Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

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Capo XXXI.

Una proposta che è un tradimento. — Mons. Massaia lascia la missione. — Da Masciascià: rivelazioni dolorose. — Peripezie di viaggio e mesti confronti. — Trattamento inumano. — Ridicolo ricevimento. — L’ambasceria si cambia in decreto d’esigilo. — Due mesi di agonia in una capanna. — Gustavo Bianchi. — Visita di un vice-console greco all’imperatore.

Ioannes intanto lavorava sordamente, ma non meno efficacemente alla distruzione dei Devra Libanos e segnatamente della missione cattolica. Conoscendo come Masciascià, governatore delle provincie di Roghiè e di Antotto, confinanti colla missione di Finfinni, fosse molto amico dei missionari, con uno scaltro pretesto indusse Menelik a levarnelo e a dargli invece la provincia di Effrata popolata da fieri eutichiani. E così lo persuase a fare altri cambiamenti che potessero favorire i suoi biechi disegni.

Queste erano le prime mosse dell’operazione. Nella Pasqua del 1879 il nostro Massaia e il p. Luigi Lasserre si portarono a Liccè per far visita di convenienza al re, e questi dopo averli festosamente /362/ accolti (o con sincerità o con finzione), mostrò loro una lettera nella quale l’imperatore esprimeva il desiderio (e, s’intende, valeva un comando), che l’abuna Messias, il p. Luigi e Mons. Taurin si portassero ambasciatori in Europa a stringere a nome suo alleanza coi nostri governi. I missionari capirono subito che sotto quel pretesto nascondevasi il decreto del loro esiglio, e cercarono di conoscere più addentro quella faccenda dal re. Ma questi (o fosse in buona fede o complice, timido complice) pur mostrando di capire il loro pensiero, sforzavasi di persuaderli che l’imperatore era sempre pieno di stima e di buona volontà verso di loro.

Quindici giorni dopo questa visita il Massaia riceveva dal capitano Martini una lettera in cui gli si annunziava che l’imperatore attendeva lui e i suoi due compagni, p. Luigi e abba Iacob (nome che aveva preso Mons. Taurin), a Devra Tabor per il noto affare. Questa notizia lo confermò maggiormente nel sospetto concepito. Avvertito dunque confidenzialmente mons. Taurin e il p. Ferdinando di quanto succedeva e lasciato detto ai suoi famigliari, per non destare timori, che fra un mese sarebbe di ritorno fra loro, il Massaia preparossi alla partenza. La sera rivolse ancor loro il discorso, la mattina seguente celebrò ancora alla loro presenza; eran l’ultime parole, era l’ultima Messa fra i suoi figli; e bisognava dissimulare, e bisognava nascondere; che passasse nel suo cuore, qual tumulto di emozioni e di affetti gli si agitasse dentro è facile indovinare. In sì angosciosi momenti e pieni d’incertezza, prostratosi a’ pie del Crocifisso, «Gesù mio, esclamò, sarà dunque vero che io non vedrò più questo Calvario trasformato tante volte per me in /363/ Taborre? Chi guiderà e custodirà questo piccolo vostro gregge dopo la mia partenza? Ma io lascio tutto e tutti nelle vostre mani, o buon Gesù; voi li generaste, voi custoditeli».

Dopo questo tenero sfogo del cuore, lasciate le insegne vescovili, la croce e l’anello, per non destar sospetti, con solo un po’ di denaro si mosse da Fekeriè-ghemb alla volta di Ogramba dove trovavasi Menelik a campo contro quella città. Giunti in faccia alla montagna di Escia, su cui sorgeva la chiesa dedicata a S. Giuseppe, si rivolse a questo gran santo raccomandandogli la sua spirituale famiglia; la quale, essendo stata avvertita del suo passaggio, si era schierata tutta sul ciglio della montagna per salutarlo e, come lo vide, tutta in coro si mise a gridare: buon viaggio, padre! padre, benediteci! Allora egli, alzata la mano, le diede la sua benedizione, che doveva pur troppo essere l’ultima. Quanto avesse a soffrire a questo spettacolo di figliale pietà e al pensiero di dover per sempre abbandonare questi cari figliuoli, non è a dire; si sentiva lacerare il cuore, e pur convenivagli tacere. Alcuni di essi, non paghi di quel semplice saluto, vollero accompagnarlo per un buon tratto; ed era consolante il vedere come quanti l’incontravano tutti si mostrassero verso di lui pieni di rispetto e di venerazione.

Pernottato in un villaggio dove trovò buona accoglienza, la mattina traversò un deserto senza incontrare molestie e verso sera giunse vicino al colle su cui sorgeva Ogramba, donde sentiva venirsi all’orecchio il suono del negarit (1) che annunziava /364/ l’arrivo del re. La sera stessa fu ricevuto da Menelik che lo trattò con maggiore affabilità e benevolenza del solito e lo congedò non senza mostrarsi commosso, dicendogli l’avrebbe riveduto al mattino prima di muovere pel campo. Ma la notte chetamente si dileguò col suo seguito, e il Massaia dopo un giorno di riposo, scortato da un pugno di soldati, sotto il comando di un governatore, volse i passi verso il campo di Masciascià, prendendo cammino per le montagne.

Come questi lo vide, fattoglisi da buon amico incontro lo ricevette affettuosamente e, introdottolo nella sua capanna, padre mio, esclamò gettandoglisi ai piedi e rompendo in lacrime, padre mio, voi siete tradito! L’imperatore non v’ha già chiamato a Devra Tabor per darvi un’ambasciata, ma sì per legarvi e mandarvi in esilio, «Già lo sospettava fortemente, disse il nostro, ed ora ne ho dalla vostra bocca la dura certezza. Tuttavia sia di noi quel che Dio vorrà; quanto a me, mandato non per combattere ma per salvare, son pronto ad essere crocifisso col mio Gesù, perdonando a tutti». Ohimè, aggiunse poi Masciascià, ohimè, io son perduto spiritualmente e materialmente! Partito voi, chi si occuperà dell’anima mia? Partito voi e i vostri compagni, che siete sempre stati i miei protettori, chi mi salverà dall’odio di Bafana? E veramente aveva ragione di così trepidare, almeno per la sua vita materiale, perchè difatti poco dopo veniva rilegato in Tebda Mariàm, da cui venne poi liberato da Ioannes e scambiato come prezzo di riscatto con Tekla Haimanòt, re del Goggiàm, soggiogato dalle armi di Menelik.

Trattenutosi quivi alcuni giorni a curare certi /365/ infermi e fatto loro un po’ di bene spirituale, il nostro Massaia si accomiatò dal prete Saheli e da alcuni buoni giovani che l’avevano accompagnato fin qui. Quanto fosse amara questa separazione è facile pensare; dover abbandonare quei suoi cari figliuoli colla certezza di non mai più vederli e dover nascondere loro la dura sorte che lo attendeva!

Riteneva ancora con sè un diacono e quattro chierici, e con essi, accompagnato da un servo datogli da Masciascià, si avanzò verso Uarra-Ilù, dove giunse il 1 luglio 1879 dopo quattro giorni di cammino. Il 5 luglio dopo egual cammino sotto una forte pioggia arrivarono colà altri due suoi compagni di sventura, cioè mons. Taurin e il p. Luigi Lasserre. Anch’essi prima di partire da Liccè avevan ricevute da Menelik le stesse amichevoli assicurazioni; ma ormai anche troppo si vedeva che cosa valessero. Il 7, licenziati anche qui altri cinque giovani di quei ch’erano venuti con gli ultimi due padri, si riprese il viaggio, fermandosi sull’imbrunire su un colle vicino a un fiume di confine tra l’antico Scioa e la terra dei Uollo Galla.

Da quell’altura vedevasi gran tratto di paese; a ponente il lungo corso dell’Abbai e di là da esso le montagne del Goggiàm, a mezzogiorno la provincia di Marabieti, la fortezza di Tammo, la città di Hennoari, Gilogòv, Finfinni e ivi presso Darò Michael colle sue grotte trogloditiche; a levante le alture di Ankòber, Gurabela, Condy.

Quanti dolci ricordi! quante speranze svanite! quante sorgenti di amarezza!

La mattina sotto la pioggia che sempre diluviava si riprese il cammino per un altipiano, dove cresce molta erba ma nessun albero; onde gli abitanti, /366/ la più parte mandriani, per combustibile son costretti usare certo impasto di paglia e di bovina disseccata al sole. Lasciata questa regione, presero, sempre sotto una pioggia dirotta, coi piedi scalzi e col loro bastone alla mano, per Legambo, la contrada più elevata di tutto quell’altipiano; indi pel territorio di Saint e a parecchie tappe, dopo altri quattro giorni di viaggio, pervennero in riva al Bascilò, che essi guadarono sui muli, i bagagli tragittando sulle caratteristiche zattere altrove descritte.

Benché stanchi e bagnati dalla pioggia, per non esporsi ai pericoli dei miasmi, continuarono il cammino e dopo alcune ore si fermarono in una pianura coperta di bella vegetazione per dare pascolo ai muli e prendere un po’ di riposo, Erano per rimettersi in via, quando nubi minacciose li consigliarono a rafforzare le tende e a prepararsi a ricevere la pioggia, la quale tosto prese a cadere sì violenta e in tanta quantità, che i poveretti erano costretti a starsene ritti coi piedi nell’acqua; e continuando per tutta la notte non è a dire quanto ebbero a soffrire. La mattina, benché stracchi morti per non aver potuto chiuder un occhio e cogli abiti tuttavia fradici in dosso, ripresero il cammino per luoghi già popolosi e fiorenti di coltura ed ora dai soldati di Teodoro ridotti a uno squallido deserto.

Riposatisi la sera in un villaggio di mussulmani, la mattina seguente a una buon’ora toccavano finalmente l’altipiano del Beghemèder. Che aria salubre, confortatrice! Ma per contro quale vista desolante! villaggi distrutti, chiese atterrate, monasteri diroccati, fertili terreni lasciati incolti! l’esercito di Teodoro era stato per quei paesi una nube di locuste /367/ che tutto distrugge, una orda di nemici invasori che tutto atterra.

La sera, varcati i confini di Guradit, già luogo molto popolato e di cui allora non appariva quasi più traccia, furono consegnati ad un altro Messeleniè, il quale parlando col nostro Massaia, gli narrò tra l’altro che già altre volte l’aveva veduto ed erasi trovato con lui e col padre Stella; che aveva abbraciato il cattolicismo e che aveva sposato una donna, già stata battezzata da un bravo giovane Zellan, nomato Melàk.

Quali soavi ricordi! Che tempi felici eran quelli rispetto ai presenti!

Questo Messeleniè intanto volendo approfittare dell’occasione, senza darsi a conoscere agli altri, il giorno seguente, fingendo di aver qualche cosa a trattare segretamente col nostro mons. Massaia, mentre lo accompagnava gli venne facendo la sua confessione.

S’eran mossi il mattino su per l’erta di una montagna; la pioggia cominciata dalle prime ore non aveva cessato di cadere a dirotto, i sentieri eran divenuti tanti letti di ruscelli, acqua e fango rendevan alle bestie difficile e faticosa la salita, e nello stesso tempo anche pericolosa. A un certo punto il mulo che portava il nostro Massaia, franando il terreno di sotto, trovossi colle zampe posteriori nel vano e coi soli piedi anteriori sul sodo; il sentiero, immagini il lettore! costeggiava un burrone; furono a un pelo, cavallo e cavaliere, di traboccarvi entro; senonchè, fattosi il mulo un estremo sforzo e accorso in aiuto il Messeleniè, si potè scongiurare il pericolo. Il nostro missionario era salvo, ma ben si poteva dire per un miracolo. — Si tirò così avanti, sempre /368/ sotto una pioggia torrenziale, finchè a tarda ora si arrivò sulla cima della montagna, dove sorgeva un misero villaggio con una chiesetta. Ripararono alla meglio in alcune capanne; tutti erano spossati dal disagiato salire, estenuati dal digiuno, non avendo, per accelerare l’arrivo, preso in tutta quella lunga giornata oncia di cibo, e di più colle vesti grondanti acqua e intirizziti dal freddo che su quell’altezza batteva rigido rigido. Accesa nel mezzo della capanna con bovina disseccata un po’ di fuoco per riscaldarsi le membra e asciuttarsi gli abiti, si adagiarono su un fastello di paglia, mentre due o tre si diedero attorno per preparare un po’ di pasto. Ma il nostro Massaia di mangiare non si sentiva punto; gli era entrata addosso una febbre tanto gagliarda, che qualche ora dopo lo faceva delirare. Per fortuna portando con sè del chinino, ne prese una buona dose e questo, unito a due giorni di riposo, potè ridargli un po’ di vigore e permettergli di riprendere il cammino verso Devra Tabor.

Rimanevano tuttavia quaranta chilometri da fare, e con un cielo che diluviava, colle vie fangose, e col freddo e la impossibilità di ripararvi per mancanza di legna, colla febbre addosso e la relativa stanchezza, con poche provviste di cibo e di vesti, dappertutto incontrando visi poco benevoli, ognun vede qual martirio fosse il viaggiare; e pur questo martirio durò ben dodici giorni, quanti ce ne vollero per compiere quel tratto di strada. Tra queste dure peripezie, dopo circa cinquanta giorni di viaggio il 5 agosto 1879 il Massaia e i suoi compagni giungevano a Devra Tabor, residenza dell’imperatore. Fossero almeno allora finiti gli strapazzi! ma là appunto li attendevano guai maggiori.

/369/ Spediti innanzi due giovani ad annunziare il loro arrivo all’imperatore, non li videro tornare che parecchie ore dopo senza aver ottenuto udienza. E intanto che eran rimasti lì in aspettativa si eran visti avvicinarsi soldati e plebaglia, che presero a svillaneggiarli come straccioni e vagabondi. Il nostro Massaia, costretto a stare come gli altri suoi compagni fuori all’aperto, nè potendo pel male e per la stanchezza reggersi in piedi, abbandonossi per terra sul fango appoggiando il capo a un involto di roba! Era vista che avrebbe mosso a pietà i sassi, ma che lasciò indifferente quella marmaglia.

Verso le tre di sera comparvero alcune guardie della corte, le quali con faccia burbera fattesi alla nostra carovana, che fate qui mascalzoni, gridarono loro, in mezzo alla via? perchè non vi cercate un alloggio? Convenne pigliar quella lavata di capo come meritata e andar in cerca di ricovero. Dopo aver girato per un bel pezzo per vie fangose e sotto la pioggia, finalmente trovarono una capanna dove poterono mettersi al riparo. V’era un letto di canne; il nostro povero Mons. vi s’abbandonò più morto che vivo. Presa una tazza di caffè, si disponeva su quell’incomodo giaciglio e colle vesti bagnate indosso, perchè non poteva aversi un po’ di fuoco, si disponeva, dico, a passare la notte, quando arrivan altre due guardie, che, caricato il nostro su un mulo come si caricherebbe un sacco, condussero lui e i suoi compagni in una capanna dove venne loro recata un’abbondante cena. Dopo tante umiliazioni, patimenti e dileggi pareva questa un’amara e crudele irrisione.

Il giorno dopo furono chiamati all’udienza, e il nostro Massaia, sorretto ai fianchi sopra un mulo, si /370/ recò insieme con gli altri nel recinto imperiale. Anche qui un’altra scena dolorosa e umiliante; dovettero tardare tre buone ore prima di essere introdotti e non potendo il nostro buon vescovo per la estrema debolezza stare in piedi, avviluppatosi nello sciamma si coricò per terra. Finalmente furono ricevuti; l’imperatore col volto quasi per intero coperto da un lembo del manto e colla faccia rivolta alla parete (temeva d’esser affascinato dagli sguardi dell’abuna Messias), domandò che volessero. Maestà, rispose questi, ci avete chiamati e siam venuti a udire i vostri ordini. (È da ricordare che loro aveva scritto dicendo volerli mandare ambasciatori in Europa). Bene, rispose l’imperatore, ora andate a passare la stagione delle pioggie nel villaggio che vi sarà indicato, e poi partirete per i vostri paesi. E così con questo insulso colloquio li congedò. — Usciti di là, senza quasi dar tempo di prendere un po’ di ristoro, una guardia li fece mettere in via verso il villaggio di Enatitu Mariam, luogo della loro prigionia. Trovarono una capanna abitata da due vecchi ringhiosi e dalle loro bestie; non troppo capace per pochi individui, e pure vi si dovettero adagiare tutti, sedici persone, senza contare i padroni e le bestie. Al nostro Massaia venne preparato, come una morbidezza, una specie di letto con un po’ di paglia sopra un piano di travicelli, gli altri si posero chi sopra un po’ d’erba, chi sul terreno nudo; questa la loro sedia e il loro letto. A notarsi che la capanna lasciava per certe larghe fessure nel tetto e nelle pareti circolare l’aria e penetrare la pioggia, e, oltreché tutti erano sfiniti dai patimenti, parecchi, come il Massaia, erano altresì travagliati dalla febbre. A questo s’aggiunga che eran guardati /371/ giorno e notte da un soldato e proibiti di discorrere con chicchessia; e chi si fosse avventurato, come successe sul principio, a infrangere quest’ordine, era preso, condotto al palazzo dell’imperatore e bastonato.

Alcuni giorni dopo, fatte rimostranze all’imperatore, si potè avere qualche sollievo, dividendo la famiglia e allogandone una parte in altre due capanne. Il nostro Massaia però mai si mosse dal suo giaciglio per due lunghi mesi, quanto gli durò la malattia; ognuno si immagini con quali dolori, dolori che gli erano ancora accresciuti dalla vista di alcuni suoi giovani sofferenti. Fu a un punto che si credette disperata la sua guarigione e gli si diedero gli ultimi sacramenti; pareva quella capanna dovesse fatalmente essere la sua tomba. Ma dopo circa due mesi il Signore si degnava restituirgli le forze, sì che prese a cibarsi e a dare qualche passo attorno alla capanna.

La condizione di quei poveretti, come si vede, non poteva essere più dura, se si eccettui quanto al vitto che veramente fu sempre loro somministrato in abbondanza: pane, carne, idromele, birra. Insomma Ioannes non voleva si dicesse che li avesse fatti morir di fame; un misero avanzo di umanità, che neppur può dirsi umanità perchè dettato da ragioni di interesse e di convenienza.

Mentre i nostri missionari coi loro compagni gemevano in questa dura prigionia, due italiani dimoravano al campo dell’imperatore, un operaio, certo Naretti, piemontese, che aveva ottenuto nella casa imperiale un impieguccio e il Sig. Gustavo Bianchi. Il primo non mostrò mai desiderio di vedere il Massaia, nè di parlargli, nè di occuparsene /372/ più che tanto; laddove il Bianchi tentò di fargli pervenire una lettera e di avere con lui un segreto abboccamento; in quanto alla lettera potè recapitargliela; ma l’abboccamento non fu possibile procurarselo. Altri italiani compagni del Bianchi, cioè il Matteucci e altri, visitato il Goggiàm e il lago Tsana, eran dovuti ritornare alla costa.

Che cosa di notevole era intanto succeduto alla corte? Un giorno si vede sulla collina di Samerà, dove sorgeva il ghebì imperiale, un affaccendarsi di soldati e poco stante si odono rintronare colpi di cannone. Era il viceconsole greco di Suez recatosi, dicevasi, dall’imperatore per trattare con lui di dare all’Abissinia e alle principali regioni un abuna greco, abuna che ab immemorabili era sempre stato mandato dal patriarca copto di Alessandria, fino all’ultimo, Atanasios, che abbiamo veduto innalzato e poscia tolto di mezzo dall’imperatore.

(1) Negarit, concerto di tamburi (non meno di 12) di varia grandezza che si usano nelle marcie degli eserciti. [Torna al testo ]