’animo di andarsene senza aver loro rivolto qualche parola salutare fece loro una religiosa esortazione; la quale non fu certo senza frutto, perchè, finito che ebbe, uno dei così detti monaci rompendo in lacrime, ah padre, gli disse, non lasciateci così tosto, restate un altro po’ con noi; /336/ continuateci ancora per qualche tempo le consolazioni di paradiso, che con la vostra conferenza ci avete teste fatto gustare. Non sapremmo dire quanto da una tale dichiarazione restasse il nostro missionario commosso insieme e contento.

Nel ritorno fu a visitare la grotta di un monaco detto Ualde Mariàm, monaco, s’intende, all’abissina, che di monaco non aveva veramente che il vivere ritirato in quella spelonca, non rendendo nel resto punto odore di santità. Non lo trovò in casa, ma la sera ecco se lo vide capitare alla missione, e d’allora in poi altre volte ogni tanto, e benché quei della casa, conoscendo l’indole di quell’uomo e la vita fin qui da lui menata non pronosticassero bene, tuttavia, operando la divina grazia, due anni dopo veramente convertito, veniva a ricoverarsi nella casa della Missione.

Mentre il Massaia se ne stava tranquillo a Fekeriè-gheb, ecco giungergli due corrieri, i quali eran latori di lettere e oggetti a lui. Erano costoro due giovani di sua conoscenza, di nome uno Giovanni e l’altro Carlo che egli aveva mandati al collegio galla di Marsiglia, e che poi, causa la loro poco lodevole condotta, erano stati licenziati. Da ciò che gli venne consegnato, alcuni stracci di lettera e alcuni involti di pelli con pochi oggetti di niun valore, come da altri segni, ebbe ad accorgersi che sotto vi si celasse qualche tranello, tanto più quando il mercante che li accompagnava, spalleggiato pur da essi, si fece a domandargli pel servizio una somma davvero favolosa. Persuaso d’aver a fare con dei malfattori li fece bravamente arrestare dalle autorità finchè non fosse chiarita la cosa. Ma com’era andata?

/337/ Un cappuccino francese, certo p. Alessio, era partito da Aden diretto allo Scioa con un bagaglio di ben diciotto casse di oggetti tra sacri e d’altro genere e una somma di 600 talleri destinati al nostro Massaia. S’era tolto a compagno e guida, siccome pratico dei luoghi ed esperto nella lingua del paese, il giovane Carlo suddetto. Insieme colla sua carovana viaggiava di conserva un’altra, quella del capitano Martini che col capitano Cecchi ritornava allo Scioa per portare soccorsi ai suoi compagni della spedizione geografica già ricordata. Questi avevan preso come dragomanno uno dei giovani suddetti, Giovanni. Or costoro erano due traditori e furfanti che accordatisi coi camellieri e coi mercanti sottraevano la roba ai loro padroni e poi di soppiatto la vendevano ai mercanti che viaggiavano colla loro carovana. Giovanni, scoperto, essendo stato licenziato s’era ipocritamente unito al p. Alessio, al quale insieme con Carlo finì di togliere quasi tutta la roba, e poi, complice il compagno, a quanto pare, anche gli propinò il veleno, onde il poveretto era morto poco oltre il fiume Hauàsh ed ivi dal Martini e dal Cecchi era stato affettuosamente sepolto.

Giunti nello Scioa i tre furfanti furon tosto imprigionati a cautela, in attesa che si chiarisse quella matassa arruffata, finchè, scopertasi la loro reità, furono condannati a rifare i danni e a staggire in carcere.

Nè minori peripezie aveva sofferto la spedizione italiana. Dopo aver loro spillato con un pretesto e coll’altro gran parte del denaro che recavano e sottratti non pochi oggetti, giunti all’Hauàsh i cammellieri non avean più voluto seguitare senza lo sborso /338/ di altro denaro. E questo la spedizione, non volendo nè potendo darlo, quelli se ne venivano allo Scioa colle bestie scariche. Allora il capitano Martini, lasciato il capitano Cecchi solo, con quella marmaglia, s’era avviato allo Scioa per domandare soccorsi ai compagni e giustizia all’autorità. E dopo quattro giorni di faticoso viaggio pervenuto a Fare s’era incontrato con Antinori e Chiarini, coi quali andato dal re si fece dar ordini perentori pei cammellieri che così dovettero per forza ricaricare i bagagli e rimettersi in via.

Il 7 ottobre 1877 finalmente giungevano in Liccè accolti con un trattamento principesco che fece loro dimenticare in parte gli strapazzi sofferti: tuonavano i cannoni, le truppe schierate in due file rendevano gli onori, il popolo innalzava grida festose ai nuovi arrivati, ai ragguardevoli bianchi che s’avanzavano su muli riccamente bardati e entravano nel ghebì o recinto reale. Il re circondato dai grandi della sua corte con ai fianchi Mons. Massaia e Mons. Taurin li attendeva nella sala del trono. Ricevute le lettere e i regali di Vittorio Emanuele che mostrò di gradire in parte e il diploma di socio onorario della società geografica italiana che mostrò di non gradire, o meglio ricevette con indifferenza, perchè non sapeva che cosa fosse, si trattenne con loro in amichevole conversazione e dopo li congedò assegnando a ciascuno, come già agli altri loro compagni, un mulo bardato e un servo per proprio uso, una capanna per alloggio e cibo reale ogni giorno; li trattò insomma per barbaro con grande munificenza.

Ma vedremo poi quanto bene sapesse valersi di queste larghezze pei suoi fini. Non passarono molti /339/ giorni ed egli espose al capitano Martini un suo desiderio, che nelle condizioni di lui valeva un comando, cioè che volesse recarsi nuovamente in Italia per farvi a spese del re, s’intende, alcune provviste di cannoni, fucili e munizioni, poichè lo scaltro già macchinava di movere contro al suo rivale Ati Ioannes, nè avrebbe potuto sperare buon giuoco senza una forte provvista di armi. La stessa cosa, perchè appoggiasse la sua domanda, manifestò al nostro Massaia, il quale indovinando dove andasse a parare quel nuovo disegno del re, cercò di schermirsene, ma trovandosi egli più che gli altri pressato dall’autorità sovrana, gli fu giocoforza cedere e adattarsi a scrivere le lettere di accompagnamento pel Re Vittorio Emanuele. Convien notare però che, ad arte o sinceramente, ma possiam credere sinceramente, Menelik mandava anche lettere e regali al Pontefice. In compenso concedeva maggiori agevolezze agli altri membri della spedizione rimasti e loro procurava raccomandazioni presso i capi delle regioni del Sud dove intendevano recarsi per le loro osservazioni scientifiche. E difatti il 14 Maggio 1878 con buona provvista di denaro, di bestie, di attrezzi e di vettovaglie, tutto dono di Menelik, Chiarini e Cecchi, movevano verso il Sud per le regioni di Ennerèa, Ghera e Kaffa.

Questi paesi insieme con quelli abitati dai galla Borena caddero poi man mano in potere di Menelik. La occupazione incominciata nel 1880 si protrasse, a intervalli, fino al 1897. Fiera resistenza opposero i galla, gelosi della loro indipendenza, ma finalmente dovettero cedere sotto l’urto delle armi abissine.

(1a) Nello Scioa non si usa macellare carne di porco riputandosi questo, come presso gli Ebrei, animale immondo. [Torna al testo ]

(1b) Vedi la «Civiltà cattolica», anni 1896 e 1907, e le «Missioni cattoliche» di Milano, anno 1915. — Chi ama tener dietro al movimento missionario nel mondo legga questa rivista, settimanale, illustrata, importantissima. Esce a Milano per cura del- /335/ l’Istituto Pontificio delle Missioni (via Monterosa 81). Dello stesso Istituto vogliamo ricordate e raccomandate l’«Italia Missionaria», periodico mensile, illustrato, per la gioventù, e la «Bibliotechina Missionaria», che pubblica ogni mese un volumetto di 64 pagine, di varia trattazione missionaria, drammatica, storica, romantica, di viaggi, ecc., insomma per tutti i gusti. [Torna al testo ]