Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

/383/

Capo XXXIII.

Matamma. — I propositi dei Mussulmani. — Colto dalle febbri. — Gadaref. — Morte di due giovani. — Fauna. — I Beduini. — Kàssala; ricordi antichi e recenti. — Un cortese maronita. — Separazione dolorosa. — Vicende di viaggio. — «Non ci capisco nulla!». — A Suakim.

In Matamma il nostro Massaia era già stato altra volta, nel 1852, ma allora questa città non contava che due mila abitanti, mentre ora ne annoverava ben diecimila con case in muratura alla foggia araba, vie e piazze abbastanza spaziose, e col telegrafo, onde si poteva comunicare col Cairo, con Alessandria e colle principali città d’Europa: e fu appunto di qui che egli potè far conoscere in Italia il suo esilio dall’Africa. Vi ritrovò un’antica conoscenza, un medico mussulmano, il quale si fece premura di invitarlo una volta a pranzo con tutti i suoi compagni ed ogni giorno veniva anche a trovarlo nel suo alloggio ed a passarvi qualche ora in amichevole conversazione. Da costui il nostro Massaia apprese molte cose sui propositi dell’Islamismo. Diceva dun- /384/ que quel medico che essi speravano una rivincita sui popoli cristiani che per loro sono infedeli e la cui distruzione è per loro un’opera altamente meritoria; e che, quando pure si sfasci l’impero ottomano di Costantinopoli, essi nell’Abissinia, di cui sono un terzo della popolazione, e nell’Arabia sono ancor tanto potenti da tener fronte e forse un giorno soverchiare i regni cristiani. Nel che si può dire che abbiano dei potenti alleati nei governi cristiani stessi, nei massoni, oramai capi e ispiratori dei governi, e certo non inferiori ai mussulmani medesimi nell’odio al nome cristiano. E non s’è visto nella recente guerra italo-turca quanta simpatia nutrissero i massoni, anche italiani, verso i seguaci del Corano? Simpatia, naturalmente, condivisa dai socialisti, che, non ostante le smentite, sono i fidi alleati dei massoni, e mentre questi lavorano più o meno nell’ombra dirigendo le mosse, essi combattono alla luce del sole con tutte le armi.

Intanto, essendo già passati dodici giorni dal loro arrivo in Matamma, nè convenendo protrarre d’avvantaggio la fermata pel pericolo delle febbri, vendute le cavalcature che avevano al governatore, a un prezzo assai mite per compensarlo della sua cortese ospitalità, e provvistisi d’alcuni cammelli e dromedari, il 4 novembre si misero in viaggio per Doka. È da sapere che Gordon pascià, famoso governatore del Sudàn, volendo mettere in comunicazione le città capoluoghi aveva aperto delle strade, lungo le quali, per comodo dei viaggiatori e dei soldati di passaggio, aveva edificate a certa distanza le une dalle altre, delle solide abitazioni. Fra Matamma e Doka correva appunto una di tali strade. — Or giunta la nostra carovana alla seconda sta /385/ zione, due dei giovani cominciarono a sentire i tristi effetti dei miasmi assorbiti a Matamma: stanchezza, capogiri, febbri.

Fortunatamente però rimessisi alquanto col riposo della notte, la mattina poterono continuare il viaggio fino a Doka, paese di circa mille abitanti e piazza militare; ma qui anche i padri Lasserre e Taurin, che fino allora eran rimasti illesi, furon colti dal terribile morbo. Furono necessari due giorni di fermata, dopo i quali la carovana si potè rimettere in corso; ma giunti al villaggio di Assar, ormai tutti, chi più, chi meno, eran febbricitanti. Con tutto ciò facendo un estremo sforzo poterono avanzare fino a Gadarèf; eccetto il nostro Massaia, il quale a causa della stanchezza e del male dovette aspettare che da Gadarèf venissero a prenderlo, come fecero, sopra una barella.

Gadarèf, capoluogo della provincia omonima, è città moderna per la sua costruzione e popolata in gran parte da famiglie arabe, da alcuni greci scismatici, e da altra gente che v’è di passaggio per ragioni del commercio che v’è attivo. Il governatore di cotesta città, forse per ordini avuti da Gordon pascià, ammiratore dei missionari, li trattò con ogni squisita gentilezza, assegnò loro una comoda abitazione e li fornì di viveri in abbondanza. Quivi trovarono anche una persona cortesissima, come un amico di vecchia data, in un ricco armeno cattolico, il quale in tutto il tempo che si fermarono in Gadarèf, usò loro ogni sorta di gentilezza.

Era intenzione di lasciare presto anche questa città, ma essendo cominciato il mese del Ramadàn, il mese del gran digiuno, mese nel quale i mussulmani non s’allontanano dalle loro abitazioni, con- /386/ venne aspettare. Meno male; il peggio si fu che quivi due dei giovani che fino allora erano stati risparmiati dalle febbri, Naeli e Salvator, ne furono colti con tanta violenza che dovettero soccombere. I poveri giovani avevano però a tempo chiesti e ricevuti colla più edificante pietà i santi sacramenti; e questo valse a temperare alquanto il dolore della loro perdita. Ma neppure i superstiti si trovavano bene in salute, e le recenti morti dei loro compagni li mettevano in timore anche di peggio; senonchè, presa certa medicina loro indicata da un empirico, si trovarono di tratto migliorati; cosicché, spirato quel mese, si potè mettere in assetto la carovana e prendere cammino verso Kàssala.

Il territorio che dovevano attaversare era in parte arido deserto e nel resto, verso i declivi del fiume Atbàra, coperto di lussureggiante vegetazione, in mezzo alla quale vivevano uccelli delle più svariate specie e vistosi colori, animali d’ogni qualità, pernici, galline faraone, lepri, bestie feroci che la notte colle loro urla facevano paurosamente rintronare quelle pianure, serpenti, scorpioni, insetti poi di varie forme, molesti agli uomini e alle bestie; tutto il bello e il terribile della natura. Di quando in quando si vedevano torme prodigiose di cammelli, di buoi, di capre, tenute al pascolo dai beduini che non avendo dimora fissa vagavan qua e là secondo i bisogni della pastura dei loro animali. Il beduino, detto il padrone del deserto, è nomade per eccellenza, e per questo anche quasi indipendente dal governo; nutrendosi di latte e di carne e non annighittendo nell’ozio ha sana complessione; d’acuta intelligenza poi e d’una agilità al corso straordinaria. Benché costoro vivano separati e di- /387/ spersi in tante regioni pure sono fortemente attaccati alle loro stirpi e si aiutano all’uopo a vicenda.

Lasciata quella stazione, si prese cammino per un altipiano deserto e brullo d’ogni vegetazione, e secco addirittura, tanto che la sera nell’attendarsi non poterono trovare pur un po’ d’acqua e di legna per cuocere i cibi. Magra e poco appetitosa cena avevan potuto fare; nè ebbero miglior riposo; che molestati da zanzare ed altri insetti appena poteron chiudere l’occhio verso il mattino in sul fresco; ma ecco allora il capo della carovana svegliarli e ordinare la partenza. E con la febbre addosso, colle membra rotte dalla stanchezza bisognò alzarsi e partire. Erano entrati nella via principale che mena a Kàssala e scontratisi in una carovana di mercanti poterono acquistare qualche cosa; continuata poi qualche altra ora la via, finalmente giunsero ad un’oasi deliziosa; erba, piante ed un laghetto di acque cristalline. Mangiata qui una buona minestra, e ripigliato un po’ di forza e di coraggio, aumentati dal pensiero d’essere vicini alla meta, si rimisero in cammino, e dopo alcune ore si trovarono fra macchie di palme selvaggie, innanzi alle mura di Kàssala.

Questa città fu fondata dal governo egiziano, come presidio contro gli assalti dei terribili Beduini e le scorrerie degli Abissini. Le case sono tutte di mattoni crudi con un sol piano, e terminate a terrazzo, formato di fango e sterco di bue impastato e disseccato, che al cader delle grosse pioggie si screpola lasciando trapelar l’acqua, naturalmente con poco gusto di chi vi abita. È tutto intorno circondata da mura, esse pure a mattoni crudi, ed è anche munita di qualche cannone. La popolazione, in massima parte data alla mercatura, è quasi tutta /388/ mussulmana fanatica. Allora apparteneva al governo egiziano, dal 1898 agli Inglesi, loro ceduta dagli Italiani, che nel 1894 l’avevano tolta ai Dervisci. Presso Kàssala vi è il bosco di Tucrùf, dove il 3 aprile 1896 il nostro colonnello Stèvani mise in rotta una schiera di Dervisci.

In Kàssala aspettava i nostri missionari una gradita sorpresa; poichè, ecco sul mettervi piede farsi loro avanti un signore che senza dir chi fosse li invita cortesemente a seguirlo in casa sua, dove stava apparecchiato un buon pranzo all’europea con ogni sorta di agevolezze. Chi era costui? Era un cattolico maronita, ricco negoziante, ma più fedele osservatore della sua religione che, saputo l’arrivo dei nostri missionari, s’era data premura di accoglierli quanto più onorevolmente gli fosse possibile. Nè basta questo, ma assegnò per loro abitazione due case, una per i sacerdoti e l’altra per i loro alunni; e ogni giorno poi mandava alla loro mensa ogni ben di Dio. E pregandolo i missionari a moderare la sua gentilezza, egli rispondeva: voglio compensarvi delle pene e degli strapazzi sofferti in questo lungo viaggio e in tant’anni di fatiche spese in pro delle anime redente da N. S. Gesù Cristo. Voi siete infermi, ed avete bisogno di un buon trattamento per ristorare le forze e rimettervi a lavorare nella vigna del Signore. State persuasi che la vostra dimora nella mia casa è per me un gran favore, una grazia segnalata che Iddio mi fa. Quanto buon cuore, o meglio quanta fede!

Erano quindici giorni che dimoravano in Kàssala presso il buon maronita, e ormai conveniva, rimessisi alquanto in forze, pensare alla partenza e insieme alla separazione. Si convenne che i giovani sareb- /389/ bersi con Mons. Taurin portati a Kèren fra i Bogos, dove essendovi una stazione di missionari lazzaristi e di Suore della Carità avrebber più presto potuto ristabilirsi, e quindi pel mar Rosso ritornare con cammino più comodo e breve ai loro paesi. Il nostro Massaia col suo segretario, p. Luigi, sarebbesi recato a Suakim e indi ad Alessandria, donde avrebbe salpato per l’Italia.

Al pensiero di doversi separare da’ suoi cari alunni non poteva non provare un senso di profonda mestizia, che gli era però in parte raddolcita da queste considerazioni, «Tutto finisce quaggiù, e solo rimane il bene che si è fatto e la speranza di un celeste guiderdone. Ma che importa? Liberato lo spirito da questo involucro di carne, volerò a raggiungere i fortunati miei compagni che mi precedettero nelle apostoliche battaglie e le migliaia di figli che m’aspettano nel regno della gloria».

Preparata dunque la carovana dalla generosità di quel maronita, che tutto a sue spese volle provvedere, cammelli, guide, e rifornitala di abbondanti viveri pel tragitto che doveva durare molti giorni, si venne alla dura separazione. I pianti, le grida, i singhiozzi di quei buoni giovani nel doversi allontanare per sempre dal loro caro padre erano cose da intenerire i sassi. Ne meno commosso era il nostro vicario apostolico. Il che avendo osservato i cammellieri, come va, dissero a lui rivolti, che voi, missionari cattolici, non prendete moglie, anzi non guardate neppur donna in faccia, e poi amate e riuscite a farvi riamare talmente da questi giovani che nulla vi appartengono? Questo, rispose il nostro, è un miracolo operato da Hissa (Hissa vuol dire in quella lingua araba, Gesù). E così è vera- /390/ mente; i vincoli della carità spirituale sono più forti degli stessi vincoli del sangue. E questo, come ben diceva il nostro, è un mistero che solo la religione nostra, che è religione di carità, solo la nostra religione sa operare. Accomiatatisi dunque da mons. Taurin e dai giovani e ringraziato anche una volta l’impareggiabile maronita che insisteva a dire non avere egli fatto ma ricevuto l’onore nel servire ai ministri della sua religione, Mons. Massaia ed il p. Luigi salirono uno di qua l’altro di là entro due casse pendenti dal dorso del loro cammello e si misero in via.

Da Kàssala a Suakim, la strada che di solito percorrono le carovane, avanza per alcune giornate di cammino verso Nord-est attraverso un terreno ondulato e rallegrato da alte piante e da copiosa vegetazione, favorite da fiumicelli che scendono dagli ultimi lembi dell’altipiano etiopico; poi, lasciando a destra la via che sale tra le montagne dell’Amasèn e che mena a Keren, torce gradatamente a sinistra, sempre a nord-est e per una sconfinata pianura che man mano si va spogliando di verde e diventando deserto; in mezzo alla quale difficile e pericoloso riuscirebbe il viaggiare se Gordon pascià non avesse stabilite ad ogni tappa ordinaria una stazione (otto in tutto) con case e ricovero pei viaggiatori. E questa era la via che doveva battere la nostra carovana. La mattina del 10 gennaio i nostri, lasciata Kàssala, si misero in cammino, come abbiamo detto. Fatta, dopo due ore di viaggio, una breve fermata presso un fiumicello, la sera giunsero ad un villaggio dove per diligenza fatta dal buon maronita trovarono alloggio e una succosa cena. Anzi il levar del sole ripartiti dopo quattr’ore di altra trot- /391/ tata fecero una breve sosta all’ombra di un grande albero di tamarindo, levando un po’ il corpo di grinze e calmando l’arsura con acqua limacciosa, quella che avevan potuto trovare. La sera mettevano piede nella prima stazione di Gordon pascià; alcune capanne circondate da piante e chiuse da recinto. Dopo una buona notte di riposo la mattina per tempo risalirono sulla barca del deserto, come chiaman il cammello gli Arabi, e via. La sera smontarono ad un gruppo di piante rallegrate da acque sorgive. Non essendovi capanna, rizzarono le tende appiè di un albero e apparecchiarono un po’ di letto e di cena.

Il sole indorava cogli ultimi suoi raggi le cime dell’altipiano etiopico e il nostro Massaia fissando lo sguardo in quelle che segnavano il confine della sua patria adottiva, da cui era duramente cacciato, si sentiva intenerire e muovere al pianto. Se ne accorse il cammelliere e, male interpretando il motivo di quella mestizia, fate animo, gli disse; domani saremo fuori dalla vista di queste montagne che vi ricordano i vostri nemici. — Nemici? Non nemici, ma figli, fece il Massaia. — Come! rispose l’arabo, l’imperatore Ioannes e la sua corte che vi hanno esiliato non sono vostri nemici? — Questo per conto mio io so, disse il nostro, che tutti sono miei figli. — Quand’è così, davvero, fece il mussulmano, davvero ch’io non ci capisco più nulla; non ci capisco più nulla! andava borbottando tra sè. — E aveva ragione. Come può mai un seguace di Maometto sapere che cosa sia la carità di Cristo, la carità dei fratelli?

Da questo punto fino a Suakim, il terreno si va facendo più piano, la vegetazione più scarsa, gli /392/ alberi più radi ed anche più rade le abitazioni, finchè si entra in un terreno sterile e brullo di erbe, scarso d’acqua, e questa per la vicinanza del mare anche salmastra; a qualche chilometro dalla costa il suolo è tutto fine e arida sabbia. Attraversato anche questo tratto con maggior noia e fatica, finalmente dopo sedici giorni da che erano partiti da Kàssala entrarono in Suakim.

Avevano percorso 80 leghe, circa 240 miglia.