Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

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Capo XXIX.

La colonia di Rasa; progressi e rovina. — Una riflessione. — Notizie delle missioni galla. — Spedizione guerresca nel Gudrù. — Ad Escia e a Fekeriè-ghemb; che cosa si faceva. — Tristi conseguenze del divorzio. — Tumulti e ribellioni nello Scioa.

Or è da tornare alquanto addietro e narrare l’impianto della colonia di Rasa, presso il fiume Dinki, di cui sopra si è parlato. Lunghesso questo fiume sorge un colle dell’altezza di circa dieci metri, quasi perfettamente piano alla superficie e tutto intorno stagliato a picco, se non in quanto da una parte presenta un accesso men difficile. Le sponde del fiume sono terreno fertilissimo, ricco di cereali, di erbe, di tamarindi e di altre piante fra cui aggiransi varie specie di animali, cervi, daini, asini selvatici, avoltoi, scimmie, lepri, e anche leopardi, leoni, e serpenti di varie specie. In particolare, di serpenti sull’altipiano se ne trovò in tal quantità da inorridire e ci volle non poco per distruggerli, almeno in parte.

Si diedi quindi mano ad alzar le capanne per la popolazione, non meno di trenta famiglie; si /341/ costrusse sulla parte accessibile del monte un muro a secco con porta da chiudersi durante la notte per difendersi dagli improvvisi assalti nemici e dalle fiere, e si formulò un regolamento per la retta amministrazione e il buon andamento di quella piccola comunità a cui si preposero tre capi, che furono i sacerdoti Saheli, Tekla Tsion e Ascetù. Non essendovi sull’altipiano terreno adatto, perchè pietroso, da farvi il cimitero, questo si andò a piantare abbasso, circondandolo, in luogo di muro, di una forte palizzata. Avendo lungo la riva del fiume terreno sufficiente per coltivare, la colonia venne presto in grande prosperità e anche, per la sua onestà, in molto credito presso i dintorni, cosicché Rasa diventò il centro di un grosso mercato dove si scambiavano i prodotti tra la colonia cattolica e i vicini mussulmani e Danakili con reciproco vantaggio e soddisfazione. Ne minore era il bene spirituale che si veniva facendo, talché v’era proprio da ringraziare il Signore.

Ma mentre il nostro apostolo si andava consolando per sì lieti progressi, ecco arrivare in Fekeriè-ghemb, ove dimorava, un corriere con la triste notizia che nella colonia di Rasa era scoppiata una terribile epidemia che andava mietendo giorno per giorno numerose vittime. Dati al corriere alcuni farmachi che giudicò più opportuni, pensava di recarsi egli in Rasa in persona affine di consolare e di confortare colla sua presenza quei poveretti. Ma i giovani di Fekeriè-ghemb, avutone sentore, presero a custodire tutte le vie per impedirgli l’andata, temendo avesse anch’egli a rimaner vittima del morbo. La carità però non conosce ostacoli, e una notte egli, mentre i suoi dormivano, accompagnato da due /342/ fedeli servi, lasciò la sua dimora e attraverso una fitta boscaglia, per viottoli costeggiami paurosi precipizi, giunse in riva al Dinki. Era l’alba quando s’incontrò in un’inferma che sopra una barella veniva trasportata via da Rasa; era questa l’ultima rimasta di tutta la colonia; quei che non eran fuggiti eran morti. Poco dopo s’abbattè nel sacerdote Saheli che dopo avere, già mezzo malato egli stesso, curato gli altri, ora, non restandogli più nulla a fare, se ne partiva anch’egli. Passata la notte presso la famiglia di un ricco mussulmano a cui due anni prima il nostro Massaia aveva inoculato il vaiuolo, la dimane faceva ritorno a Fekeriè-ghemb.

Così dopo due anni di vita rigogliosa quella colonia su cui il nostro missionario aveva fondato tante speranze era improvvisamente sparita. Quali le cause? Secondo lui, le naturali i miasmi sviluppatisi con maggior violenza pel dissodamento del terreno intorno al fiume: le soprannaturali? Ecco nella sua umiltà quali potevano essere, «Noi siamo uomini e nelle opere imprese per la gloria di Dio difficilmente ci spogliamo di tutto quell’amor proprio che ruba a lui una parte delle opere medesime per iscriverle a nostro merito ed onore. Ma ecco Dio pronto a farci vedere che tutto è opera sua e che ogni cosa appartiene a Lui. Umiliamoci e adoriamo i suoi voleri». Belle, sublimi parole, degne veramente di un santo!

La colonia di Rasa fu poi ripristinata da quell’Ualde Mariàm già accennato di sopra che vi condusse ad abitarvi, come più avvezza a quel clima caldo e umido, gente dei paesi bassi; ma a non lungo andare sorta questione tra i coloni e alcuni danakili, /343/ egli che era corso a rappaciarli vi perdeva la vita; e così la colonia, mancando di capo, si sciolse.

La missione di Finfinnì amministrata da Mons. Taurin, quella di Gilogòv dal P. Luigi Lasserre venivano intanto prosperando ed estendendo nei dintorni le loro conquiste. Ma delle missioni galla del sud che n’era? La missione di Ghera, governata dal p. Leone des Avanchères, certo non aveva dato quel frutto così consolante che aveva promesso in sugli inizi: tuttavia non poteva dirsi fosse rimasta sterile. Quella di Kaffa per lo zelo del buon p. Hailù, dopo una breve sosta, era venuta acquistando e anche presso il governo aveva ottenuto piena libertà, potendo i missionari entrare ed uscire dal regno liberamente. Ma il padre Hailù era morto e vi aveva lasciato solo due preti indigeni, buoni sì, ma poco istruiti.

Nel Gudrù, dopo la morte di Gama Moràs, sotto il governo del figlio Gosciò, cattolico, e del capitano dei fucilieri, Ualde Ghiorghis, la religione aveva preso un notevole incremento: senonchè, morto Gosciò di vaiuolo, la parte avversaria, alzato il capo, chiamò in suo aiuto ras Adàl, signore del Goggiàm; e questi, come in simili casi avviene, da alleato fattosi padrone, sottomise gli uni e gli altri sfogando il suo odio contro i cattolici di cui molti uccise, altri disperse. Il che avendo udito il re dello Scioa e vedendo aver buona occasione di impadronirsi di quella regione che da tanto tempo agognava, col pretesto di difendere i cattolici oppressi, mosse col suo esercito sopra Lagàmara. A tal annunzio i cattolici, e insieme con loro anche uno stuolo di pagani e di mussulmani, circa 1500, s’eran radunati, seco traendosi le masserizie e il bestiale, presso le case /344/ della missione, sperando all’ombra di essa di trovare protezione e rispetto. Ma, come andasse la cosa, forse perchè da taluni tratti in inganno, i soldati scioani, credendo tutta quella gente si fosse colà assembrata per tener fronte a loro, l’assalirono e molti ne trucidarono, altri condusser schiavi; e tra questi parecchi cattolici, il sacerdote indigeno abba Paulos e Ualetta Mariàm, quella buona serva che aveva accompagnato il Massaia nel suo duro esiglio dal Kaffa. Chiaritosi l’equivoco, i prigioneri furono rilasciati e le robe e gli oggetti sacri appartenenti alla missione rimessi ai loro padroni.

Ma veniamo al nostro Massaia: quali le sue occupazioni nella sua dimora di Escia? Di buon mattino celebrava la santa Messa a cui tutti assistevano; indi, recitate le orazioni, i servi mandava ai lavori manuali, a dissodare, disboscare, piantare sotto la direzione di un fattore: i giovani più bisognosi di istruzione riteneva con sè, facendo loro due conferenze alla buona, in due sezioni separate, i più grandicelli e i più piccoli. Indi egli si recava a Fekeriè-ghemb per esercitare un’altra parte di ministero corporale cioè inoculare il vaiuolo alle persone che colà accorrevano dai dintorni. Aveva poi assegnato un giorno della settimana per trattare degli affari civili e amministrativi di Uanenamba, villaggio che eragli stato ceduto come in feudo.

Un vantaggio considerevole ebbe ad ottenere con questo mezzo, della sua autorità, vantaggio materiale e spirituale. Si sa che la maggior piaga di quelle popolazioni è la somma facilità che v’ha tra loro di divorziare, onde ne nascono danni enormi per la società civile e domestica; rimangono abbandonati i figli, si acuiscono gli odi tra famiglia e fa- /345/ miglia, tra i figli delle diverse madri: uno sfacelo insomma domestico e sociale, senza parlare del più grave, il morale. Ne sia prova il seguente episodio. Un giorno si presenta al Massaia un povero vecchio, il quale mettendogli in mano un tallero, questa, disse, è l’unica ricchezza che mi rimanga; a lei gliela offro perchè voglia farmi rendere giustizia da mio figlio, che, vecchio ed inabile al lavoro qual sono, ricusa di riconoscermi per suo padre. Il nostro missionario, unito uno dei suoi talleri al tallero del povero uomo, glie li restituì entrambi dicendo: il vostro tallero è salito al cielo ed è ridisceso con un compagno; teneteveli entrambi per voi; in quanto poi al servizio che mi chiedete ve lo farò egualmente volentieri. E recatosi dal figlio di costui lo venne pregando volesse mostrarsi un po’ più umano verso il proprio padre.

Ma il figlio a sua volta, prenda, gli disse, questi cinque talleri; li prenda e li dia a mio padre perchè se ne valga pei suoi bisogni. In quanto al riceverlo in casa poi assolutamente non posso. Il Massaia allora mostrandogli il crocifisso lo pregò, se non per riguardo alle sue parole, per amore del Redentore non negasse un tale atto di giustizia e di pietà figliale insieme al suo genitore. Allora il figlio, se voi sapeste, disse, quello ch’ei m’ha fatto soffrire, davvero non mi parlereste di obblighi verso di lui. Sentite dunque: sposata mia madre, si rimase con lei dieci anni vivendo d’amore e di accordo, e io con loro non meno felice; ma poscia per un capriccio abbandonata mia madre ed unitosi ad altra donna, io dovetti seguire il padre. Ebbe da questa seconda donna altri figli ed io divenni allora lo zimbello di lei e dei miei fratellastri, che, non contenti /346/ di caricarmi di ingiurie, volevano ancora costringermi a rubare in loro vantaggio; e negandomi io di ascoltarli, non insulti solamente, ma pioggie di bastonate facevan fioccare sulle mie povere spalle. Una volta anzi fui da loro messo in catene e lasciato un bel pezzo con uno straccio di abito indosso e scarso cibo. Un’altra volta ed un’altra volta ancora mio padre passò ad altre illecite unioni, sempre maggiomente impoverendo e riducendosi infine a dover vendere ogni cosa. Io allora fui costretto a cercarmi il sostentamento col mettermi a servizio, e accasatomi con una donna discretamente agiata posso tirare innanzi con onore la vita. Più volte mio padre ha negato di riconoscermi come suo figlio ed è per questo che io non l’ho più voluto riconoscere come mio padre: con tuttociò non ho mai lasciato di soccorrerlo segretamente.

A queste rivelazioni che cosa poteva opporre il nostro missionario? dovette contentarsi di accettare quei cinque talleri da rimettere al padre.

Ecco intanto quali tristi effetti produce il divorzio, quel divorzio che certi governi, sedicenti civili, caldeggiano con tanto ardore, proclamandolo poco men che necessario alla quiete domestica, alla prosperità dello Stato. Poveri quei popoli dove alligna questa trista zizzania, questa cancrena! sono destinati a perire materialmente e moralmente! Ne sia esempio la Francia, la cui popolazione rimane stazionaria, mentre gli altri stati tutti sono in aumento; e questo solo per toccare dei danni materiali; che diremo dei danni morali, molto più gravi, di cui la stessa nazione dà sì doloroso spettacolo?

Tornando al nostro racconto, riflettendo il Massaia a tutte queste cose adoperossi con ogni sforzo /347/ per impedire e frenare questo disordine nel suo villaggio di Uanenamba; e colle sue caritatevoli esortazioni vi riuscì così bene che le domande di divorzio che nel primo anno salivano a 24 si ridussero nel secondo a 15, nel terzo a 8, e infine a 2 o 3 che egli indusse a ritirare, in modo che tutte le ottanta famiglie onde si componeva il villaggio, tutte in quanto a questo erano in ordine.

Venendo ora alle guerre politiche tra Ati Ioannes e Menelik, questi dopo avere conquistato, come abbiam visto, il Gudrù, nel 1877 mosse, con un forte esercito contro il Goggiam che ebbe facilmente tolto a ras Adàl, il quale fu costretto coi suoi pochi uomini a rifugiarsi nella fortezza di Gibellà. — Mentre Menelik attendeva a consolidare il suo potere nel Goggiam e a riscuotere i tributi, nel suo regno dello Scioa si lavorava febbrimente a soppiantarlo. Mèred Haily, zio di Menelik, aiutato segretamente da Ghermani, uno dei due reggenti del regno, e da Bafana stessa, anzi da essa istigato, si faceva proclamare re, dicendo che avrebbe però ceduta la corona al nipote (1) Masciascià che da Menelik, a suggerimento di Bafana medesima, era stato chiuso per cautela nella fortezza di Fekeriè-ghemb. L’esercito reale spedito dall’altro reggente, Tsadek, a combattere i ribelli era stato battuto, ma il vincitore non ebbe quasi tempo di cinger la corona, perchè lo stesso Ghermani vedendo la freddezza con cui era stato accolto il nuovo re unì le sue forze con quelle di Tsadek ed assalitolo in Ankober facilmente lo sconfisse e avutolo nelle mani /348/ lo fece tradurre nella fortezza di Hennoari, dove fu trasportato da Fekeriè-ghemb anche Masciascià.

Intanto, pervenuta la notizia di tutti questi moti a Menelik nel Goggiam, Bafana che temeva di essere scoperta si fece dallo stesso re dare il titolo di reggente dello Scioa con una parte dell’esercito per correre, diceva, a mettere al dovere i ribelli. Giunta dunque in Liccè e mostrate le lettere patenti del re fece trasportare quanto ivi ritrovavasi di prezioso e quanto si trovava in Ankòber, insieme con buona provvista di viveri, alla fortezza di Tammo, senza però svelare il motivo di un tal fatto. Da molti sospettavasi il tradimento, ma non si osava affrontare le ire della malvagia donna e si stava zitti aspettando come la cosa sarebbe andata a finire. E veramente l’intento suo era di uccidere Masciascià e, chiamato Ati Ioannes nello Scioa, fare eleggere re un suo figlio. Senonchè una notte, mentre si continuava a gozzovigliare per le feste di Tammo da Bafana ordinate, alcuni fedeli amici di Masciascià penetrati nella prigione gli proposero di disfarsi della scaltra donna col gettarla in un precipizio; consiglio che Masciascià non volle accettare, contentandosi di farla legare e custodire in una capanna. — Menelik intanto sentendo che Masciascià poteva dargli serii imbarazzi si mosse dal Goggiàm e venne ad accamparsi presso la fortezza di Tammo dove si trovava Masciascià. Ma non potendo averla si rivolse al Massaia perchè si interponesse fra lui e il cugino affine di addivenire a un pacifico accordo. E questo fu concluso coll’allontanamento di Bafana dalla corte e coll’investitura data a Masciascià delle Provincie galla del sud col titolo di Degiasmace.

(1) Masciascià era figlio di Sciaifù, fratello di Hailù Malakòt, padre di Menelik. [Torna al testo ]