Can. Lorenzo Gentile
L’Apostolo dei Galla
Vita del Card. Guglielmo Massaia
Cappuccino

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Capo XXXIV.

Suakim. — Porto Sudàn. — Un brano di storia antica. — L’istmo di Suez. — «Un uomo che onora il mondo». — Ismailia, el Kantar e Porto Said. — In Terra Santa. — Beiruth. — Smirne. — Il quartier franco. — Costantinopoli. — Notizie delle Missioni. — Adrianopoli. — Straordinarie accoglienze a Filippopoli. — Commovente separazione. — Partenza per Marsiglia. — Ai bagni di Bourbulle. — A Roma dal Santo Padre. — Sulla tomba degli Apostoli. — La Missione Galla al presente. — L’esiglio di Abba Saheli e un’ambasciata abissina. — La nuova prefettura del Kaffa. — Morte di Menelik. — I suoi successori.

La città di Suakim è divisa in due parti; una, composta di catapecchie e di capanne di stuoie e abitata dagli indigeni, che s’aderge alle falde d’una collina lungo la spiaggia; l’altra, composta di case in muratura terminate a terrazzo all’uso arabo e abitate da mercanti e dagli ufficiali del governo, che stendesi su una lingua di terra, separata dalla prima da un canale naturale, capace di accogliere nel suo seno parecchie navi. Fino ad oggi fu uno dei porti principali delle coste occidentali del Mar Rosso, che ultimamente acquistò anche maggiore importanza per la costruzione di una ferrovia che /394/ la congiunge a Kartùm; ma ormai sta per cedere il suo primato commerciale ad una nuova città che sorge a 35 chilometri più a Nord, vogliamo dire Porto Sudàn. E questa stata tracciata dagli Inglesi, che ne sono i fondatori, alla moderna, con vie larghe, tagliate ad angolo retto, superbi edifici, una ferrovia che la mette in comunicazione con Berber, e porto formato di tre bacini capaci di ricoverare contemporaneamente da 12 a 14 piroscafi.

In Suakim i nostri missionari furono benevolmente accolti e trattati con ogni riguardo da un amico agente del buon maronita di Kàssala, il signor Elias.

Quivi il Massaia ritrovò un’antica conoscenza, certo Sciek Abdallàh, ricco mercante arabo, il quale, sentito del suo arrivo, fu tosto a fargli visita e ogni giorno poi passava parecchie ore in amichevole conversazione, conversazione che il nostro, al solito, procurava che non fosse senza qualche frutto spirituale. In una di queste Abdallàh, ammirato della vita intemerata e delle virtù angeliche dei nostri missionari, «Allah Kerim! esclamò, noi mussulmani camminiamo strisciando per terra, laddove voi cattolici, stendendo le ali, volate sì alto che noi non possiamo raggiungervi neppur con lo sguardo».

Quanto alla sua origine, Suakim fu edificata verso la metà del settimo secolo da Maometto che quivi sbarcò colle sue orde e quivi pose il centro delle sue operazioni per convertire all’islamismo i popoli della Nubia. Quasi ideilo stesso tempo, e ancora allo stesso scopo, dagli stessi Arabi, per sottomettere al Corano gli abissini, fu costrutta Massaua. I Nubiani, vivendo sparsi, non poterono opporre una valida resistenza e piegarono presto /395/ il capo all’islamismo; e così per la stessa ragione avvenne dei popoli del Sennaar, del Sudàn, mentre gli Abissini, ordinati in potente impero, poterono tener fronte agli assalti della Mezzaluna e conservare la fede; fede, che per la nomina prevalsa di un patriarca o abuna eretico copto venuto da Alessandria, corruppero poi variamente, secondoche dura tuttora.

Il quarto giorno dal loro arrivo in Suakim, essendo apparso nel porto il piroscafo italiano Messina della compagnia Rubattino, congedatisi dagli amici si imbarcarono e si diressero alla volta di Suez dove giunsero sei giorni dopo. Suez, prima del taglio dell’istmo, era un villaggio di poche capanne, ma dopo qull’immenso lavoro diventò una bella cittadina che nel 1880 già contava 15 mila abitanti. Il taglio ideato dal francese Ferdinando Lesseps fu incominciato nel 1859 e dieci anni dopo nel 1869 era già compiuto; era costato la bellezza di 500 milioni; somma però di gran lunga inferiore ai vantaggi che procura. Il canale, che dalle coste del Mediterraneo, cioè da porto Said, cittadina che quivi sorge, si congiunge a Suez col Mar Rosso, è lungo 160 chilometri, largo da 60 a 100 metri e profondo da 22 a 8 metri.

Al loro sbarco a Suez furono cortesemente accolti dai consoli austriaco, francese e italiano e dai padri Riformati, i quali ultimi li ospitarono nel loro convento. Il giorno dopo furono al Cairo prendendo stanza nel convento dei francescani, dove, saputosi l’arrivo del Massaia, incominciò una processione di illustri visitatori d’ogni nazione; processione che durò ininterrotta ben due giorni, lasciando appena il tempo a un po’ di necessario riposo e ristoro. Tra /396/ gli altri son da ricordare i famosi viaggiatori italiani Matteucci e Gessi che avevan tentato d’entrare fra i Galla per il Sudàn, ma arrivati a Fadassi avevan dovuto tornare indietro. L’entusiasmo, la commozione provata dal Matteucci nell’udienza del Massaia è descritta con i più smaglianti colori in una sua lettera al Baratieri, che ci spiace per la sua lunghezza di non poter citare per intiero; ci basti l’accennare che chiama il nostro Massaia uno degli uomini che onorano il mondo. Nè men entusiasta ci si mostra il Gessi il quale scrive: «Ci si dice che in Italia gli preparino grandi accoglienze. Nulla di più meritato; perocché, oltre ai servigi apostolici che fra le popolazioni barbare rappresentano un elemento civilizzatore, Mons. Massaia non ha dimenticato di essere italiano e buon italiano».

Dopo alcuni giorni di fermata al Cairo i nostri pellegrini mossero verso Ismailia, graziosa cittadina che sorge in riva al lago Timsa che fa parte del canale. Ha questa belle case circondate da giardini, spaziose contrade, e un discreto commercio; prese il nome da Ismail Pascià che favorì la costruzione del canale, come Porto Said, per lo stesso motivo, da Said.

Da Ismailia avanzando toccarono il villaggio di El Kantar, che si crede sia il luogo per cui passò la Sacra Famiglia nel trasferirsi nell’Egitto, e quindi pervennero a Porto Said. Questa città è situata su una zona di terra che divide il lago Menzaleh dal Mediterraneo; ha bei palazzi, piazze ampie, numerosi magazzini e un porto molto frequentato.

Pernottato quivi presso una casa dei francescani, la mattina seguente i nostri s’imbarcarono per Giaffa, donde sarebber mossi alla visita de’ luoghi /397/ santi. Il piroscafo su cui eran saliti recava un centinaio di francesi che pellegrinavano in Terra Santa; e questi com’ebber saputo uno dei missionari essere il celebre Mons. Massaia, tosto gli furono d’intorno a complimentarlo e a chiedergli mille notizie sulle sue avventure nell’Africa. Dopo una giornata di riposo presso i buoni francescani, i nostri missionari portaronsi a Ramle; donde, fatta una breve visita ai principali monumenti sacri, sempre accompagnati dai pellegrini francesi, si diressero verso Gerusalemme. Salite le prime vette delle montagne della Giudea, e traversata la valle di Terebinto ove Davide uccise il gigante Golia, si prese nuovamente su per l’erta e pervenuti su una spianata apparve al loro occhio, in distanza, la santa città. Ridiscesi in una valle trovarono due Fratelli delle scuole cristiane con una ventina di alunni e parecchi signori ch’eran venuti a incontrar il Massaia, attratti da un sentimento di venerazione verso la sua persona e dal desiderio di sentire dal suo labbro le notizie curiose delle sue avventure. Così discorrendo si giunse alla santa città dove alla porta una folla di devoti e di curiosi li stava aspettando.

In Gerusalemme era allora patriarca monsignor Bracco alla cui consacrazione il nostro Massaia aveva assistito anni addietro e col quale aveva stretta santa amicizia; e quindi non è a dire con quale vicendevole allegrezza si rivedessero dopo tante e sì dolorose peripezie! Aveva il nostro preso alloggio all’ospizio dei pellegrini, ed ecco una mattina una bella improvvisata; perchè si vide portare innanzi un completo vestito da vescovo, regalato dal patriarca e allestito dalle buone suore. E n’aveva veramente bisogno; perchè partito dal campo di Ioannes /398/ con una sola tonaca di tela indigena, aveva dovuto tenersela addosso sporca, stracciata, fino ai primi paesi del territorio egiziano dove aveva potuto finalmente trovare alcuni panni da cambiarsi, ed eragli poi stata donata una tonaca di pelo di cammello, non certo una galanteria, ma se non altro un po’ meno indecorosa per la sua persona. Questa offerta gli veniva dunque proprio in acconcio e ne ringraziò di cuore coloro che gliel’avevan così graziosamente procurata. Refrigerato lo spirito con alcuni giorni di ritiro nel convento del Santo Sepolcro, mosse verso Giaffa, donde egli avrebbe proseguito per Beiruth e il suo segretario per Alessandria e di là per Roma. Nel tragitto s’imbatterono in una numerosa carovana di pellegrini scismatici che tosto si fecero loro innanzi a riverirli e a baciar loro la mano e taluno anche i piedi; cosa che fece stupire il nostro Massaia, che perciò ne richiese il religioso che l’accompagnava. Non si stupisca, monsignore, disse quegli; così usano di fare tutti gli scismatici prima di entrare in Gerusalemme, ma dopo abboccatisi coi loro monaci e preti, se non prendono aria di disprezzo verso i sacerdoti cattolici, certo affettano noncuranza. Al qual proposito di scismatici il nostro Massaia diceva (e dopo quello che aveva sofferto non gli si poteva negare la sincerità) che, benché vecchio decrepito, si riputerebbe fortunato di lasciare la porpora e di prendere parte ad una spedizione di missionari fra popoli avversi alla religione, come si terrebbe fortunato di versare il sangue per salvare l’Oriente e la Grecia dall’eresia e dallo scisma.

Lasciata Giaffa, il giorno dopo approdarono a Beiruth, città incantevole che s’estende colle sue /399/ case circondate da giardini su pel pendio di un monte. Ha una popolazione di più che 120 mila abitanti di tutte le nazioni e di tutte le religioni; i cattolici vi hanno molte case religiose di diversi Ordini e i gesuiti vi tengono anche un’università fiorentissima. Curioso a notarsi: la Francia che ha cacciato i figli di S. Ignazio dalla madre patria, qui invece li protegge e li sussidia generosamente. L’interesse politico qui come in molte altre città dell’impero ottomano fa rispettare il clero, cui viene anche lasciata molta libertà.

Sulla fine di Aprile il Massaia s’imbarcò per Smirne, città popolosa e centro di gran commercio che sorge parte in piano, parte lungo il pendio di una montagna. Anche lì v’era una casa di francescani che vi tenevano una parrocchia abbastanza frequentata da cattolici, la maggior parte abitanti nel quartier franco.

I quartieri franchi erano specie di sobborghi riservati ai cristiani, chiusi alla gente di diversa religione, dove essi potevano liberamente tenere i loro mercati, trattare i loro affari e parlare la propria lingua. Ve n’erano in tutte le città commerciali d’Oriente, ed essendo ne’ tempi di mezzo il commercio esercitato in gran parte da italiani, specialmente Genovesi e Veneziani, ne venne che la bella lingua d’Italia si conservasse a lungo in quei luoghi e sopravvivesse fino al principio del secolo passato in cui prevalsero nel commercio le lingue francese, tedesca e inglese. Tuttavia vi è ancora intesa la lingua franca, una lingua italiana un po’ corrotta, anzi è ancora la parlata dal popolo minuto; i venditori ambulanti arabi offrono nei villaggi le loro merci in italiano, sia pure scorretto; /400/ gli indigeni comprendono una domanda loro rivolta in nostra lingua, e se essa non è lingua ufficiale è però lingua d’uso in molte aziende.

Da Smirne il 3 giugno il nostro Massaia salpò per Costantinopoli. Questa capitale dell’impero ottomano è, come Roma, fondata sopra sette colli, con palazzi dipinti a colori e circondati da giardini, e numerose moschee dagli alti e svelti minareti. È tutta intorno difesa da doppia cerchia di mura e da relativo fosso, che la divide dai tre sobborghi di Galata, Cassim e Pera; il quale ultimo sorge a cavaliere di una collina ed è il quartier franco degli europei, perciò fornito di parecchie chiese cattoliche e di splendidi palazzi, dimore degli ambasciatori. Il tutto insieme della città, variato da splendida vegetazione e specchiantesi nel Corno d’oro, presenta a chi lo guardi dal mare un panorama addirittura incantevole. Diciamo a chi lo guardi dal mare, perchè dentro l’occhio rimane disilluso; quartieri sucidi abitati da gente di più sucidi costumi, strade sfondate, da cani, di cui una quantità veramente straordinaria vi passeggia come in suo regno; e lunghesso le strade, presso le case, tra le piante dei giardini cippi funerari; perchè là vivi e morti abitano insieme e in buona armonia, come si vede. — A Costantinopoli il Massaia si incontrò in un suo antico condiscepolo, Mons. Rainaudi, vicario apostolico della Bulgaria, che da tempo egli credeva morto, onde non è a dire quale consolazione provasse nel vederselo invece innanzi vivo e vegeto.

In questo frattempo del suo viaggio da Suakim a Costantinopoli varie cose eran seguite: Monsignor Taurin notificavagli che in dieci giorni di viaggio era felicemente giunto coi suoi giovani a Keren, /401/ caritatevolmente ospitato dai Lazzaristi; che uno dei giovani, Wolde Etsa, era ivi morto santamente il 26 gennaio; che un altro era pure morto in Aden e un terzo era già stato viaticato. Le quali ultime notizie per l’affetto che portava ai suoi cari figliuoli non è a dire quanto affliggessero il cuore del nostro Massaia. Davagli monsignor Taurin pure altre informazioni intorno allo Scioa; quanto alla missione, il padre Ferdinando avergli fatto sapere, fino a quel punto, nel mese di dicembre, non essere stato molestato; e quanto alla spedizione scientifica italiana, Martini e Antonelli giunti nello Scioa aver ricevuto ordine di consegnare all’imperatore le armi e le munizioni che avevan recate e di uscire dai confini di quel regno.

Altre cose pur erano avvenute nell’interno dell’Africa e propriamente nelle missioni, che il buon padre Ferdinando ancora ignorava e che poi vennero a conoscersi; che il p. Leone des Avanchères era morto a Ghera, probabilmente di veleno propinatogli dalla regina di quel territorio; che era pur morto Mons. Cocino, nel febbraio 1879, in Kaffa, dov’erasi recato a visitare quella cristianità vedovata del suo pastore per la morte del p. Hailù, che già abbiamo ricordata.

Tornando al nostro Massaia, questi, invitato da Mons. Rainaudi, si condusse con lui alla sua residenza in Filippopoli. Lungo il percorso fecero una breve sosta in Adrianopoli. Questa città è situata parte in pianura, parte in collina; le corre tutto intorno una cerchia di mura munite di torri e nell’interno ha un vecchio castello che serve come propugnacolo in caso di guerra. È popolata da più di 150 mila abitanti, metà turchi, il restante greci, /402/ armeni ed ebrei che fanno un attivissimo commercio di vini, frutta, tessuti e pellami. In Adrianopoli vi è la più bella moschea di tutto l’impero ottomano, una vasta cupola ergentesi su numerose colonne di porfido. Adrianopoli è stato uno dei maggiori focolari della guerra balcanica. Conquistata dalle truppe bulgare, pareva ormai sottratta per sempre alla Mezzaluna; ma nella seconda fase della guerra ricadeva sotto l’antico dominio.

Lasciata questa città, il 17 giugno continuarono per Filippopoli. Qui il nostro Massaia ebbe una sorpresa: disceso dalla stazione fu fatto entrare in una sala riccamente addobbata dove gli furono presentati il vescovo coadiutore, indi successore, Mons. Menini, i consoli francese, tedesco e italiano, il prefetto, il sindaco, il ministro della Polonia, il capo dello stato maggiore ed altri ufficiali e molti signori italiani e d’altre nazioni. Usciti dalla stazione salirono in una vettura di gala seguita da una lunga fila di altre vetture; e lungo le vie a destra e a sinistra una calca straordinaria di gente che chiedeva inginocchiata la benedizione all’apostolo dell’Africa.

Giunti al quartiere cattolico ecco all’ingresso una scritta: Africae redemptorem Bulgari catholici plaudentes honorant; e dietro, divise in doppia fila, coi loro stendardi, le allieve delle suore di S. Giuseppe, le allieve e le orfanelle del terz’ordine di S. Francesco, e ancora un’altra schiera di giovanetti, gli allievi degli Agostiniani e in coda, ultima, la banda militare, che all’arrivo del Massaia diede fiato agli istrumenti e l’accompagnò in chiesa col popolo a ricevervi la pastorale benedizione. Fu uno spettacolo di fede addirittura commovente. Il giorno dopo il /403/ nostro vescovo fu a visitare le case degli Ordini mentovati, in tutte accolto colle stesse dimostrazioni di affetto e di venerazione e onorato di canti, di poesie in varie lingue, di quanto di meglio sapevano fare.

Nel separarsi dal suo caro amico avvenne una scena commoventissima: il Rainaudi inginocchiato innanzi al Massaia gli chiese la benedizione; questi a sua volta voleva essere da lui benedetto «perchè, diceva, io ne ho maggior bisogno, e questa benedizione sarà per tutti e due la caparra della nostra riunione nel santo Paradiso. Benedicimi dunque e poscia ti benedirò anch’io. Ed appoggiato al mio bastone, curvai la fronte e ricevetti piangendo da quel santo vecchio la benedizione, che tosto con gran commozione ricambiai». Piangevano tutti e due, e non meno erano inteneriti gli astanti al vedere quella scena così patetica; due antichi amici, due connazionali, due vescovi missionari che in terra straniera si chiedevano a vicenda la benedizione di Dio, prima di separarsi per sempre, una benedizione che fosse la caparra della loro eterna riunione nel cielo! Quale spettacolo, ripetiamo, quale spettacolo pieno di patetica melanconia in uno e di gioia arcana!

Salutato e ossequiato ancora una volta alla stazione da tutta la nobiltà del luogo e dai suoi confratelli il nostro missionario la sera del dì 23 partì e alle sette del 25 smontò col p. Benedetto da Guerrino alla stazione di Costantinopoli. Il giorno della festa degli apostoli Pietro e Paolo nella chiesa dei Domenicani celebrò ancora il Pontificale e tenne un’omelia ad un uditorio affollatissimo e il giorno dopo s’imbarcò per Marsiglia donde intendeva portarsi ai bagni di Bourbulle per rimettersi alquanto /404/ dei malanni che s’aveva acquistati in tanti anni di fatiche e in tanti mesi di prigionia e di strapazzi.

A Napoli dove il piroscafo si fermò un giorno una accolta di signori, membri della società italiana per l’Africa, d’accordo col municipio, saputo il suo arrivo, venne a bordo per salutarlo e ossequiarlo; ma il nostro Massaia, parte perchè malandato di salute e bisognoso di riposo, parte perchè ragionevolmente temeva che quelle dimostrazioni volgessero a qualche fine politico non si fece vedere; e continuando il viaggio il dì 8 luglio sbarcava a Marsiglia. Quivi intese trovarsi già in Francia, reduci entrambi da Roma, Mons. Taurin e il p. Luigi Lasserre. Spacciate alcune faccende, recossi ai bagni termali di Bourbulle che in pochi giorni lo ebbero ristorato dai suoi acciacchi in guisa da potere celebrare senza bisogno di appoggio; come fin qui da qualche tempo aveva fatto.

Trovavasi tuttavia alla Bourbulle, quando ricevette una lettera del Card. Simeoni, in cui gli si diceva che il S. Padre accogliendo la preghiera fattagli con lettera del 23 Maggio precedente lo dispensava dal suo ufficio di vicario apostolico dei Galla e nominava a succedergli il suo coadiutore Mons. Taurin. Gli si diceva in ultimo il Papa desiderarlo a Roma; onde, affrettati i preparativi, si metteva in viaggio e passando per Chambery e per Torino, senza farsi conoscere, il 4 settembre 1880 giungeva a Roma, prendendo alloggio al convento dell’Ordine dell’Immacolata Concezione, accolto colla più viva allegrezza dai suoi e dal suo collega, commissario generale, il p. Francesco da Villafranca. Era la prima volta che metteva piede nella santa città dopo che questa era caduta in mano della /405/ rivoluzione. A questo pensiero provò tanta afflizione che, sono sue parole, «se le circostanze politiche dell’Etiopia me lo avessero permesso, volentieri sarei ritornato fra i miei barbari, certo di trovarvi meno incivilimento, ma più fede, più umanità, più buon senso». Al qual proposito parlando un dì un ragguardevole personaggio col nostro missionario, «Roma, dicevagli, ha cambiato il sole per la stella d’Italia; ma qualunque stella è fatta per la notte e tutte quante danno un limitatissimo splendore; laonde non so quanto abbia guadagnato nel cambio». Giuste parole!

Tornando al nostro Massaia, questi il giorno 7 fu ricevuto in udienza dal S. Padre che l’accolse con vera effusione d’affetto e volle sentire dal suo labbro la triste iliade dei suoi guai e le vicende delle Missioni. Uscito dall’udienza pontificia, il nostro glorioso missionario scese in S. Pietro e portatosi innanzi alla confessione dei Santi Apostoli fece questa preghiera, questa protesta, o come si voglia chiamarla, che qui testualmente riproduciamo per intiero, perchè troppo bella, troppo sublime, perchè tutta ci fa conoscere la virtù, l’eroismo del suo spirito: «Cursum consuminovi». La missione da Dio e dal vostro successore affidatami l’ho di già compita. Movendo per l’Africa presi le mosse da questo santo luogo con quei propositi, con quello zelo, e con quella fermezza di volontà che voi, o grandi apostoli, mi ispiraste: e per quanto ho potuto mi sono sempre sforzato di restarvi fedele. La debolezza umana mi avrà talvolta reso incostante nel fare il bene ma la volontà non mi ricordo di essermi mai venuta meno. Cacciato dal campo del mio apostolato, dove speravo morire e ritornato in questa /406/ santa città vecchio impotente, inetto a qualsiasi cosa, eccomi innanzi alle vostre venerate spoglie. Non vi prego per me, perchè conosco che la mia vita è prossima al tramonto, ma vi prego per i tanti figli che rigenerai alla Chiesa, e che da forza brutale fui costretto abbandonare; per i miei compagni di apostolato che più fortunati di me possono tornare a combattere le sante battaglie della fede, per l’Africa orientale sulle cui terre consumai con gioia e con grande speranza di lieti frutti trentacinque anni di vita. Lo ripeto, sono ormai inetto, ma se volete che queste poche forze riacquistate, e questi pochi giorni di vita che ancora mi rimangono li spenda a vantaggio delle anime di quelle lontane regioni, eccomi pronto. Mi alzai, soggiunge, con gli occhi pieni di lacrime, e con l’animo disposto a seguire ciecamente i divini voleri».

E così con queste parole, degne veramente di un eroe della fede, il nostro Massaia chiude le sue Memorie. Ma se egli qui termina, noi continueremo, ci faremo a contemplare gli ultimi splendori di questo grande astro della Chiesa. — Prima però uno sguardo allo stato presente del suo antico vicariato apostolico. Dopo il suo esiglio esso fu amministrato da Mons. Taurin che egli aveva lasciato in suo luogo e quindi da Mons. Iarosseau, tuttor vivente, e contava nel 1906, 8 mila neofiti, 26 religiosi europei, 8 sacerdoti indigeni con 17 chiese, 2 seminari, 18 scuole, e 1 ospedale. Il vicariato apostolico dei Galla fino all’anno 1914 ebbe per confine a settentrione il Nilo Azzurro, l’Hauash e la frontiera della colonia francese di Gibuti, a levante la Somalia inglese e italiana, a mezzogiorno il fiume Giuba, l’Omo e il vicariato apostolico del Nilo superiore. /407/ Con questi limiti non abbraccia certo tutti i popoli di razza galla, la più bella di tutta l’Africa, ma per compenso ne ha altri di razza etiopica, come i popoli del Kaffa, dell’Harrar, il Somalo francese e italiano, e l’Adal, in tutto una popolazione di otto milioni.

A rendere più facile l’evangelizzazione di tanti popoli la S. Sede nel 1914 creava una prefettura denominata del Kaffa, attribuendole il suddetto regno e i territori di Gemma, Ennerea, Ghera, Gudrù e la vastissima regione dei Walagga: in tutto una superficie di 270 mila chilometri q. coi seguenti confini: a Nord il Nilo azzurro e il fiume Mugher, a oriente il grado 38 di latitudine orientale (Greenvich) a mezzogiorno il 4° grado di latitudine boreale e il lago Rodolfo; ad occidente i confini civili angloetiopici, tracciati tra il lago Rodolfo e il Nilo azzurro. La nuova prefettura fu affidata ai Missionari della Consolata di Torino (1) e prefetto apostolico fu costituito Mons. Gaudenzio Barlassina.

Dopo l’esilio del Massaia la missione attraversò un periodo di gravi difficoltà e contrasti. Principale oggetto della persecuzione fu uno dei più fervidi e preziosi proseliti acquistati dal Massaia, Abba Saheli. La regina Taitù, che parve succeduta alla trista Bafana nello spadroneggiare sul cuore del debole Menelik, sollecitata a questa iniqua opera dall’abuna Mattios, una mattina sull’alba fece improvvisamente circondare la dimora di abba Saheli coll’intendimento di catturarlo e metterlo segre- /408/ tamente a morte. Senonchè questi, avvisato del pericolo che gli sovrastava, poche ore prima, nel cuore della notte, fuggì e correndo a grandi giornate giunse a Gibuti, donde s’imbarcò per l’Europa e portossi a Roma prendendo ospizio nel convento dei cappuccini ai SS. Quattro Coronati. Da due anni viveva quivi in esilio allorchè nell’ottobre del 1907 giunse a Roma una ambasciata abissina inviata da Menelik a far visita al re e al Papa. Capo dell’ambascieria era il degiasmace Masciascià, cugino di Menelik e grande ammiratore e fervido amico del Massaia, come s’è visto, e uno degli interpreti e del seguito era uno dei figli di abba Saheli, Francesco Melissiè, giovane colto che parla bene il francese e l’italiano, e, di più, fervente cattolico. Come è facile pensare, primo pensiero di Melissiè fu di correre ad abbracciare il vecchio padre. Ve l’accompagnò il cav. Farina che col Saheli aveva contratto amicizia e da cui apprese la triste odissea delle sue vicende che egli poi riferì sul Corriere d’Italia.

La gioia del padre e del figlio doveva presto essere completa, perchè qualche tempo dopo abba Saheli otteneva fosse revocato il decreto d’esilio e di poter ritornare fra i suoi connazionali a riprendere con ardore il suo apostolato, che continuò fino al 12 gennaio 1914 in cui veniva a morte.

La missione galla come l’abissina, che entrambe sono civilmente soggette all’imperatore d’Abissinia, alcuni anni addietro trovandosi vessate dalle autorità locali, il vicario apostolico, mons. Iarosseau, si rivolse al Papa perchè s’interponesse egli direttamente presso il negus. Nel luglio del 1906 S. S. Pio X scrivevagli a quest’effetto una lettera autografa che venivagli presentata da uno dei missionari, /409/ il p. Basilio. L’imperatore lo ricevette con molta solennità, circondato dai grandi della sua corte e rivolgendogli la parola, ebbene, padre, gli disse, di dove viene questa lettera? — Da Roma, Maestà; è il nostro S. Padre Pio X che glie la manda. — Ah davvero? È una grande gioia per me cotesta, perchè noi tutti amiamo il Papa. Egli è il padre della cristianità, il padre di noi tutti; ed è per me una grande felicità il ricevere una lettera sua. E, presa la lettera, s’inchinò profondamente, ripetendo tre volte: amen, amen, amen. Indi, fatta una risposta, v’aggiunse pel Papa la Stella d’Etiopia, tutta di oro massiccio tempestata di brillanti; la massima onorificenza che sogliano conferire gli imperatori abissini. La lettera colla decorazione veniva presentata al Papa il 21 Marzo 1907 dal p. Bernardo Maria, cappuccino francese, dal quale si ebbero queste liete notizie, come riportava il Momento nel suo numero del 22 marzo. Non è a dire quanta consolazione n’avesse il Santo Padre, il quale dopo un accenno al glorioso fondatore di questa missione, al Massaia, e ai suoi degni continuatori, monsignor Taurin e mons. Iarosseau, conchiudeva il suo discorso dicendo essere per avverarsi il sogno accarezzato tanto tempo da quegli illustri campioni. Incaricava poi il p. Bernardo di portare al potentissimo imperatore di Etiopia, come segno del suo affetto e riconoscenza, la sua apostolica benedizione, e vi univa preziosi regali; benedizione e regali che, come riferì lo stesso giornale il Momento nel suo numero del 20 settembre 1907, furono accolti con dimostrazioni di singolar compiacenza e gratitudine.

/410/ Questo pareva buon augurio per le missioni galla. Senonchè sventuratamente l’anno appresso, 1908, Menelik cadeva ammalato diventando inabile a governare, onde fin d’allora sceglieva a succedergli il nipote Ligg-Iassu, figlio d’una sua figlia maritata a ras Michael. Ligg-Iassu non contando che 12 anni fu posto sotto la reggenza del padre. D’allora in poi ogni tanto circolarono voci vaghe che Menelik fosse morto, voci seguite da smentite. Quello che pare certo si è che Menelik sia morto realmente nel dicembre 1914.

Gli successe Ligg-Iassu, il quale per mostrarsi troppo ligio ai mussulmani suscitò malumori fra i varii ras e la popolazione, malumori che finirono colla deposizione del medesimo. Prese allora le redini del governo la figlia di Menelik, Zeoditù, che nominò reggente lo zio ras Michael, a cui successe ras Tafari che mostra col fatto di esser degno di quel posto.

(1) Questa giovane e pur già fiorente Congregazione, oltreché nel Kaffa, esercita il suo apostolato nella Somalia, come già si è detto, nel Kenia e nell’Iri[n]ga. Vedi: Le Missioni della Consolata. [Torna al testo ]