Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

/350/

Capo XXX.

Definitiva sottomissione di Menelik. — Sua incoronazione. — Un uragano. — Curioso ricevimento del Massaia. — Nubi oscure. — Quanto affetto di figli! — Il tributo del vinto. — Un congresso di eretici dissidenti e maneggi di Ati Ioannes. — Notizie sui viaggiatori Cecchi e Chiarini.

Ati Ioannes, vedendo che ormai il re dello Scioa aveva gettato la maschera e si adoprava a togliergli la corona imperiale, s’avanzò con un esercito verso i confini, credendo di sorprenderlo tuttora nel Goggiàm, ma Menelik aveva a tempo passato l’Abbai ed era rientrato ne’ suoi stati. — Tuttavia questi non tenevasi guari sicuro ed aveva perciò consigliato gli stranieri a ritirarsi in luoghi fortificati; e così molti di essi, tra cui l’Antinori, ripararono a Fekeriè-ghemb, dove risiedeva il nostro Massaia. Frattanto dall’una parte e dall’altra non osandosi venire alle mani, si scambiavano messaggi per trattare la pace, la quale finalmente venne conclusa a certe condizioni, di cui queste le principali: che /350/ Ioannes sarebbe riconosciuto legittimo imperatore dell’Abissinia e Menelik godrebbe il possesso dello Scioa col titolo di re, ma si obbligherebbe a pagare ogni anno all’imperatore un tributo in denaro. Menelik restava dunque realmente perdente e Ati Ioannes per compensarlo in qualche modo di quella umiliazione inflittagli lo incoronava re dello Scioa, regalandogli per l’occasione una corona, uno scettro d’oro, un manto rosso, alcuni cannoni e parecchi fucili.

La festa della incoronazione s’era svolta con un sontuoso apparato, sbalorditivo per quelle genti, e chiusa poi con grande banchetto e relativa baldoria. E appunto la sera di quella straordinaria allegria il nostro mons. Massaia dopo parecchi giorni di faticoso cammino a piedi, arrivava al campo dell’imperatore per sentire il motivo della sua chiamata. Perocché è a sapere che questi per un corriere l’aveva fatto pregare si fosse recato al suo campo, presso Devra-Libanos; a che fare non gliel’aveva detto.

Il giorno dopo, mentre il Massaia se ne stava tuttavia aspettando d’essere ammesso all’udienza imperiale e l’esercito seguitava la gazzarra, ecco levarsi improvviso un uragano e senza dare tempo a cercar riparo scaricarsi su quella campagna un rovescio di pioggia e di grandine che, scagliate con impeto e violenza da un vento rabbioso, flagellavano bestie e persone, atterravano tende, esponendo quelli che ivi s’erano riparati all’ira del cielo. I soldati erano come storditi; gli animali, rotte le cavezze, correvano impazziti per la campagna cercando inutilmente di fuggire quella furia di mal tempo: tutto era scompiglio, spavento e trambusto /351/ infinito. Cessata quella burrasca indiavolata, si vide su tutta quella distesa del campo come un lago di acqua e di fango, vesti fradicie, tende abbattute e stracciate, viveri interrati nella melma.

Si passò la notte seguente senza cibo, senza fuoco con che asciugarsi gli abiti e scaldarsi un po’ le membra irrigidite; con quale pena non è a chiedere. Pel timore che fra quel numeroso esercito fossero per isvilupparsi miasmi micidiali, la mattina seguente si affrettarono a partire e, raccolte le tende, si misero in cammino.

Fra le truppe di Ioannes e di Menelik erano ben 100 mila persone, di cui un terzo donne e fanciulli, insomma tutta una popolazione si moveva. Dietro i soldati seguiva in una varietà pittoresca di oggetti e di pose una folla grandissima di fanciulli e di donne, quale con un vaso per la pasta, e quale con pale per presentare il pane al fuoco, questi con un sacchetto di grano, quegli con le pietre fra cui schiacciarlo, altri con vasi della birra e dell’idromele. Tale è il modo di guerreggiare di quei paesi e il muovere degli eserciti. I quali giunti al luogo dove intendono mettere il campo si sparpagliano nella campagna intorno e nelle case facendo man bassa su tutto.

Veramente non difettavan di viveri, ma avvezzi alle rapine e alle prede di guerra, i soldati imperiali giunti in un villaggio dello Scioa, che pure avrebbero dovuto rispettare come amico, vi si gettarono sopra come invasori, guastando la campagna, predando gli animali, le vettovaglie, e, legati i miseri abitanti, trascinandoseli seco per venderli forse come schiavi e ricavarne anche da essi qualche guadagno.

/352/ E Menelik che vedeva i suoi sudditi trattati a questo modo non fiatava? Ma veramente egli, nonostante quella gran pompa dell’incoronazione, era solo più padrone di nome dello Scioa, aveva fatto il suo regno tributario all’imperatore, gli si era politicamente sottomesso. E anche religiosamente dobbiamo aggiungere; perchè aveva permesso che l’imperatore, fanatico eutichiano, nominasse Eccecchè — abate supremo dei monaci — del Santuario di Devra Libanos, centro della fede di Tekla Haimanòt, un monaco eutichiano o Karra, quel Ghebra Salassie, confessore di Bafana che già conosciamo anche troppo; e, quel ch’è peggio (come poi si seppe), aveva acconsentito, sebbene a malincuore, di esiliare dallo Scioa il nostro Mons. Massaia.

Ma intanto erano trascorsi dieci giorni dacché il nostro Massaia col p. Luigi Lasserre trovavasi al campo e sofferente di salute, nè la sospirata udienza veniva; finalmente, per interposizione di Menelik, l’imperatore si decise di accordargliela. Il nostro Massaia fu fatto attraversare due corridoi bui e introdotto in una camera anche più buia; e mentre quivi stava, ecco aprirsi improvvisamente un foro nel sopraccielo della tenda, per cui passando un vivo raggio di sole, andò a ferirgli la fronte. Voleva spostarsi, ma un cerimoniere di corte, veramente poco cerimonioso, un tristo arnese, Worchie Masciascià, astuto nemico dei missionari, con mal garbo lo tenne lì fermo, inchiodato, finchè non avesse finito il colloquio coll’imperatore, che gli parlava col volto coperto dallo sciamma, e solo guardandolo colla coda dell’occhio. Perchè quella stranezza del foro col giuoco di quella luce? Come si seppe, per dar molestia al Massaia; e perchè quella non minore /353/ stravaganza del coprirsi il volto parlando? per non esser ipnotizzato dagli occhi del nostro missionario; perocché questa fra tante altre panzane i preti eutichiani avevan fatto credere all’imperatore, tale virtù avere lo sguardo dell’abuna cattolico. Ioannes poi che cosa voleva dal Nostro? Il motivo della sua chiamata si riservò di manifestarglielo un’altra volta. Il nostro missionario era dunque venuto per nulla, cioè, a meglio dire, per soffrire dieci giorni tra il frastuono e i disagi di quella vita soldatesca: ed era per di più stato giuocato dai suoi nemici. Ma il Signore dispose che i loro disegni avessero da altro lato tutt’altro effetto, perchè non pochi di quelli che eran stati presenti al curioso ricevimento, alla novità di quel foro e di quel raggio non potevano darsi a credere che non fosse stato un miracolo in favore dell’opera e della persona del Massaia.

Tornando all’imperatore, questi dopo aver saccheggiato altri paesi dello Scioa, finalmente uscì col suo esercito dai confini, e Menelik coi suoi soldati tornossi tutto mortificato alla sua capitale: vedeva bene che la sua incoronazione era stata per lui come una disfatta campale e n’era perciò pensieroso; ma il popola n’era anche più indignato e indispettito.

Quanto ai nostri due missionari, nel ritorno a Gilogòv ebbero a conoscere che gli Eutichiani avevano sparso fra quelle popolazioni che fossero stati arrestati, bastonati e condotti in prigione da Ioannes, e perciò quanti li incontravano si facevano a congratularsi con loro di essere scampati a quella disgrazia. Alcuni giorni dopo il Massaia portossi a Liccè per veder di sapere dal re quali intenzioni /354/ avesse l’imperatore sopra la sua persona e anche per concertare con lui i doni da spedirgli. Ma della prima cosa neppur verbo; Menelik rispondeva sempre con parole evasive, e veramente poco concludenti; il che lo confermava sempre più nel sospetto che fossero fondate le dicerie che correvano, di intenzioni punto benevole dell’imperatore a riguardo suo e delle missioni. In quanto alla seconda cosa, cioè al regalo, stabilì di mandargli un’immagine di N. Signore ed un album, accompagnando il presente con una lettera d’ossequio.

Al suo ritorno in Fekeriè-ghemb si rinnovarono le feste e le dimostrazioni di gioia, che si continuarono per otto giorni; perchè anche durante questa assenza s’erano sparse voci molto gravi, ch’ei fosse stato preso e mandato prigioniero all’imperatore, dicendosi questa essere stata una delle condizioni della pace tra i due belligeranti. E veramente se questo non s’era stipulato, da vari segni ben poteva scorgersi che cose grosse si maturassero contro di lui. Nè il nostro l’ignorava, ma, al solito rimettendo la sua causa in Dio, attendeva a rassicurare l’animo de’ suoi figli, non lasciando però di gettar loro qualche parola per fortificarli in previsione di una non lontana persecuzione.

E volgendo anche il pensiero alla sorte che avrebbe potuto correre la sua cristianità quando egli e i suoi compagni avessero dovuto allontanarsi, pensò di promuovere al diaconato e quindi al sacerdozio i suddiaconi Elia, Ghebra, Maskàl e Ioannes. Volendo inoltre provvedere un luogo di rifugio in caso di un assalto e insieme un cimitero ove poter deporre i cadaveri dei cattolici e quello del p. Alessio, che il capitano Martini avrebbe dall’Hauash /355/ colà trasportato, fece scavare in una montagna di rincontro, elevantesi a picco, una spaziosa caverna. A questo lavoro concorsero non solo i giovani suoi alunni, ma ancora altre persone dei dintorni ed altre venute da lontano a Fekeriè-ghemb per ricevere dal Massaia l’innesto del vaiuolo. Tutta questa gente diceva commossa al nostro Monsignore: se mai, come si minaccia, l’imperatore volesse venire ad impadronirsi della vostra persona, non avete che a dire una parola e tutti come un sol uomo opporremmo i nostri petti per la vostra difesa e salvezza. E il nostro missionario che vedeva quanto schiette fossero quelle assicurazioni, non poteva non rimanerne intenerito. Il che fa prova quanto quei che noi chiamiamo barbari abbiano vivo in cuore il sentimento della riconoscenza. E segnatamente riguardo agli Etiopi osserva il nostro Massaia quanto siano errati i giudizi di certuni che li chiamano gente ladra, oziosa e crudele.

Venendo all’imperatore Ioannes, questi, separatosi da Menelik, aveva col suo esercito continuata la marcia per giungere alle frontiere cercando nel percorso di soggiogare la fortezza di Derrà, ma dopo alcuni giorni di inutile campeggiamento, diviso il suo esercito in tre parti, per vettovagliarlo più comodamente, e assegnata quella del Tigrè a ras Alula (colui che doveva poi diventare tanto famoso nella guerra contro l’Italia) e quella del Goggiàm a ras Adàl, egli colla rimanente si era ritirato presso Magdala fra i Uollo Galla.

Quanto a Menelik, questi, volendo ripetere a Liccè le feste della sua incoronazione, diede un sontuoso banchetto e tenne con grande sfarzo una solenne adunanza dei magnati del suo regno, nella /356/ quale elevò alla dignità di ras lo zio Darghiè e Ato Govana. Ma dopo avere assaporate le gioie di una seconda incoronazione, gioie amare, una incoronazione diremmo in catene, dovette pensare ai doni da presentare all’imperatore. Radunatili con molta faccenda e con non minore spesa, ne fece la spedizione in tre diversi giorni. Nel primo partirono servi conducenti animali da macello, da sella e da trasporto, cioè buoi, cavalli, capre, parecchie migliaia; nel secondo schiavi recanti granaglie e simili derrate, con relativa birra e idromele; nel terzo altri servi con involti di tele, attrezzi domestici, armi e munizioni. La carovana era sì lunga che Menelik, il quale camminava in coda, trovavasi tuttavia all’uscita di Liccè, ed i primi portatori già toccavano i confini dei Uollo Galla, ove stanziava l’imperatore. Questi volle ricevere Menelik con tutto lo sfarzo e solennità possibile; ne con minore allegrezza lo ricevette l’esercito al vedere quella enorme quantità di roba, di cui una parte sarebbe pur toccata a loro. Naturalmente si banchettò più giorni, nei quali le lodi alla generosità del re dello Scioa (e si può credere quanto cordiali), salivano fino alle stelle. Terminate le feste, i due principi si separarono; l’imperatore tirò avanti nel suo regno e Menelik a Uarra-Ilù per festeggiare ivi con l’esercito di ras Darghiè l’espugnazione da lui compiuta della fortezza di Derrà.

Da Uarra-Ilù, sempre preceduto dal negarit (concerto di tamburi riservato, fuori dei casi di guerra, al re ed ai grandi personaggi), portossi ad Hennoari e quindi nell’Hamàn da ras Govana, donde, dopo una breve visita a Devra-Bran, mosse verso la capitale. Qui pure dovevano rinnovarsi, e /357/ più splendide, le feste per la commemorazione della vittoria di Derrà; ma il re dopo tutto quel bottino, chiamiamolo così, che aveva dovuto inviare in dono a Ioannes, non avrebbe certo più potuto trovare di che far stare allegro il popolo con un sontuoso banchetto, se i suoi sudditi non avessero contribuito ciascuno per la sua parte. E in vero si mostrarono molto generosi, specialmente perchè trattavasi di onorare ras Darghiè, universalmente amato per essere il principal protettore dei Devra Libanos, il partito più numeroso del regno.

Ma mentre lo Scioa risuonava delle lodi al glorioso vincitore di Derrà, nell’Abissinia gli Eutichiani lavoravano sordamente, con simulazioni e dissimulazioni e bugie, a preparare il colpo fatale alla fede dei Devra Libanos. Quando ebbero ben tese le file e ogni cosa fu in pronto, Ioannes, che era il loro protettore, adunò il congresso, già prima annunziato, in cui sarebbesi deciso quale fede si dovesse seguire nell’Abissinia e nello Scioa. A questo congresso, la cui presidenza fu data all’imperatore stesso, furono invitati tutti gli alaca delle due religioni. Quelli favorevoli alla fede di Devra Libanos erano i più numerosi e avrebber dovuto prevalere, ma gli eutichiani architettarono le cose in modo, che ebbero essi il sopravvento; cosicché il risultato fu che la dottrina da seguirsi fosse l’eutichiana, la quale sarebbero tenuti ad abbracciare, i cristiani fra due anni, i mussulmani fra tre, i pagani fra cinque. Ed essendosi due alaca Devra Libanos risentiti di quel modo di procedere l’imperatore senza tante cerimonie fece loro tagliar la lingua e quindi metterli in catene. E questo fu certo l’argomento più forte per convincere e convertire alla /358/ fede eutichiana i Devra Libanos, e indurre a ricevere il battesimo i pagani e i mussulmani; i quali ultimi poi, appena compiuta questa cerimonia, portavansi nelle moschee dai loro marabutti (sacerdoti maomettani) a farsi sbattezzare.

Dei cattolici non s’era parlato in quel congresso: Ioannes aspettava un’occasione più propizia per iscagliarsi contro di loro. Intanto per rassodare quell’ordinamento religioso, laddove prima v’era un solo abuna in tutta l’Abissinia, ne stabilì uno in ciascuna regione, per il Goggiàm, pel Tigrè, per lo Scioa; disposizione che dura anche al presente. Tutto questo imbroglio avveniva nel mese di Settembre del 1878.

In questo medesimo anno Cecchi e Chiarini erano partiti dallo Scioa per la visita dei laghi equatoriali, come abbiamo narrato. Or dopo qualche mese cominciarono a spargersi voci contradditorie sul loro viaggio; dicevasi da alcuni che avessero raggiunto felicemente il regno di Kaffa; da altri invece che avessero incontrate nel cammino grandi difficoltà e sofferte spogliazioni e prigionie. L’appurare queste notizie era cosa impossibile, non potendosene avere in altro modo che per mezzo dei mercanti, tutti mussulmani, interessati a celare il vero e a ingannare. Il nostro Massaia, che ben conosceva quei luoghi e quei che vi praticavano, propendeva a credere quest’ultime. E pur troppo si seppe poi che così era veramente; poichè i due poveri viaggiatori dopo essere stati spogliati di gran parte dei loro averi, capitati nel principato di Ghera, erano stati arrestati dalla regina del luogo. Provvidenza volle che trovassero là, meglio che un protettore, un fratello ed un padre nel missionario Leone des Avan- /359/ chères che rese men dura la loro sorte. Ma sia questi che il Chiarini rimasero vittime di quella feroce donna soccombendo entrambi, a quanto sembra, di veleno; il primo il 2 agosto 1879, il secondo il 5 ottobre dello stesso anno. Il Chiarini prima di morire si ricordò di quella religione che nel bollore della gioventù pareva aver dimenticata, e come narra il suo compagno Cecchi, volle ricevere i sacramenti dal prete indigeno abba Matteos. Il Cecchi potè invece felicemente sottrarsi a quelle vessazioni e alla morte e rivedere l’Italia. Ma ritornato alla vita avventurosa dell’esploratore, nel 1897 a Lafolè presso Mogadiscio nella Somalia veniva assassinato in una imboscata dagli indigeni.

Da alcuni, nota il nostro Massaia, si volle accagionare di quella disavventura Menelik, quasi non avesse fatto quanto era in suo potere; ma egli è da scusarsi, perchè fuori del suo regno non poteva estendere efficacemente la sua protezione.

E facendone poi il ritratto, dice che aveva sortite buone qualità da natura e ingegno aperto, ma che l’educazione avuta al campo di Teodoro fra esempi di sfrenata licenza gli aveva guastata l’indole, non sì però che non vedesse e apprezzasse il bello della virtù, «Egli, scrive il Massaia, apparteneva alla setta Devra Libanos, ma aveva fede e praticava con sentimento i doveri della propria religione. Non fanatico come Ioannes, tollerava e rispettava le convinzioni degli altri; e anzi se vedeva nei seguaci di altre dottrine onestà, rettitudine e virtù, li amava e proteggeva con maggiore affetto. Aveva ricevuto con piacere e docilità il manuale su’ suoi doveri come cristiano e come principe, che io avevo scritto in lingua amarica espressamente per lui; lo leggeva /360/ volentieri e sembrava ne traesse profitto». E anche, dobbiamo aggiungere, vedeva e confessava la verità della nostra religione cattolica.

N’è prova questo fatto: aprendo il suo cuore con alcuni della corte, suoi confidenti, diceva che decidendosi a pensare all’anima sua, non avrebbe ascoltata altra voce che quella dell’abuna Messias e di abba Iacob, che così si sarebbe tenuto sicuro di sua salvezza; e aggiungeva: «i nostri preti e anche i nostri abuna copti non valgono più di noi e meno di noi ancora conoscono i doveri del cristiano; conchiudendo: o al paradiso con i cattolici o all’inferno con i copti». E niuno nega che avesse piena ragione. Ma il poveretto a sì belle teorie non accoppiava sempre la pratica, e quella megera di Bafana aggiravalo troppo spesso a sua posta come una banderuola, con danno grande di lui e del suo regno, come già s’è visto e come ancora vedremo.