Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

/373/

Capo XXXII.

Partenza per l’esiglio. — Da ras Arià. — Affidato alla Provvidenza. — Una banda di assassini. — Precauzioni di viaggio. — Pel basso Dembèa. — Il rosario degli afflitti. — Una grave caduta. — Uva misteriosa. — La provvisione è finita! — Fuori dei confini. Singolare coincidenza.

Il 2 ottobre Ioannes, vedendo come il Massaia si fosse sufficientemente messo in forze, lo fece chiamare coi suoi compagni alla corte e dopo avergli fatto subire una seconda volta l’umiliazione di tardargli l’udienza per tre ore, sempre esposto ai dileggi di una plebaglia maleducata, finalmente lo ricevette collo stesso cerimoniale, e colla stessa laconicità gli disse: «ritornate al vostro paese; mio zio, ras Arià, a cui ho già scritto, vi darà le necessarie istruzioni pel viaggio». Così al dolore dell’esiglio s’aggiungeva l’incertezza del viaggio: ma già anche a questa prova aveva apparecchiato l’animo il nostro eroe; perchè egli stesso dice: «rimessa la mia causa e la mia vita nelle mani di Dio? era pronto /374/ a ricevere qualunque pena e qualunque affronto con la più grande tranquillità di spirito». Sotto l’apparenza di una umile indifferenza quanta fortezza si nasconde, quanto eroismo!

Usciti dall’udienza con quella dolorosa notizia, dopo altre due ore di aspetto e di umiliazioni, perchè fatti zimbello ai sarcasmi di quella ciurmaglia petulante, finalmente comparvero le guide incaricate di condurli a ras Aria. Era costui governatore del Dembèa, ma dove trovavasi allora? Non sapevasi, nè quindi potevasi sapere la direzione che sarebbesi presa nel viaggio. Essi eran discesi nella pianura e di fronte avevan Gaffàt, un monte a foggia di cono sparso nel pendio di numerose capanne e coronato in cima dalla dimora imperiale, luogo già popolato da monaci, da Teodoro poi destinato a fabbriche di armi, e infine da Ioannes per la incantevole posizione scelto a sua residenza. Dato un mesto sguardo a questo monte e ai curiosi che guardavanli con occhio punto benevolo (la generazione dei vili verso gli sventurati non è mai spenta), si misero in via e la prima sera posarono ad Athora, piccolo villaggio del Beghemèder.

Quivi dal chierico che l’assisteva ebbe il nostro a sentire alcune notizie punto consolanti a suo riguardo. Riferivagli dunque questo chierico che durante la sua malattia l’Eccecchè dei monaci aveva detto in corte che venendo l’abuna Messias a morte lo avrebbero come un malfattore gettato in un precipizio in pasto alle iene. Aggiungeva però il giovane che essi avrebbero fatto di tutto per sottrarre il suo cadavere, trafugarlo nei loro paesi e dargli onorata sepoltura, perchè come l’avevan amato e onorato vivo non potevano per lo stesso motivo non amarlo /375/ e onorarlo morto. Le quali notizie mentre da una parte gli scoprivano tutto il mal animo dei suoi nemici, gli svelavano ad un tempo dall’altra quanto intenso fosse l’affetto che gli portavano i suoi figli.

Dopo altri cinque giorni di cammino per un territorio già popolato e fiorente ed ora ridotto ad uno squallido deserto, giunsero a Ferka Berre, luogo di confine del Beghemèder; dove sostettero presso alcuni doganieri che li trattarono con molta umanità. Abitava quivi una donna segretamente cattolica, la quale avendo conosciuta la loro condizione li informò come aveva sentito dalle guide ch’essi dovevano incamminarsi alla costa per la via di Matamma e del Sudàn, via la più disavventurosa per il pericolo dei miasmi e delle correrie dei ladri. — La mattina passarono vicino al lago Tsana pel territorio dei Zellàn, luoghi già di tante dolci consolazioni per il nostro Massaia ed ora triste e muto deserto!

Pernottato in un villaggio di pagani Uoìto, il giorno seguente costeggiarono il lago Tsana, che sebbene si elevi a 1800 metri sul livello del mare, pure ha i dintorni infestati dai miasmi. Passata la notte presso cortesi pastori, al mezzogiorno del 9 ottobre giunsero finalmente al campo di ras Aria, in un villaggio detto Findia che sorge quasi nel centro delle cinque provincie da lui governate, cioè Gondar, Ifàgh, Quarata, (1) e alto e basso Dembèa, questi due ultimi con altri nomi detti anche Celga.

/376/ Rifocillatili con un buon pranzo, il governatore li chiamò all’udienza e manifestò i voleri dell’imperatore cioè, come già avevano sentito da quella vecchia, che dovean uscire dall’Abissinia per la via del Sudàn. Allora il Massaia, che ben conosceva quei luoghi e che trovavasi ancor debole della convalescenza (nè i suoi compagni per gli strapazzi sofferti erano in guari migliori condizioni) ma questo, disse, è un volerci condannare alla morte; almen ci sia concessa di prendere altra via. Ma Arià, conosco, disse, tutta la gravità della vostra osservazione, anzi debbo aggiungere che presentemente quei luoghi sono corsi da bande di ladroni, che potrebbero anche spogliarvi e gettarvi a morire in qualche caverna, e ve lo dico perchè sappiate cautelarvi, ma che ci posso fare io contro i decreti dell’imperatore? dal canto mio però, state certi, farò tutto il possibile per aiutarvi nel pericoloso tragitto. Difatti, chiamato il capo della carovana che doveva scortarli, Bal Ambaràs Bitua, gli ordinò disponesse ogni cosa per la sicurezza dei viaggiatori. Nel congedarli, voi siete uomini di Dio, disse loro, e Dio vi proteggerà. E veramente ben poco avevano ormai a confidare nei mezzi umani.

Postisi dunque in via e attraversate alcune colline ricche di bella vegetazione, entrarono in Celga, centro di gran mercato. Quivi dallo Sciùm, o capo del villaggio, ebbero parecchie notizie sulla strada che dovean percorrere; tra l’altre che una banda di ribelli capitanata da un certo Guessesso, favorita dai luoghi boscosi e dalle vie tortuose, commetteva a man salva spogliamenti e angherie contro i poveri passeggeri, uno dei quali arrivato in quei giorni appunto a Celga, narrava che colto da quei ladroni /377/ era stato derubato d’ogni cosa e posto in una caverna, dove venne trattenuto ben quindici giorni con nessun altro nutrimento che un po’ di zucca acerba.

Le quali novelle non è a dire quale sconforto gettassero nell’animo già angosciato dei nostri viaggiatori. S’aggiungeva a tutto questo la poca fiducia che inspirava il capo stesso della carovana, Bal Ambaràs, che sarebbesi forse potuto accaparrare con qualche grazioso regalo, ma dove trovarlo se al campo dell’imperatore erano stati spogliati di tutto? Non rimaneva al nostro Massaia che il mulo che cavalcava, regalatogli da Menelik. Promise al capo gliel’avrebbe dato a viaggio finito, e questo fortunatamente bastò per renderlo più benevolo. — Il 15 ottobre adunque la carovana riprendeva le mosse e dopo alcune ore di faticosa discesa verso il basso Dembèa, fece sosta ad un villaggio abitato dai Camànt, gente nè pagana, ne cristiana, ma con qualche pratica dell’una e dell’altra, come i Uoìto delle primitive che abitarono l’Abissinia.

Di qui Bal Ambaràs mandò ordini ai paesi vicini di allestire quanti più potessero soldati affin di proteggere il cammino della carovana, e anche, come poi si seppe, di prendere, se fosse stato possibile, il famoso capo dei ribelli, dei quali due fece arrestare e tenere come ostaggio in Celga.

Parlando i Camànt coi nostri missionari di Guessesso dissero loro di non temere, che sapendoli esso fratelli dell’abuna Iacob, (Mons. De-Iacobis) da lui molto rispettato, non avrebbe loro nociuto; cosa che se non li rassicurò pienamente, temperò alquanto i loro timori. La mattina, radunati tutti i soldati, cento lancieri e cento fucilieri, una vera spedizione /378/ militare, la carovana si mise in cammino per un terreno boscoso, sempre in discesa, trovando ogni tanto qualche spianato con mandrie qua e là disperse, e gruppi di capanne abitate da gente ospitale e cortese. Il dì seguente la carovana si divise in due, il capo colla più parte dei soldati tenne per una via e i nostri missionari colle guide e pochi fucilieri per un’altra. Questa veramente neppur potevasi dire via, perchè dovean aprirsi il passaggio tra fitte piante, in mezzo all’erba alta più d’un metro, tra rovi e spine che laceravano loro i piedi, col pericolo di cadere in paurosi precipizi che ogni tanto vedevano aprirsi ai fianchi.

La sera giunti a due terzi della discesa si attendarono in vista di Uaìni, ultimo villaggio del basso Dembèa; ma prima dell’alba nuovamente furono in cammino continuando la discesa per sentieri appena segnati fra piante e rovi e sull’orlo di burroni, come, anzi peggio del giorno precedente. Un sole tropicale s’aggiungeva a molestarli d’avvantaggio; ma finalmente, trovata una stretta gola di montagna, smontarono dalle loro cavalcature a ristorare le forze e a sgranchire le membra intormentite; n’avevan proprio bisogno. I giovani internatisi nel bosco eran ritornati con bei grappoli d’uva selvatica che davvero fu per tutti, specialmente pel nostro Massaia, un’ambrosia, una manna.

Ripreso con rinnovata lena il cammino, la sera giungevano presso Uaìni, luogo di gran mercato, e i cui dintorni dicevansi infestati dalla famosa banda di Guessesso. Attendatisi sopra un’altura speravano di fermarsi almeno una buona giornata per ridare un po’ di vigore alle membra che ormai non ne potevano più; ma sì! innanzi giorno Bal Ambaràs /379/ fa levar le tende e ordina di partire. Il nostro Massaia era addirittura sfinito, più morto che vivo; sarebbe inevitabilmente stramazzato a terra; non importa, fu giocoforza si mettesse in cammino anche lui.

Di più una nuova cagione di timore s’aggiungeva per tutti ed era che la scorta che li aveva finora accompagnati per timore dei miasmi del Sudàn qui li aveva lasciati e affidati a persone di Uaini, quasi tutte parenti e amiche della famosa banda di Guessesso. Che fare? In simile difficile frangente fecer voto che se scampassero, sarebbero andati a ringraziare il Sacro Cuore di Gesù o a Paray-le-Monial o a Montmartre e la Madonna al suo santuario di Lourdes. Il nostro Massaia si raccomandò allora più che mai vivamente al Signore colla recita del rosario degli afflitti e il Signore si mosse in suo soccorso; man mano che veniva recitando la giaculatoria fiat voluntas tua il nostro buon missionario sentiva ritornare in sè il coraggio e le forze, il suo volto si coloriva di insolita allegrezza; cosicché anche i suoi compagni a quella vista, ripreso animo, tutti insieme trottarono con minor fatica delle altre volte fino alle frontiere del Sudàn.

Dopo un’ora di discesa entrarono in una vasta pianura coperta di alte erbe e di piante, trovando ogni tanto alberi atterrati dagli elefanti colla loro proboscide e grandi buche prodotte dalle loro pesanti zampe, in una delle quali avendo affondato il piede il mulo che portava il Massaia, questi fu sbalzato a terra battendo della spina dorsale che se ne risentì poi finchè visse. — Seguitando così sulla cavalcatura per quell’incomodo terreno la sera giunsero in riva al fiume Guenda veramente stremati /380/ di forze; avevan viaggiato tutto il giorno sotto la sferza di un sole ardente senza prendere alcun ristoro, neppure una sola goccia d’acqua!

Attendatisi, misero fuori dai bagagli un po’ di cibo, chiudendo la modesta cena, (veramente modesta, perchè oramai la provvista era agli sgoccioli), col caffè, anche come antidoto contro le febbri. Mentre dunque si cenava, il nostro Massaia si fece a ringraziare i giovani dell’uva che gli avevan recato, come abbiam visto. Ma quelli, non ringrazi noi, dissero, ma quel buon giovane della scorta di Uaìni che a noi la porse. Orbene, andate dunque, disse il Massaia, a trovare quel cortese giovane e conducetemelo qui, che io ne lo voglio ringraziare. Ma questi andati, tornarono dicendo che quegli anzi reputavano il giovane un dei famigliari dei missionari; che l’avevano veduto parecchie volte, ma poi era scomparso dai loro occhi senza sapere che ne fosse avvenuto. Chi era adunque stato costui? Tutto induce a credere fosse un angelo inviato da Dio a consolare il suo fedel servo. Così la pensavano tutti, e che così veramente fosse da credere bastava osservare come le foglie onde era avvolta l’uva erano molto più larghe di quelle di quei paesi bassi ove si trovavano e proprie invece dei paesi alti; quelle foglie inoltre e l’uva dopo tre giorni erano tuttavia fresche come se allora allora fossero state staccate dal tralcio.

Venendo ai nostri pellegrini, dopo due ore di sonno svegliati improvvisamente dal capo della carovana, tuttoché ancora stracchi morti, sono costretti a levare le tende (la rugiada della notte le aveva rese umide gocciolanti) e a mettersi in via fra densi vapori che bagnavan non altrimenti che /381/ pioggia, e per di più, in mezzo ad erbe tanto alte che vi si perdevan le cavalcature coi loro cavalieri, cosicché a non sbandarsi avean bisogno di chiamarsi ogni tanto a vicenda. Verso le nove, usciti fuori dai pericoli, fecero sosta per riposarsi, non già per mangiare, quantunque ne sentissero bisogno, perchè le provvisioni erano finite; non rimaneva loro più che un po’ di caffè; sorbirono un po’ di caffè. Qui si separarono dalla scorta di Uaìni rimanendo con loro solo più due guide, che dovevano consegnarli all’autorità di Matamma. Ripreso il cammino, come fu possibile collo stomaco vuoto, la sera giunsero ad un villaggio dove poterono trovare un po’ di latte e pane; una vera provvidenza nelle angustie in cui versavano. La mattina 22 ottobre rimessisi in via si diressero verso Matamma ed ecco ad un chilometro dalla città venire loro incontro lo sceìcco Salì con una scorta d’onore e, ricevutili con dimostrazioni di stima, introdurli in città come persone di riguardo, fra l’ammirazione curiosa del popolo che già avendo sentito qualche cosa del loro prossimo arrivo era accorso a vederli. Matamma circondata di foreste e di terreni fertilissimi sarebbe un soggiorno delizioso se la sua posizione bassa e l’abbondanza delle piogge e delle acque che scendono dai vicini monti e variamente irrigano i dintorni non ne rendessero il clima insalubre.

Qui finalmente potevano credersi tranquilli dai pericoli dei ladri, e più liberi dalle persecuzioni dell’imperatore, per essere usciti dal suo territorio. Dopo tante angustie, dopo tanti strapazzi, dopo tanti patimenti e pericoli il loro cuore riposava; n’avevan veramente bisogno!

/382/ Strana coincidenza! Qui donde Ioannes faceva uscire dai suoi stati i missionari cattolici, dieci anni dopo, nel 1889, ei trovava la morte combattendo contro i Madhisti. Non tutte le coincidenze sono sempre casuali. Il Massaia, contro cui più specialmente era diretta la persecuzione, non calpestava più il suolo abissino, e l’imperatore si credeva di aver vinto contro di lui una grande partita, e non prevedeva che così cooperava meglio di ogni altro, nei disegni della Provvidenza, alla glorificazione della sua vittima. Se il Massaia non fosse stato esiliato, possiam credere con certezza non avrebbe pubblicato le sue Memorie, e così l’opera sua e le sue gloriose imprese sarebber rimaste sconosciute.

(1) Quarata Corata. Non sempre l’ortografia dei nomi propri da noi seguita concorda con quella di certe carte geografiche; come neppure queste concordan sempre tra loro.
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