Massaja
Lettere

Vol. 2

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Relazione del padre Leone Golliet des Avanchers OFMCap.
missionario apostolico dei Galla – Ghera

Regno di Ghera, paese dei Gallas
* Il 15 Agosto 1861 Festa dell’Assunzione.
Il dì della festa dell’anime del Purgatorio 1862

L’anno scorso io dava, sul regno di Kafa, o Cafa, nozioni che dovettero far concepire molte belle speranze per la nostra santa religione. Noi lasciavamo i Gallas barbari e crudeli per entrare in un antico regno Etiope, in cui il rispetto per la religione cristiana e /356/ pei suoi ministri è ereditario in tutte le classi. Ora alle dorate speranze è succeduto il più nero disinganno; imperocché nei due anni che siamo qui abbiamo purtroppo scoperto sotto queste spoglie un cadavere vecchio ed infetto, passato allo stato di scheletro; ond’è che per risuscitarlo saria mestieri d’un gran miracolo della forza divina. Però noi ci domandiamo sovente se queste ossa udranno mai la parola di Dio? Fili hominis, putas ne vivent ossa ista? Il Signore darà forse loro i nervi, farà crescere attorno ad essi la carne, li ricoprirà di un’altra pelle, soffierà di nuovo su di loro lo spirito di vita, e questo vecchio regno, bella parte dell’impero Etiopico rinascerà mai alla vita religiosa e civile? Domine Deus, tu nosti!

Difficoltà pel missionario. – È innegabile che il Signore guarda misericordiosamente questo popolo: l’arrivo solo del nostro santo vescovo in mezzo a questa nazione ne è una prova, nei 20 mesi del nostro soggiorno costì, nulla fu risparmiato per far sentire la parola di Dio e per far vedere a questo popolo in che consistano la vera fede e la vera religione. Dapprima ebbe luogo una commozione nel vecchio cadavere, e credevamo che lo spirito di vita fosse risorto in lui; ma questo movimento passaggiero, e prodotto effettivamente dallo spirito di vita, fu bentosto soffocato dallo spirito infernale che regna materialmente, visibilmente e moralmente su queste regioni. Lungi dallo spianarsi, [p. 238] le difficoltà andarono continuamente crescendo, ed ora stiamo dubitando se non sarebbe più conveniente l’abbandonare affatto questo regno per limitarsi esclusivamente ai paesi dei Gallas repubblicani e selvaggi, anzicchè stare in questo fango ove stiamo, esposti ad ogni sorta di pericoli morali e religiosi. Desidero e posso farvi conoscere le gravi difficoltà che il nostro ministero trova in questo perfido paese. Dico perfido paese, perchè invece di anime create all’immagine di Dio paiono serpenti che abitano nei corpi della maggior parte dei Sidama Cafani. Il ventre del Gallas (per usare l’espressione del paese) è nerissimo, ma quello del Sidama necessiterebbe d’un gran numero di nostri spazzacamini per esser pulito dai 200 strati di fuligine che lo ricoprono, → Geremia 13:23 sed Æthiops non potest mutare pellem suam né a più forte ragione imbiancare il suo cuore.

Aspetto di Ennarea. – Per darvi un’idea, quanto si può esatta del paese, è d’uopo pigliar le mosse dalle antiche sue tradizioni. Quando esisteva ancora l’impero Etiopico, il presente regno dipendeva da quello di Ennarea. Il paese di Ennarea poi comprendeva tutte le regioni situate al sud del Nilo Abbai, comprese fra questo fiume ed il Gojeb. Esse sono occupate attualmente dai Gallas Goudrou, Thibiè e Gimma, formano i cinque regni di Gouma, Goma, Limou, Gimma e Ghera. Questo paese di Limou anticamente formava il centro dello stato di Ennarea, il quale prende il suo nome da un monte così nomato ancora oggidì e che è coperto da una folta selva abitata, dicesi, da un demonio. Gli antichi abitanti di Ennarea provengono dal di là del Nilo di Damot parte del Gojam: la lingua loro primitiva non era altra che l’amarignia parlata in Abissinia; questa lingua poi sembra essersi confusa con quella dei Sidama, che pajono /357/ essere i più antichi abitanti al sud del Nilo e gli aborigeni dell’Ennarea.

Prima introduzione del Cristianesimo. – Il paese di Ennarea, secondo le tradizioni locali, ricevette dall’Abissinia la religione cristiana sotto l’impero di Melec Segued che regnava al principio del XV secolo; ed ancora oggidì si mostrano i siti di antiche chiese a Nono Galla, a Limou e principalmente qui a Ghera. Al tempo dell’invasione musulmana, che fu seguita dall’invasione Galla, (poco tempo dopo il regno di Melec Segued), i Sidama furono costretti ad abbandonare i paesi limitrofi al Gojam ed avanzarsi a poco a poco verso il Sud ed a stabilirsi nell’Ennarea. La spedizione portoghese che venne in Abissinia verso il fine del XV secolo, e particolarmente la spedizione religiosa che l’accompagnava, formò il progetto di aprire una via di comunicazione colle possessioni portoghesi [p. 239] allora stabilite sulla costa di Melinda. Il missionario Fernandez nel 1625 passò per l’Ennarea ove trovò un viceré dell’imperatore etiopico, e penetrò sino al di là del paese di Combat presso i musulmani Alaba che debbono essere della razza Soomalis. Prima di lui verso il fine del XV secolo era venuto il patriarca Bermudez colla spedizione di Cristoforo di Gama; egli penetrò sin presso i Cafa per convertirli al Cristianesimo. Secondo la relazione di Tellez, il patriarca sarebbe rimasto tre anni presso i Cafa, o Cafati, d’onde sarebbe ritornato in Abissinia. Poco tempo dopo gli abitanti di Ennarea furono costretti a spatriare per l’invasione dei Gallas, i quali venendo da mezzodì s’impadronirono a poco a poco di quell’altipiano.

La razza Sidama (che non ha mutato carattere sino al giorno d’oggi) sempre paurosa e timida, avrebbe certamente potuto resistere all’invasione; poiché, secondo le tradizioni, essa non si componeva dapprima che di poche famiglie. Ma il re di Ennarea spaventato, non osò opporre la più lieve resistenza, e si ritirò verso Cafa.

Origine della famiglia reale. – A quest’epoca ha principio la dominazione dell’attuale famiglia reale di Cafa. Le tradizioni locali dicono che questa famiglia discende in linea retta dal diavolo, il quale sedusse una fanciulla di questi paesi, mentre andava attinger acqua al fonte. I Gallas tengono egualmente all’onore di discendere dal principe del tenebroso impero. Un’altra tradizione meno tenebrosa fa discendere la famiglia reale di Cafa da una donna cristiana venuta da lontane regioni in riva al mare. Essa ebbe due figli e s’internò in questi paesi. Il primogenito di essi uccise la madre, la quale prima di morire lo maledisse: la sua discendenza, a quel che si dice, sarebbe quella che occupa il trono del paese di Zingiro, famoso per le sue mostruose superstizioni. Dal secondogenito poi deriverebbe il ramo di Cafa. Secondo noi è più probabile che questa famiglia discenda da qualche portoghese compagno d’armi di Cristoforo di Gama, o da qualche servo del patriarca Bermudez, che abitò tre anni in questo paese: ciò che ce lo fa credere è il titolo di Don preso da tutti i membri della famiglia reale, e l’etimologia portoghese, o latina, di diversi nomi che ivi si trovano. Aggiungi che lo stendardo, che precede il re nel giorno della festa del Maskal, è /358/ una croce rossa azzurra, con sopravi un globo ed una croce, come nello stemma di Portogallo; come pure alcuni usi, ignoti nelle altre parti dell’Etiopia, paiono provenire dall’Europa.

In fine il nome Deoce dato a non so quale spirito, che pei suoi attributi sembra essere lo stesso Dio, viene dal nome portoghese Deos. [P. 240] È pur da notare, che le famiglie d’origine portoghese paiono numerose in questi paesi, e particolarmente nei regni di Goma e di Limou. In quest’ultimo paese il re attuale è della famiglia dei Sapera, (è cosa tradizionale che questa famiglia viene d’oltremare), e la famiglia Sigaro dominava prima che il capo dell’attuale famiglia sovrana giungesse al potere. Di più l’europeo riconosce a prima vista in questi due regni le tradizioni della sua patria ed i pochi rimasugli dell’antica civilzzazione. Con tutto ciò questi piccoli sovrani non si tengono guari onorati, allorché diciamo loro, che i proprii antenati erano nostri compaesani; e credono più onorevole il discendere dal demonio, oppur da un leone o da una scimmia.

L’origine dell’attuai famiglia reale dei Cafa (la famiglia cioè dei Minjio) è assai favolosa. Infatti contano che il re di Ennarea per comando di Dio avrebbe dato il suo braccialetto d’oro al capo della famiglia Minjio, il quale consentì a regnare, ma a condizione che il re di Ennarea conserverebbe tutti gli onori reali, e così fu fatto: imperocché il re di Ennarea ritirandosi per l’invasione dei Galla venne a stabilirsi nelVattual regno di Ghera, che di quei tempi era una gran selva; cacciati poi da questi paesi, or son più di 100 anni dagli attuali Galla, andò finalmente a rifuggirsi a Cafa, ove nel tempo presente i suoi discendenti hanno tutti gli onori reali nella piccola provincia di Ennarea, senza però alcun potere.

La famiglia di Ennarea è detta dai Gallas sovrana di Damat. La razza Damat è numerosissima in tutti questi paesi ed è Amhara. Prima dell’invasione Galla, questi popoli eran tutti seguaci della religione cristiana Etiopica, e le sue tradizioni si sono conservate insino a questi giorni; e se la missione cattolica fosse qui penetrata or sono 30 anni, l’islamismo il quale prese radice in tutti questi piccoli regni dei Gallas, non avrebbe avuto alcun seguace. Per l’opposto nel regno di Cafa, a cagione dell’odio che gli indigeni nutrono pei musulmani, le usanze cristiane sono ancora in vigore, benché sieno deturpate da un gran numero di superstizioni.

P. 262 Estensione del regno. – L’estensione di questo regno, compresovi i deserti che ne fan parte, può misurare dal Sud al Nord circa tre gradi in lunghezza, posti tra il 6 e il 9 grado; e la sua maggior lunghezza può es- [p. 263] sere di tre quarti di grado lunghesso una catena di montagne, quali dividono le acque, che all’Est si gettano nel Gojjeb, o fiume Jub, da quelle che all’Ovest vanno nel Nilo bianco. La superficie geometrica di questo regno è più grande di quella dei cinque regni dei Gallas; il numero de’ suoi abitanti è proporzionatamente grande; ma pure esso è incapace da solo a tener testa a ciascuno di loro. La sua popolazione si compone di un grandissimo numero di resti di diverse nazioni, o razze le quali si dividono in due grandi famiglie, cioè la Kafico, o Cafa /359/ che sono indigeni; e gli Amhara, che è una razza straniera venuta dall’Abissinia, oppure una razza fuggiasca proveniente dal paese di Ennarea, o da qualche altra provincia dell’impero Etiopico. La razza Amhara, che forma la metà del regno, conserva le tradizioni cristiane della Chiesa Etiopica, ne osserva i digiuni e le feste principali; ma vi unisce molte superstizioni.

Incarnazione diabolica. – I Cafici osservano in parte le feste ed i digiuni degli Amhara ed insieme adorano lo spirito Deo-ce sic. Sul nome di questa divinità vedi Memorie 3, 7. Deo-ce, ossia il Diavolo. Dicono che questo spirito s’incarnasse già in una certa famiglia e che il membro in cui risiedeva fosse così il capo della religione del demonio, ed il suo gran pontefice, da cui dipendevano tutti gl’indigeni del paese, i quali lo riverivano come lor capo. Cotesto pontefice dello spirito infernale avea poteri eguali a quelli del re e così si giurava in suo nome, come il re portava l’oro al pugno, aveva l’onore dello sgabello, e le sue rendite superavano quelle stesse del sovrano. Perciò il re attuale, intimorito dell’autorità del capo dei Cafici ne volle abolito il potere; e fece venire a se Monsig. Massaia per opporre il pontefice del Signore a quello del demonio. Quest’eccellente idea, suggerita al certo dall’angelo tutelare del regno, non fu approvata nel consiglio dei ministri, ove fu deciso invece di far incarnare lo spirito infernale nella persona del re, e così fu fatto. L’acciecamento poi del re, da questo istante andò tant’oltre, che essendo caduto un fulmine a breve distanza dal corteo reale, mentre il re viaggiava pe’ suoi stati; sua maestà non solo non s’addiede della divina collera, sufficientemente segnalatagli in questo accidente; ma riconobbe anzi in ciò stesso un chiaro indizio della protezione del Deo-ce. Come poi pochi giorni dopo venne a morire il gran pontefice dello spirito tenebroso, ed il suo figlio erede del potere spirituale e temporale, spedito alla frontiera Sud del regno (vicina al gran deserto), in poco tempo finì per scomparire; il re, col suo consiglio, mandò chiamare a se tutti i Colloas, ossia gl’indovini, che son più di 600. A tal annunzio essi furono presi [p. 264] da grandissimo spavento; poiché correva voce, avessero tutti ad essere strozzati, ma come sua maestà loro fece dichiarare, che il Deo-ce si era incarnato in lui, ed aveva abbandonato l’antica famiglia; tutti di tratto si battevano il petto, baciavano la terra, e dissero amen per aver salva la pelle. E così il re di Cafa diventato Deo-ce cominciò ad esercitare il suo ufficio col perseguitare la razza Amhara e col mostrare il suo odio contro le tradizioni Cristiane. Ora esso è adorato dai suoi sudditi come parte della divinità, e riceve onori divini, ed i suoi sette satelliti (in cui paiono incarnati i sette peccati capitali) rendono il re di Cafa paragonabile all’idra di sette teste, di cui dice la Bibbia.

Sacrifizio. – Le sue occupazioni favorite consistono nel far sacrifizi allo spirito incarnatosi in lui; questi poi si fanno sempre ogni giorno di buon mattino; ed il loro rito consiste in questo, che una parte delle carni si abbandona agli uccelli di preda, che sono (dicono essi) i loro antenati; quindi il re consulta gli intestini della vittima ed il grasso che li circonda per conoscere l’avvenire. /360/ Oltre ai detti sacrifici, che si fanno nell’abitazione reale, ove è l’altare sotto la custodia di una delle mogli del re, che è la gran Sacerdotessa, se ne fanno ancora altri sulla sponda dei fiumi, al piede dei grandi alberi, nelle selve, od in altri luoghi ove si credono abitare gli spiriti infernali. Né di tanto va contento il Deo-ce; poiché oltre ai suoi sacerdoti, ai suoi sacrifizi ed il suo culto, ha ancora le sue vergini. Coloro che hanno parecchie figliuole ne votano una che riman vergine nella casa paterna, cui niuno osa sposare per tema d’essere ucciso dal Deo-ce. Questo culto è in gran venerazione per tutto il paese, epperò tutti offrono vittime ed altre cose, in proporzione dei loro averi, e fanno ancora il Deo-ce erede dei loro averi, e così il re è divenuto ricchissimo, tanto per quel che munge dai sudditi come sovrano, quanto per quello incomparabilmente maggiore, che incassa, come vivente incarnazione del Deo-ce

Forma di governo – Il governo di Cafa non è assoluto come quello dei re Gallas; ma è oligarchico. Il re è assistito da sette consiglieri, che rappresentano le sette grandi famiglie che compongono il regno, e non può far nulla senza il loro consenso, ed il loro potere è tanto che giunsero a balzar facilmente dal trono i re che volevano emanciparsi dalla loro tutela. Al dire dei vecchi questo governo fu già amministrato paternamente, ed allora non esisteva schiavitù, ma i servi coltivavano pacificamente le terre dei loro signori. Oggidì le cose han mutato [p. 265] aspetto; i grandi divorano i piccoli, che vengono tratti in ischiavitù e venduti ai mercanti musulmani. Il governo feudale di questo paese è attualmente il peggiore che esista in questi piccoli regni, e dà luogo a quel flagello che con barbara voce si dice brigantaggio. Nè accade maravigliarsene; poiché ogni dignità è esclusivamente ereditaria nelle antiche famiglie, che sole fruiscono dei beni di tutto il regno; e come avvenne spesso nel nostro medio evo, i servi diventano schiavi, ed i lor figli sono a talento del padrone, venduti come bestie da soma.

Etichetta di corte. – La podestà reale è ereditaria, però non passa necessariamente dal padre al figlio, ma i consiglieri ed i grandi alla morte del re ne eleggono il successore nella sua famiglia. Il re poi è trattato al tutto come un idolo; ed i soli sette consiglieri penetrano ordinariamente alla sua presenza, vestiti di una pelle in forma di tunicella a uso dei diaconi. I loro abiti sono avvoltati alla cintola e seggono sulla nuda terra; e tutti quelli che vanno a palazzo debbono vestire la sudetta pelle, i soli forestieri eccettuati.

Il re si fa raramente vedere in pubblico, e non parla mai da solo cogli stranieri; egli non giudica che le grandi questioni dei grandi, è inacessibile al basso popolo, ed è astretto ad un cerimoniale molto più incomodo di quello dei nostri antichi sovrani.

Esso non può mai mangiare o bere da per se, né fuori delle ore stabilite: il coppiere gli porge il corno senza che egli lo tocchi, e lo scalco ha cura d’imboccarlo come un bimbo, di modo che sua maestà non ha che la fatica di manovrare colle mascelle.

/361/ Il re non può mangiare colle sue spose, né coi suoi figliuoli né coi grandi; e non può mai mangiare che i cibi d’uso in presenza dei suoi uffizioli di servizio. Il cibo suo proviene da alcune terre destinate al regio alimento, ed è preparato da una delle sue spose, designata dal consiglio come cuoca reale. Il consiglio fissa ancora il numero delle coppe che il re può bere e che esso non può oltrepassare, perchè così non si ubbriachi e non uccida i suoi grandi, com’è accaduto talvolta.

Il re non entra mai nell’abitazione delle sue spose, affine di non essere ucciso, siccome talora è accaduto; ma le fa venire nella sua abitazione.

Esse entrandovi debbono cambiar di vestito in presenza degli uffizioli di servizio, i quali debbono assicurarsi ch’esse non nascondano qualche pugnale.

Allorché il re cade ammalato è completamente nelle mani dei [p. 266] suoi uffizioli, ed allora è impossibile di sapere delle sue nuove. Se la malattia presenta qualche pericolo, i gran consiglieri non abbandonano l’abitazione reale, i grandi vengono radunati e tutto è preparato per l’elezione del successore.

Con tutto ciò nulla è mutato nell’etichetta interna; i cibi vengono portati mattina e sera al cospetto del moribondo che deve assaggiarli.

Elezione ed inaugurazione del nuovo re. – Se il re muore non se ne sparge la notizia; ma la sua morte è tenuta segreta, pena la testa, ed il cadavere reale continua a ricevere gli onori reali, allora i consiglieri procedono all’elezione, ed a nome del re fanno incatenare tutti coloro i quali per la loro influenza potrebbero inspirar qualche timore. Talora l’elezione si prolunga per una settimana senza che i sudditi ne abbiano il menomo sentore. Fatta così la scelta, il successore viene quindi scatenato, si fa sedere sul tamburro reale e vien proclamato re in presenza dei grandi.

Ciò fatto, il nuovo re, va a sedere alla porta dell’abitazione reale e riceve il giuramento di fedeltà dai grandi; quindi si procede alla sepoltura del re defunto, il cui cadavere viene avviluppato con tela, arromi e burro, poi chiuso in una cassa. Ogni cosa così preparata, la regal salma vien portata nel paese di Cafa: e siccome nulla si muta della primitiva etichetta, tutto il corteo, e lo stesso re eletto, debbono vestire la rituale tonacella. Il nuovo re deve seguire la cassa funerea, sopra cui l’ombrello reale è ancor portato ad onore; il tamburro precede il corteggio, ed alle stazioni gli uffizioli presentano i cibi al cadavere. La fossa si fa profondissima per distinzione particolare, e vi si pongono oggetti in vetro, tela, burro e provvigioni per alcuni anni pel paese dei morti. Quindi vengono uccisi molti tori il cui sangue si versa sulla fossa e le cui carni vengono abbandonate agli uccelli di preda. Sulla tomba è fabbricata una casa nella quale debbono abitare gli uffizioli del defunto perchè ogni giorno, han obbligo di andarlo a salutare e presentargli il cibo; questi ossequi poi durano un anno intero, e non è che al suo ter- /362/ mine che è dato agli uffiziali del defunto di ritornare alle proprie famiglie.

Il re eletto invece, finita la processione mortuaria ed esaurita ogni prescrizione del cerimoniale riguardo al re defunto, accompagnato dal proprio corteo se ne viene nel paese di Bonga, ove sveste la pelle e piange per tre giorni il suo predecessore. Dopo [p. 267] ciò se ne va (sempre col suo corteo reale), nel paese di Hade, ove dimora un gran dignitario che porta l’oro ed ha il titolo di Colonna reale: costui pone l’oro nel pugno del re, e questi gli fa diversi regali in ischiavi, in terre ecc.

Scettro e corona reale. – Allora la Real colonna domanda al re qual è il suo nome, ed il re s’impone il suo nuovo nome, e poi col piede spinge da se colui che gli ha dato l’oro, in segno di superiorità. I distintivi della podestà reale sono l’oro, lo sgabello e l’ombrello. Lo scettro regale ha la forma di una piccola mazza ed è in avorio, ed il re lo tiene in mano allorché non ha in sua vece una lancia tutta di ferro. Vidi una volta la corona, in occasione di una gran festa, essa ha la forma di un beretto cinese, composto di oro e di argento, ed ha sulla fronte un corno che s’innalza obliquamente ed è mito di forza.

I gran consiglieri portano ancor essi il corno in fronte, ma il loro è solamente in argento o in rame mentre quello del re è in oro. Alla festa della Croce io vidi portare in presenza del re due qualità di stendardi o bandiere quadrate, l’una rossa ed azzurra con sopravi un globo ornato della croce in oro, e l’altra bianca col globo e croce in oro alla sommità dell’asta.

In Cafa sette persone portano l’oro alle dita: ma l’antico re di Ennarea lo porta al pugno, ed ha innoltre il diritto dell’ombrello e dello sgabello, epperciò egli non si trova mai in presenza del suo sovrano, poiché dicesi in questo paese che due ori non possono incontrarsi senza portarsi pregiudizio a vicenda. Gli altri capi delle famiglie che anticamente godevano della podestà reale vanno pure raramente a rendere visita al loro sovrano, ma in tal caso essi non si trovano mai di fronte con lui, essendo ciò vietato dal ceremoniale di corte.

Costumi delle caste principali. – Ho detto altrove che la popolazione del regno era divisa in due grandi razze, la Amhara e la Cafica, differenti in fede e tradizioni; è dunque da sapere, che gli Amhara non mangiano la carne degli animali uccisi da quelli che non sono della loro razza, mentre i Cafica mangiano gli animali uccisi dagli Amhara, ma si astengono da quelli che furono uccisi dai musulmani. Gli Amhara si nutriscono di buoi, montoni, e ancor di polli; ma non mangiano altra sorte di uccelli: essi si cibano ancora di legumi.

I Cafica mangiano i buoi e gli uccelli ma non i montoni né i legumi. Essi si suddividono in un gran numero di piccole caste che si cibano di carni impure d’ogni qualità, persino di quelle degli animali morti per malattia. Gli ultimi nella società di Cafa sono /363/ [p. 268] gli artefici, i fabbri, i falegnami, i tessitori ed i conciatori. Oltre delle dette caste, più o meno onorate, havvi ancora una gran casta misteriosa detta dei Watta, i quali sono come i paria dell’India: essi rassomigliano assai nelle fattezze ai sciangalla, che credo discendenti in linea retta dal figliuolo maledetto da Noè.

In Cafa questa casta dipende completamente dal re; egli dà loro in custodia le porte del regno e loro affida le esecuzioni molto frequenti che si fanno di nascosto ed in luoghi remoti. Il menomo indizio di tradimento è punito colla morte: il re attuale di Cafa fece uccidere in un sol giorno 600 cavalieri; così pure tutta una razza potente venne distrutta, e non si risparmiò la vita neppure ad un sol fanciullo maschio: le sole femmine ebbero salva la vita; ma esse in cambio furono ridotte in schiavitù.

Il watta è come una belva nelle mani del suo padrone; tuttociò ch’egli tocca, eccetto il legno, è considerato come impuro; epperciò non entra nelle case, ma si ferma nei cortili; esso non saluta nessuno, non frequenta la via pubblica e vive separato nelle selve; nessuno può entrare nella sua abitazione o trattenersi con lui senza essere impuro. Questa razza esiste ancora nei regni dei Gallas, ove la sua degradazione è minore; quivi però sono tenuti e considerati come schiavi. Invece presso i Gallas liberi non ve ne sono; poiché colà tutti gli uomini sono considerati come uomini.

In Cafa vi sono usi stranissimi che non si trovano in altri paesi: così ad esempio, allorché un uomo od una donna sono giunti all’età di pubertà, essi non possono più né mangiare né bere da soli; che l’uomo perderebbe la sua casta, e la donna libera sarebbe venduta come schiava se mangiassero senza il loro orecchio. Così ha nome una certa persona, che debbe trovarsi presente quando si cibano; essa poi riceve questo nome da ciò, che per poter servire di testimonio manducatorio, venne toccata all’un degli orecchi coll’oro.

I grandi ed i piccoli hanno tutti il loro orecchio che li accompagna ne’ lor viaggi, ed io né ho veduti di quelli che stavano due giorni continui senza mangiare e senza bere per mancanza dell’orecchio.

Scostumatezza. – Allorché muore un padre, il figlio ne eredita le spose, eccetto la sua madre: esse diventano così le sue proprie spose, lo stesso ha luogo quando il figlio muore prima del padre. Il demonio Asmodeo regna da padrone presso questo popolo; nulla si rispetta a questo riguardo, e quindi il nome di vergine non esiste in [p. 269] questa lingua. Allorché abbiamo tradotto il catechismo siam stati costretti, a ricorrere ad altre lingue per esprimere la voce vergine ed ho ragion di credere, che non esista una sola vergine in tutto il paese. A questa grande scostumatezza è da attribuirsi il carattere pauroso della razza Sidama del paese di Cafa. La poligamia vi è generale, e ciascun uomo ha tante mogli, quante ne può mantenere, senza contare le sue concubine. In corte poi la generale /364/ scostumatezza raggiunge il massimo suo grado. La principale sposa del re attuale fu sposa del suo padre, da cui ebbe un figlio.

I paesi Gallas liberi posson dirsi puri, se si mettono a fronte di queste cloache reali, ove regnano tutti i vizi. La gran scienza del Sidama consiste nel nascondere il suo pensiero, e mascherare i suoi tradimenti sotto l’aspetto dell’amicizia e delle parole melliflue; epperò questo paese potrebbe considerarsi come la Cina dell’Africa tanto pei suoi vizi, che per la sua coltura materiale. Ivi la corruzione fu portata al colmo da poi che sotto l’attuai dominazione i musulmani si impiantarono, si fortificarono e rendettero generale il commercio degli schiavi in queste regioni. I Sidama hanno in orrore i Gallas, cui trattano da barbari; e per timore ch’essi non vengono a discacciarli dai loro monti, circondarono il loro regno con una triplice fossa profonda di dieci piedi, ed altretanti larga, munita d’ogni intorno di fortissime palizzate.

Vicende politiche. – Or sono cento anni il regno di Cafa signoreggiava tutti i paesi Warrata o Dewarro, che gli erano tributarli. Questi paesi constano di quaranta piccoli regni i principali dei quali si chiamano Koullo, Gobo, Kuisca, Konta, Kosca, Walamo ecc; dipoi essi si sono ribellati tutti ed ora hanno il re indipendente.

Verso la parte occidentale del paese di Cafa sonvi i Schangallas-Sourro che abitano le sponde del fiume Barro o Sambat, le cui acque sono biancastre e la cui sorgente trovasi al Sud di Gobo in un lago che si trova a tre giorni di distanza da Kuisca.

Al Nord ovest di Cafa sta il regno di Muccia, paese Sidama che parla la lingua di Cafa. Al Nord stanno alcuni paesi Gallas, Illou-Gaba e Wallaga; ad oriente sono i regni di Gimma, Ghera, Gouma. Il regno di Cafa ha la forma di mezzaluna le cui corna guardano il Sud ed il Nord Est, e divide le acque che si gettano nel Nilo da quelle che vanno nel Gojeb affluente del fiume Iub.

Arrivo del vescovo cattolico. – Monsignor Massaia entrò a Cafa il due ottobre 1859 chiamatovi dal re e dal capo della razza Amhara. La sua entrata fu benedetta da Dio, che la segnalò con una splendida con- [p. 270] versione. Allora tutto si pose in opera per annunziare la parola di Dio, e riformare il culto superstizioso stabilito dai sacerdoti scismatici ed eretici dell’Etiopia che avevano messa ogni cosa sossopra.

Noi trovammo sette chiese, o capanne con questo nome, i cui altari detti tabot non erano che pezzi di legno venuti dall’Etiopia. Gli indigeni credono che il tabot sia un essere misterioso ed invisibile che uccide chi lo vede se non è sacerdote. Questa tradizione deriva certamente dalla dottrina cattolica che l’angelo del Signore custodisce l’altare che gli è affidato. Il culto che si rende a questo tabot è superstizioso e riprovato dalla fede cattolica. Diffatti ai tabot si sacrificano vittime, credendo che il loro sangue piaccia al Santo titolare; quindi si abbrucciano il cuore, il grasso, e le glandule degli animali innanzi alla chiesa, facendo nello stesso tempo varie libazioni di birra. Si offrono ancora ceri ed incensi ai tabot. Per /365/ riformare questo culto abbiam fatto con questi altari di legno (L’Altare portatile di S. Pietro che si conserva in Roma nella Basilica di tal nome è in legno) dei reliquarii, introducendovi reliquie per poterli incensare ed accendervi candele. Monsignore benedì le chiese principali; ma allorché volle abolire l’uso dei sacrifizi la quistione si fece difficile e seria. Poiché noi non potevamo assoggettarci a questi errori senza attirare su di noi la maledizione di Dio; e per altra parte la prudenza ci consigliava d’usare leciti temperamenti; procurammo di prender una via di mezzo.

Opposizioni dei sacerdoti idolatri. – Proponemmo dunque che invece di uccidere gli animali offerti, questi rimanessero in proprietà delle chiese: poiché esse erano poverissime, e non aventi che le quattro mura. Se non fosse stato del gran consigliere del re, capo della razza Amhara (col titolo di Guccirascia) saremmo riusciti; ma siccome costui era gran pontefice degli Amhara e dei sacerdoti scismatici, benché avesse trenta spose; e questi, per tal modo veniva a perdere la sua autorità; però esso non volle che si rovesciasse il culto superstizioso, né che si facessero innovazioni nel culto antico; tanto più che nella sua qualità di padrone delle chiese egli avea diritto alla metà della carne che si immolava.

Allora noi ci opponemmo alle sue pretese facendo notare, che non eravamo venuti a Cafa per uccidere buoi e fare i macellai: che altrimenti avrenvno preferito far ritorno ai Gallas. Cominciate così le opposizioni in segreto, la guerra si fè ben presto aperta. Diffatti il [p. 271] Guccirascia, opponendosi ai nostri insegnamenti, mandò ordine segreto di non abbandonare le spose illegittime, e proibì ai cristiani di portarci i loro bambini pel battesimo.

Gli Amhara che avevano manifestato tanta gioia all’arrivo del Vescovo e che cominciavano a dar buone speranze furono perciò impauriti: poiché il nostro nemico avea molta influenza appresso del re. Noi poi fummo avvertiti in segreto dei suoi passi, e seppimo ch’egli cercava tutti i modi per perdere Monsignore nell’animo del re, insinuando che poteva ben essere un inviato dell’imperatore d’Etiopia Theodros per impadronirsi del regno.

Questa calunnia era ancor sostenuta dai musulmani, i quali dicevano chiaramente essere Monsignore lo zio di Theodros; affine di ben capirne la gravità, è da sapere che l’imperatore Theodros è temutissimo da questa gente, la quale teme sempre che un bel giorno se ne venga a discacciarli dal loro paese.

Dapprincipio non demmo retta a queste dicerie: poi prevedendo la serietà di quanto potrebbe seguirne, Monsignore risolvette di abbandonare Cafa, lasciandovi però due missionari: ma il re ed il capo degli Amhara non vollero acconsentire alla sua partenza.

In questo mezzo sorse una nuova difficoltà riguardo ai funerali. Usano i Cafa di andare sulla tomba di un Amhara, pochi giorni dopo la sua morte, per recitarvi preci e spandervi acqua benedetta; ora è chiaro che noi non potevamo ciò fare rispetto a coloro che non /366/ avevano ricevuto il battesimo; epperò Monsignore ce la vietò con un apposito regolamento.

Siccome però nessuna legge proibisce un tal rito relativamente ai battezzati; così io stesso lo praticai, con molta soddisfazione di sua maestà, nei funerali dello zio del re, convertitosi poco prima della morte. Ciò non di meno in breve tempo non si volle più aver riguardo alle prescrizioni di Monsignore, ed il suddetto regolamento fu posto in non cale.

P. 313 Insidiosa offerta del re. – Frattanto le difficoltà del nostro ministero andavano ogni giorno crescendo: il capo degli Amhara, geloso della nostra influenza, ci attraversava di nascosto i nostri sforzi sia presso gli Amhara, sia presso il re, che ciò non ostante ci sembrava favorevole. Questo implacabile nemico andava spargendo che noi eravamo incirconcisi (ciò che è una grande ingiuria in questo paese) ed istigava contro di noi i musulmani, i quali ognora andavano ripetendo, che noi volevamo impadronirsi del paese. Allora Monsignore si preparò a partire; ma il re lo mandò pregare di voler ancor rimanere, promettendo di aggiustare egli stesso ogni cosa; e per dare peso alle sue promesse, indusse a far visita a Monsignore tutti i suoi gran consiglieri, ciò che è un grande onore nel paese.

Contuttociò noi abbiamo facilmente potuto vedere che una tal visita non avea altro scopo che di tenderci insidie; poiché non si ridusse ad altro che a richiedere da noi, in nome del re, sufficienti armi da fuoco per distrurre i nemici del regno, ed a farci mille vane promesse. Perciò Monsignore chiese la facoltà di potersi presentare in persona al re, per dar sesto alle cose della missione e far ritorno ai Gallas. Dopo molte difficoltà la visita ebbe luogo; ma il re si tenne in fondo della sala di ricevimento per timore che il Vescovo lo guardasse di mal occhio. Questa era la seconda volta che Monsignore si trovava al cospetto del re. In tale visita Monsignore gli espose lo scopo meramente spirituale della missione sua e di quella dei suoi sacerdoti, facendo notare a sua maestà qualmente aveva acconsentito a venir a Cafa nella speranza di far udire la sua voce a questi paesi anticamente cristiani; ma che per le difficoltà suscitategli dopo il suo arrivo, egli preferiva ritornare presso i Gallas, lasciando nella missione due preti; fra i quali io era designato. Il re rispose con molte belle promesse, assicurandolo che tutto si aggiusterebbe per bene e pregandolo a non abbandonare il paese.

Però si convenne, che ci sarebbe stata costrutta una chiesa e che sarebbeci fornito del grano pel nostro cibo, poiché gli abitanti non [p. 314] usano che radici di una gran felce che gli stranieri non possono digerire. Allora il Vescovo, sperando che la missione avrebbe preso un aspetto più favorevole, differì la sua partenza e mi spedì dal re per portargli in regalo una vecchia pistola, che aveva meco portato d’Europa, e due belle pianelle d’argento, venute dall’Abissinia e provvedute appositamente. Vidi allora il viso del re, che è di color olivastro con grandi occhi, che sono il segno distintivo della /367/ razza Sidama. Io caricai e scaricai la pistola in presenza di sua maestà, che ne fece le grandi meraviglie e m’interrogò sullo scopo della nostra venuta in questi paesi.

Scorgendo quali radici avessero gittate nell’animo del re i sospetti calunniosi seminati sul conto nostro, assicurai sua maestà, che l’unico scopo della nostra venuta era la salvezza eterna delle loro anime; e per dar peso alle mie parole in cosa sì grave, non dubitai di attestargliela con un solenne giuramento. Allora egli mi disse che riconosceva la falsità delle calunnie apposteci dai musulmani: poi soggiunse: «Dio perda la razza infame dei musulmani» mi fece poi molte promesse in favore del Vescovo e della missione e mi ordinò di ritornare fra due giorni per ricevere il regalo ch’egli destinava a Monsignore. Tutto questo però a nulla valse, anzi si cominciò a sollecitare i nostri giovani sacerdoti indigeni a rinnovare il concubinaggio usato dai preti scismatici; ed alcuni schiavi ci rivelarono che il re aveva tentato di farci rubare gli averi della missione; perciò fu deciso che la maggior parte dei missionari avrebbero abbandonato Cafa per far ritorno presso i Gallas. Infatti partiva dapprima un giovane missionario indigeno; l’uscita dal regno gli fu contestata (il re l’accordò di poi forzatamente); poco tempo dopo, Monsignore mi mandò nel paese di Ghera per celebrarvi la Pasqua. Or mentre uscivo fui creduto essere il Vescovo stesso, ed allora un centinaio di cavalieri venne a chiudermi il passo, per cui dovetti tornare indietro e provare al re l’identità della mia persona, anzi di poter uscire.

Tuttociò valse a provarci che eravamo tutti prigionieri in Cafa, e particolarmente Monsignore, il quale per cotesto non poteva più sorvegliare e dirigere la missione dei Gallas. Allora mi adoperai presso il re di Ghera nostro amico, perchè ottenesse al Vicario Apostolico la permissione di uscire da Cafa; ma i miei maneggi furono inutili, poiché il re sperando ottenere in matrimonio una figliuola del re di Cafa, non voleva contradirlo in cosa che fosse.

Nuovo mezzo di schiavitù. – In questo mezzo, cioè prima della [p. 315] mia partenza da Cafa, si era inventato un tristo spediente per ridurre in ischiavitù coloro che davan molestia ai governanti.

Ecco come andò la cosa: Venne pubblicata una legge che ordinava di fare un’esatta ricerca di tutti gli autori di qualche malefizio. Quelli che erano accusati di essere stregoni, venivano catturati, ed un indovino coll’oro al pugno lor faceva bere un liquido inebriante che li faceva uscir di mente e ciò bastava a convincerli rei.

Ciò fatto, i loro beni erano confiscati a profitto del regio tesoro, e le loro famiglie venivano ridotte in ischiavitù, siccome avvenne a molti Amhara. Ciò non di meno quelli che facevano regali all’indovino uscivano sani e salvi dalla prova. Siccome cotesta era una novità, stante che prima di questa legge, per esser dichiarati innocenti, bastava giurare di non esser malefici pel nome di S. Giorgio; gli Amhara ricorsero alla protezione del Vescovo, ed io stesso mi recai dal Capo degli Amhara per fargli udir ragione. Allora questi /368/ mi domandò con bambinesca semplicità, se veramente i malefici non esistevano: fidato nella sua apparente buona fede, io gli dissi chiaramente, che ciò non era altro che un inganno per fare schiavi i deboli e spogliargli d’ogni loro avere, egli allora con un sorriso satanico riprese: «Ciò è vero, ma chi oserà far conoscere al re una tal verità» gli risposi che io stesso l’avrei fatto; ma egli soggiunse: «Sarà meglio farlo più tardi; per ora dite nulla» ciò disse per avere il tempo di far avvertito il re, giacché abbiamo saputo che il galantuomo era stato uno dei consiglieri di questa infame legge per servirsene contro il Vescovo.

Difatti non andò molto, che furono messi in accusa i nostri stessi domestici battezzati, ed il Vescovo avendone fatto doglianze al re, costui mandò una persona di Corte, apportatrice della sua risposta colla quale ordinava di far bere il liquore suddetto a tutti gli accusati.

Persecuzione mossa ai missionari. – Monsignore a tal punto raccomandò a Dio il pastore ed il suo gregge ed animò i suoi sacerdoti a soffrire ogni cosa per Gesù Cristo; vide infatti esser giunto il tempo in cui a Lui ed al suo gregge si poteva applicare letteralmente il detto della Scrittura: «percutiam pastorem et dispergentur oves

E le sue previsioni erano purtroppo vere; poiché da tre mesi si macchinava a Cafa la deportazione del Vescovo. Dapprima fu interpellato il re di Ghera, che si trova all’est di Gimma Galla, annunziandogli che gli sarebbe inviato un prete ricalcitrante, che seminava il disordine nel paese, perchè egli lo facesse perdere verso il Sud. Questo re si rifiutò. Allora si fé sapere al re di Ghera, che il Vescovo [p. 316] gli sarebbe inviato, ma per farlo passare nel regno di Gouma, il cui re lo avrebbe gettato fra i Gallas feroci che l’ucciderebbero. Il re di Ghera rispose, che il Vescovo era suo amico e che egli non avrebbe preso parte a questo delitto.

Veduti riuscir vani questi tentativi, la domenica dopo l’ottava dell’Assunzione dell’anno 1861, il re fece venire a se due dei nostri preti indigeni, i quali appena entrati nell’abitazione reale furono messi sotto custodia. All’indomani di buon mattino (il 26 d’agosto) tutti i grandi furono riuniti e spediti dal re per impadronirsi del Vescovo e deportarlo presso i Gallas. Furono dapprima legati i suoi domestici, i fanciulli ed un prete indigeno; poi l’inviato del re si presentò al vescovo che usciva dalla cappella e gli disse: «Il re vi fa dire di uscir dal paese e ritornare in quello d’onde veniste, poiché gl’indovini hanno dichiarato che voi ci portate pregiudizio.» Ciò che aveva dato luogo al consulto degl’indovini ed all’ordine imprevisto di abbandonar Cafa fu il fatto seguente. Una serva Gallas avendo ucciso un cane errante, lo gettò in un buco, ove venne rinvenuto dagli schiavi del re che ci sorvegliavano. Questo cane da loro portato a sua maestà, il timido e superstizioso monarca consultò subito gli indovini, i quali dichiararono esser quel cane un farmaco nascosto dal Vescovo per venire al potere e per dare maggior peso al detto, /369/ soggiunsero che dopo Ventrata del Vescovo gli spiriti non parlavano più per loro bocca e gli oracoli si erano ammutoliti; che però egli stesso avrebbe perduto lo spirito Deo-ce ed il suo oro, se il Vescovo non fosse uscito subito dal paese, ed il cane non fossegli portato dietro e gettato nel fiume Gojeb (abbiamo di poi saputo che il loro scopo era d’impadronirsi dei vasi sacri, far apostatare i nostri sacerdoti ecc.). Monsignore adunque preso così alla sprovvista non potè neppure entrare nella sua capanna per vestirsi; ma dovette partire subito quale si trovava, ed ebbe solo la permissione di condur seco i suoi domestici Galla che venendo in questo regno l’aveano accompagnato; intanto gli fu promesso che gli sarebbero poi mandati i suoi preti ed ogni sua cosa, secondo che ne aveva fatta richiesta; né a lui solo si fece larga parte nella persecuzione; ma furono crudelmente maltrattati coloro che vollero dargli un semplice saluto; ed appena partito, fu immolato nel luogo ove egli dormiva un montone affine di purificare lo spirito tutelare del luogo. Allorché Monsignore vide che si prendeva la direzione dei paesi Gallas, ringraziò il Signore di poter finalmente uscir da Cafa, e gli raccomandò i suoi sacerdoti ed i pochi cristiani che vi aveva stabilito durante i due anni di sua residenza.

P. 317 Deportazione del Vescovo. – Il povero vecchio fu condotto di notte e di giorno come un prigioniero di stato, benché le strade fossero orribili e fangose per causa delle grandi pioggie, che in tal tempo sogliono cadere. Ver riposarsi il primo giorno gli fu assegnata la casa di paria, a somiglianza del Divino maestro il quale → Marco 15:28 cf. Isaia 53:12 reputatus est cum iniquis. Ivi il re di Cafa gli fece rimettere come viatico per Vesilio alcuni pani ed un fiasco d’idromele. L’indomani si riprese il cammino, ma senza seguire la via ordinaria; e cammin facendo si immolava di tratto in tratto un gran numero di vittime, la cui carne era abbandonata sulla via ed il sangue serviva ai sacerdoti del demonio per fare certi segni sugli alberi e sulle pietre, a fine di annullare i malefizi, che Monsignor avrebbe potuto gittare sul paese.

Intanto i paria portavano dietro a Monsignore quel cane morto, che era stato la causa inconsapevole di tutta questa tragedia. Appena si giunse al fiume Gojeb, il cane vi fu gettato dentro, ed i sacerdoti immolarono una capra nera, le cui carni furono pure gettate nel fiume, ed il sangue servì a far segni misteriosi sul ponte. Di poi la carovana si diresse verso il regno di Gimma; alle cui porte Monsignore dovette sostare per otto interi giorni; imperocché questo re, non volendo inimicarsi i re Galla, amici di Monsignore, si ricusò di spedirlo nel regno di Garo, ove volevano condurlo quei di Cafa.

Però preso tempo a deliberare, finalmente gli fece conoscere, che gli permetteva di attraversare segretamente il suo regno. Allora il Vescovo venne condotto nel paese di Limou, il cui vecchio re Abba Baghibo era suo grande amico, anzi era quello, che dietro domanda avutane l’aveva spedito a Cafa.

/370/ Io non fui avvertito di tutto ciò se non tre giorni dopo la partenza di Monsignore; ed intanto sul suo conto e su quello dei suoi correvano voci diversissime: chi diceva che era stato gittato nel fiume, altri che era stato esigliato nei paesi del Sud; e poi che alcuni dei nostri sacerdoti aveano apostatato, ecc.

Costernato da questi annunzi, mi gittai ai piedi del re di Gimma, perchè mandasse alla ricerca del mio Vescovo; ma non avendone ottenute che belle promesse, domandai la permissione di andare a Limou per raccomandare la nostra causa a quel re, nostro amico Abba Baghibo, che già sapeva tutto, mi promise di fare tutto il suo possibile in favore del Vescovo; quand’ecco mentre io disponeva la partenza degl’inviati pel regno di Gimma, l’indomani della festa della Natività di Maria, ebbi l’inneffabile consolazione di poter abbracciare il mio povero Vescovo, e riceverlo a Limou nella piccola missione custodita [p. 318] da un giovine sacerdote indigeno, lasciatovi da Monsignor Coccino, il quale, benché ivi avesse sua residenza, allora ne era assente e trovavasi in Lag-Amhara Gimma, paese indipendente e libero.

P. 424 Inutile tentativo di far prevaricare i missionari. – Intanto da alcuni dei nostri, venuti da Cafa dopo la partenza di Monsignore, abbiamo saputo che il re ed il capo degli Amhara avevano vivamente sollecitato i nostri tre sacerdoti indigeni a pigliar moglie, promettendo loro terre e schiavi; come pure li avevano invitati ad appropriarsi la roba dell’Abuna. Essi risposero coraggiosamente, che preferivano la morte, anziché tradire la fede data a Dio, ed al proprio Vescovo: però due di questi sacerdoti furono ritenuti come prigionieri nell’abitazione reale; il terzo, cioè il padre Hailou Michael, che stabilito da Monsignore qual superiore della Missione, ne occupava l’antica dimora, fu posto sotto forte custodia.

I musulmani poi avendo sparsa la voce, che la nostra casa era piena di oro, di argento e di armi, il capo degli Amhara (diventatone di nuovo il gran Pontefice) venne a farci la visita con molti uffizioli; ma ne rimasero scornati, poiché non rinvennero che abiti sacri e libri.

I nostri poveri sacerdoti, così catturati, si aspettavano la morte da un momento all’altro, e pregavano Iddio volesse far loro la grazia di spargere il sangue per la sua santa causa; ma il paese di Cafa non era degno d’essere asperso del sangue dei martiri. Il re di Cafa mandò ancora a sollecitare all’apostasia un giovine sacerdote che stava [p. 425] nel regno di Ghera, ma ne ottenne la stessa risposta data dagli altri. Vedendosi così deluso nelle sue speranze di seduzione, spedì un’ambasciata a Monsignor Massaia per domandargli perdono di averlo esigliato, per ottenerne dei sacerdoti, e fargli dire: «Abbiamo avuto paura di voi, epperciò vi abbiamo cacciato; ma, di grazia, non malediteci, benediteci anzi, e mandateci sacerdoti affinchè ci benedicano, ricevano le nostre candele ed abbrucino l’incenso nelle chiese.»

/371/ Questa ambasciata giunse il dì 14 settembre, giorno della santa Croce in cui ebbe luogo la visita di Monsignore al vecchio re Abba Baghibo. Giunto che fu Monsignore e l’ambasciata a lui diretta, al cospetto del re, questi rivolgendosi con molta amorevolezza al Vescovo gli disse: «Pover uomo, ve lo aveva ben detto: non andate a Cafa, noi altri Galla, siamo migliori di loro»; poi guatando fieremente gli ambasciatori di Cafa, loro disse: «Perchè avete cacciato il Vescovo che a vostra richiesta vi ho spedito?» Essi risposero: «Abbiamo avuto paura del suo oro.» Ma il re riprese: «Sapete bene, ch’egli porta l’oro, e così avete cacciato come un cane lo straniero che vi ho mandato con grandi onori, avete incatenati i suoi sacerdoti e prese le loro sostanze, quest’ingiuria è fatta a me; mi riputava felice di ritenere presso di me un tal uomo, ed egli andò a Cafa affidato sulla mia parola; ora speditemi i suoi sacerdoti e le sue sostanze se volete conservare la mia amicizia.» Allora gli altri presero la parola portando le scuse e la domanda dei sacerdoti; il re si mise a ridere e disse: «La gallina volle un dì farsi simile all’aquila, andò da Dio e gli disse: "Signore, datemi altre ali". Iddio rispose: "Tieni quelle che hai": tale è la storia di Cafa; intanto speditemi tutte le sostanze del Vescovo ed i suoi sacerdoti, ed io vi riconciglierò con lui». Speravamo così colla protezione di questo re, poter vincer la lotta dei musulmani contro di noi, la quale è fiera anche in Limou, ma Dio disponeva diversamente.

Nuovo Salomone abissino. – Or facciamo una digressione sul vecchio re Abba Baghibo, l’amico degli Europei. La sua famiglia di nome Sapera, pare portoghese; essa regnava da lungo tempo su di un piccolo paese chiamato Sapa, e dal suo seno uscì il padre del nostro Baghibo, detto Abba Ghemal che fu principe prudentissimo e di cui si raccontano i giudizi seguenti:

Due asine avendo partorito contemporaneamente, accadde che uno degli asinelli venne a morire pochi giorni dopo; i padroni di questi animali disputavano sulla proprietà dell’asinelio vivo, poiché ciascuno [p. 426] pretendeva che quello morto non fosse il suo. Il re allora ordinò che l’asinelio vivo fosse posto in una fossa di difficile accesso, poi fé’ avvicinare le due asine; ciò fatto, eccoti che la vera madre si precipitò nel fosso per allattare il suo somarello, e die a vedere di chi fosse il parto.

Avvenne un’altro dì che un uomo, il quale stava su di un albero, uccidesse, cadendo, un suo compagno, i parenti del quale da lui volevano ad ogni costo il prezzo del sangue sparso. Allora l’omicida involontario ricorse al re, il quale ordinò che esso avesse a morire della stessa morte del suo compagno; ponendosi cioè sotto un albero, dalla cima del quale si sarebbero poi gettati i parenti del defunto; ma questi non osarono tentar la prova, e così l’innocente fu salvo, con satisfazione degli stessi suoi nemici.

Delitti atroci per salire al trono. – Da questo Salomone dei Galla nacque Abba Baghibo, e ricevette alla sua nascita i nomi di Luce e di Leone datigli dal padre e dalla madre; la quale era figlia /372/ dell’ultimo re di Limou, di famiglia Sigaro, d’origine portoghese. A venti anni appena, impaziente di regnare, coll’aiuto di alcuni schiavi e partigiani, si ribellò al proprio padre, gli tolse l’oro e gli disse: «Padre mio, voi siete vecchio, riposatevi in pace, mangiate e bevete, ed io regnerò per voi». E così s’impadronì del regno. Consolidatosi alquanto nell’usurpato potere, e poste in assetto di guerra le sue truppe, domandò licenza al suo Suocero di traversare col suo esercito il regno di Limou, a fine (come fingeva) di portar le sue armi contro i Nono. Ottenutala, se ne venne difilato al proprio palazzo del Suocero, vi appiccò d’ogni banda il fuoco, uccise i suoi servi fedeli, s’impadronì della sua persona, ed allo antico suo stato di Saka unì quello di Limou, e così diede cominciamento al regno di Limou Ennarea. Ne qui ristettero le sue conquiste; ma guerreggiando continuamente, questo giovane ed audace soldato si allargò ancora i suoi stati a spese dei suoi vicini gli Agallos, i Nono e gli Illaba. Affinchè poi non si coalizzassero contro di lui, usò di scaltre combinazioni politiche con cui potè signoreggiare i suoi vicini, tenendoli divisi fra di loro. Riuscite così le sue conquiste pensò di arricchire il suo stato col commercio, di cui appena in questi paesi si conosceva il nome. Però mandò regali al re del Gojam perchè gli spedisse dei mercanti, aprì parecchie strade e fece del suo paese il gran mercato dei paesi Galla. Per tal modo, rese agiato il popolo a se soggetto e ammassò lui stesso molti denari collo spedire carovane mercantili sin presso i re Warrata Gobo, distantissimi dal suo stato. Né di ciò pago promosse ancora lo svi- [p. 427] luppo dell’industria e delle belle arti; innalzò case in legno ed in terra, fra cui bellissima è la sua abitazione, notevole per molto buon gusto e buona architettura, incoraggiò l’arte del tessere, per cui si poterono sostituire alle pelli, non sempre adatte o facili a trovarsi, delle grosse tele utilissime in queste regioni. Ciò non di meno queste ed altre simili doti dell’eroe dei Galla, erano deturpate da molti e gravi difetti. La sua collera era cieca e furibonda; epperò versò molto sangue innocente, non risparmiando neppure i membri della sua famiglia; la sua lubricità era tale, che egli non rispettava neanco le sue figliuole (ecco come sono i migliori fra i re pagani!) ebbe fino a 20 spose senza contar le concubine, che erano più di 100, per cui non è maraviglia che avesse 20 figli, tutti buoni cavalieri.

Quando Abba Baghibo giunse alla vecchiaia, Iddio lo punì di quanto aveva fatto a suo padre; imperocché uno dei suoi figli, a cui esso aveva dato l’oro, cioè avea eletto per suo successore e compagno nel regno, tentò più volte di ucciderlo.

Una volta questo figlio snaturato soffocò una delle spose paterne per immergere il proprio padre in un’alto cordoglio. Un’altra volta nel sito ove il re dovea sedere fece scavare una gran fossa, con cui ricoprì di rami e di erbe per nascondere le acute lancie che sotto stavanvi e che doveano configgere il re, appena fossesi assiso sul reale sgabello. Però Abba Baghibo, veniva avvisato in tempo, non vi andò e fece gettar nel fiume Dedesa, legato insieme ad un cane, il /373/ dervis musulmano che aveva consigliata quest’infame azione, e che di più aveva fatto gettare nello stesso fiume la donna incinta di un servo che era a parte del secreto, cui pure avean fatto togliere la vita. Quindi il re fatto venire a se lo sciagurato figlio, gli pose il pugnale alla gola ordinandogli di rendergli il suo oro, di poi strappatogli l’oro dal pugno per mano dei suoi schiavi, gli rimproverò la sua nera ingratitudine inverso di se, e l’enorme quantità di omicidi che aveva commessi da che era salito al trono, e lo mandò incatenato nella prigione obbrobriosa degli schiavi.

Origine della missione cattolica. – A quest’epoca già esisteva la missione cattolica, ed il re si persuase, che era dovuto alla presenza dell’altare (tabot) l’aver potuto scampare dalla morte preparatagli dal figlio.

Perciò prese ad amare e proteggere gli Europei, di cui aveva già concepito un’alta stima, quando il Signore Antoine d’Abbadie, viaggiatore francese, visitò questo paese nel 1842 e 1843. Poiché qui cade in acconcio, è da sapere che fu appunto in seguito alla relazione di questo dotto viaggiatore, che la S. Sede mandò la missione per evangelizzare questi popoli; e fu allora che Monsignor Massaia [p. 428] venuto nel Goudrou nel maggio del 1853 si mise in relazione con Abba Baghibo. Questi contento dell’arrivo di nuovi Europei, mandò pregare Monsignore, che volesse venire nel suo paese, e spedì molti regali ai grandi dei dintorni, perchè agevolassero il cammino ai due sacerdoti che Monsignor bramava spedire a Limou: così i padri Cesare e Felicissimo giunsero accettissimi nell’aprile del 1854. Il re certamente avrebbe preferito che fossero stati militari od artisti; tuttavia fece loro buona accoglienza; anzi non permise loro d’andar a casa dove eran diretti; ma li volle presso di sé; epperò fece loro fabbricare la casa, tutta a spese sue. Così fu stabilita la Missione di Limou, ove vi erano anche degli Amhara. Il re poi loro ripeteva soventi, che se fossero giunti 15 anni prima, egli si sarebbe fatto cristiano, ma che essendosi già fatto musulmano, non conveniva mutar di nuovo religione. Tuttavia esso non era fervente nella sua fede, e non cominciò che nella sua vecchiaia a compiere le abluzioni e le preghiere; contuttociò non volle mai acconsentire agli sforzi che fecero i musulmani per far cacciare la missione cattolica, perchè dicea: che l’altare è la salute del trono.

Anzi come seppe il modo con cui quei di Cafa aveano trattato il nostro Vescovo, toccò la terra colla sua mano, e fece fare lo stesso giuramento ai suoi figli, dicendo: «Sono innocente di questo delitto». Epperò fu contentissimo di rivedere Monsignor Massaia.

Morte repentina del re. – Per questo noi speravamo che colla sua protezione le cose di Cafa si sarebbero aggiustate; egli morì repentinamente il 26 settembre dopo tre soli giorni di malattia.

Prima però di morire egli si ricordò ancora di noi; poi avendo chiamato a se uno dei suoi figli per dargli l’oro e farlo suo successore dopo alcuni avvisi relativi al governo, gli disse: «Pensa all’affare dei preti che sono miei amici e miei stranieri, fa venir da Cafa /374/ le loro sostanze, e se non vorranno rimanere in questo paese rimandali con onore, e pensa alla mia riputazione». E pochi giorni prima della sua morte egli ci aveva detto: «In questo paese vi ha gente che non vi ama, e vi vuol male, ma non temete finché vivrò, e dopo di me, Iddio vi proteggerà». Fummo adunque afflittissimi per questa morte inaspettata, poiché non avevamo altro protettore in questo paese ove i Foukaras maomettani sono così potenti.

Questa era la seconda volta, che io vedeva questo re; il quale nel mio passaggio a Limou nel 1860 non avendomi conceduto l’uscita dal suo regno per le calunnie dei musulmani, io ne partii di nascosto mentre egli era ammalato; perciò esso non solo ne conservava la [p. 429] memoria, ma al mio ritorno non solo non si mostrò offeso; ma per contro mi ricevette benissimo.

Il dì dopo la morte del re, tutti furono presi da gran timore e costernazione; poiché, stante la giovinezza ed inesperienza del nuovo re, si temeva che avesse a scoppiare la guerra civile; ma come a Dio piacque, il nuovo re seppe spiegare all’uopo e fermezza e prudenza sufficienti a contener tutti nel dovere, senza dar occasione a nissun tumulto. Immolò dapprima un toro, nel cui sangue immerse l’oro di suo padre, che pose in suo pugno; poi fece innalzare una capanna, ove andò a piangere la morte di suo padre ed a ricevere l’omaggio dai suoi sudditi, e così mostrò al suo popolo, che voleva governarli come continuatore della politica savia ed illuminata di suo padre; il che gli valse le simpatie della massima parte della sua gente. Allora io andai con Monsignore a fargli visita; e siccome è uso in questo regno di presentar in tal circostanza al sindaco un pugno di erbe verdi ciò che significa: «siate come quest’erba», allorché Monsignor gli presentò l’erba, il re si alzò un poco dal suo sgabello, e gli baciò la mano; poi ci mandò dire che non cambierebbe in nulla la politica di suo padre e che sarebbe sempre nostro fedele amico.

I re vicini ancor essi mandarono deputazioni per piangere sulla tomba di suo padre. Coteste deputazioni sono accompagnate da regali in caffé ed in buoi, che servono pei numerosi conviti funebri, in cui i Foukaras musulmani, molto hanno di che fare; poiché dicono che l’anima del defunto entra certamente in paradiso, se essi sono ben pasciuti ed i conviti sono numerosi; così le esequie dei grandi duravano ordinariamente 40 giorni, davanti i quali ogni due o tre giorni, secondo la fortuna del defunto, han luogo i sacrifizi ed i conviti. Nel regno di Limou anche i Falchi hanno parte a questi banchetti. Abba Baghibo nutriva, ogni dì, questi uccellacci colle proprie mani; e talora immolava in loro onore dei tori, che loro abbandonava intieramente. Si dice ancora che egli adorasse un gran Falco, al collo del quale aveva appeso un campanello, e che rendeva gli stessi onori ad un toro bianco, senza che i Foukaras s’inquietassero di questi peccatuzzi. Di qui si vede, che la necessità di una religione è così potente, che colui che non ne ha, se ne fabbrica una a suo modo.

/375/ Buone disposizioni del successore. – Allorché la deputazione di Cafa, venuta ai funerali, prese licenza di ritornare, io fui chiamato per esser testimonio delle parole del nuovo re a quello di Cafa: disse adunque agli Ambasciatori, ch’egli non variava la politica di suo padre riguardo a loro, come pure relativamente all’affare del Vescovo e dei preti.

P. 430 Queste parole rapportate a Cafa, produssero la liberazione di due dei nostri sacerdoti e la spedizione di una parte delle nostre sostanze. Per agevolare questi risultati io abbandonai il mio buon Vescovo nei primi giorni di novembre e ritornai a Ghera a fine di sollecitare l’appoggio di quel monarca nostro amico; ma non avendo nessun regalo a fare, potei soltanto ottenere di far sortire il sacerdote indigeno che colà si trovava.

Ciò feci perchè temeva che il re di Ghera, cedendo alle maligne sollecitazioni di quel di Cafa, glielo spedissero prigioniero. Intanto il re di Cafa, non essendo riuscito a far apostatare i nostri preti, anzi essendo stato costretto a porli in libertà per paura del re di Limou, diede ad essi licenza di obbedire agli ordini del proprio Vescovo, dicendo che loro manderebbe un’ambasciata all’Abouna per far la pace. E difatto ne spedì una, composta di nostri antichi domestici ed alcuni musulmani, nostri nemici; questi ci portarono una parte delle nostre robe, e domandarono al vescovo la pace, ed un suo ordine ai suoi sacerdoti, che li facesse rimanere a Cafa.

Questa pace fu fatta in presenza del re di Limou; Monsignore consentì a lasciare sino a nuova sua disposizione un sacerdote in Cafa, ordinando agli altri due di venir presto a raggiungerlo; poi promise loro di spedire altri, qualora nel seguito esso avesse veduto che i suoi ordini erano rispettati ed il paese avesse seguito i precetti della religione cristiana.

Fece inoltre dire al re di Cafa, per mezzo di uno dei nostri cristiani, il quale era membro dell’ambasciata, che l’invio dei musulmani non era buon segno di una sincera pace, che pur si diceva esser tanto desiderata.

Iterata carcerazione dei missionari. – Né andò errato, imperocché indi a non molto siam venuti in cognizione, che questi inviati avevano consigliato al re di Limou di cacciare nuovamente Monsignore; e che le loro calunnie furono la vera cagione degli avvenimenti di cui parleremo a suo luogo. Ora ecco ciò che era accaduto a Cafa durante questo tempo. I due nostri preti indigeni Abba Ioannes e Jacob, dopo due mesi di prigionia e di sollecitazioni all’apostasia furono posti in libertà; ma temendo essi col tempo di lasciarsi pervertire, fuggirono dal regno travestiti da pezzenti, affine di potere senza difficoltà oltrepassare il triplo fosso e le guardie che lo custodivano. Riuscito felicemente il primo tentativo, passarono il fiume Gojeb ed entrarono nel deserto di Ghera; e come giunsero alle porte di questo regno, rotti per la fatica, entrarono in una capanna di cacciatori per [p. 431] passarvi la notte. Quivi una delle squadriglie di cavalieri musulmani, che il re di Cafa aveva mandati per /376/ ricercarli in tutte le direzioni, li sorprese in mezzo ad una carovana di Gallas e li riconobbe al chiaror del fuoco; vennero perciò incatenati ed attaccati alle code dei cavalli; ed un cristiano che li accompagnava fu assai maltrattato e quasi ucciso; ma poiché era un Gallas fu lasciato libero.

Siccome a Cafa la persona del sacerdote è tenuta, secondo le tradizioni, tanto sacra quanto quella del re, non è a dire l’impressione che produsse in quel paese l’arrivo di tai prigionieri condotti e trattati a guisa di mascalzoni. Toccavano tutti con mano la terra, portandone alla bocca, in segno d’imprecazione, e per prendere Iddio come testimonio, che non volevano prender parte a questo grande delitto. Essi vennero così condotti alla presenza del re, il quale finse di esserne stupito e dolente; anzi loro domandò più volte, se eran veramente essi quei che egli vedeva in quello stato miserando; ed udito che sì, prendeva Dio a testimonio della loro innocenza in tutto cotesto affare. Poi per meglio colorire la sua impostura, ordinò tosto che fossero scatenati e rampognò acremente i musulmani; poscia rivolto ai sacerdoti: «Perchè, disse loro, avete provocato una simile maledizione sul nostro paese, fuggendo con queste vesti?» Essi risposero: «Voi avete cacciato il nostro Vescovo e padre nel modo più infame, ci avete imprigionati, ed avete usato ogni mezzo per sedurci, e poi cercate da noi perchè siamo fuggiti? Sappiate adunque che noi non abbiamo nulla di comune col vostro paese, poiché voi non siete cristiani e non volete esserlo. Uccideteci se vi piace, ma noi non ubbidiremo mai ai vostri ordini; bacieremo il coltello che ci strozzerà, ma la vostra potenza si limiterà ai nostri corpi, e non potrà mai aver azione sulla nostra anima». Il re, uso soltanto alle adulazioni dei cortigiani, restò scosso fortemente da questi liberi detti ed esclamò: «La parola di Dio vince ogni cosa! è meglio far la sua volontà, anziché quella degli uomini; rimanete pure nel nostro paese ed obbedite insieme agli ordini del vostro Vescovo.» Ma essi risposero: «Il Vescovo ci chiamò presso di se, se egli ci rimanderà, noi ritorneremo; e se voi non ci lasciate partire, noi fuggiremo di nuovo.» «E chi è dunque il Vescovo, riprese il re, è forse un Dio per voi, poiché non potete far nulla senza i suoi ordini?» Essi ripresero: «Sì, egli tiene le veci di Dio, e chi disprezza la sua parola, disprezza quella di Dio». Finalmente dopo altri tentativi di seduzione, che essi sempre spuntavano coll’offerirsi alla [p. 432] morte, il re, scorgendosi vinto, pensò meglio di venire ad equi patti; epperò permise la partenza dei sacerdoti accennati, ritenendo solo il padre Hailou. Essi acconsentirono a questo accordo, e così ne’ primi giorni di dicembre giunsero sani e salvi a Ghera.

Ritornando ora a Monsignor Massaia: esso non si trovava bene a Limou, ove temeva l’influenza dei musulmani; epperò desiderava recarsi a Lag-Amhara; ma non ottenendo la permissione della partenza, che gli era differita da un giorno all’altro, avea l’intenzione di venire intanto a visitare la missione di Ghera, che egli stesso avea fondata.

/377/ Il re di Ghera, saputo la cosa, n’era lietissimo e ne faceva gran festa; anzi si preparava ad andarlo ricevere in persona allorché accaddero altri sconcerti.

Eccone il come: il 30 novembre moriva a Limou la prima sposa del nuovo re, ed all’indomani Monsignore si recò secondo l’uso, all’abitazione reale per fare la consueta visita; epperciò entrò di buon mattino nella capanna del pianto. Il re non essendovi ancora entrato egli gli mandò il suo saluto per bocca di un eunuco e si ritirò: ma poco tempo dopo la capanna essendo stata invasa dalle formiche nere, la cosa venne riferita al re, mentre si trovava circondato dai foukaras musulmani. Allora costoro approfittarono dell’occasione per calunniare Monsignore; indi proposero di impadronirsi delle sue sostanze e massacrarlo nel deserto. Perciò il re fece immediatamente chiamare a se il Vescovo, il quale non sapendo quel che da lui si volesse si presentò accompagnato dal giovane sacerdote indigeno Abba Matheos. Dopo aver lungamente aspettato in mezzo alla folla, il capo dei foukaras venne a domandare perchè egli fosse entrato nella capanna del pianto e qual farmaco vi avesse gettato; Monsignore rispose che vi era andato per la sua visita d’uso. Allora il musulmano condusse il prete indigeno alla presenza del re, il quale lo insultò grossolanamente, lo fece battere e lo interrogò sul preteso farmaco; poi ordinò di spogliarlo e sospenderlo per le braccia ad un’albero per costringerlo a svelare la verità.

Ma come a Dio piacque in quest’istante si presentò al re l’eunuco già da noi accennato, il quale disse al re: «Il sacerdote dice la verità, son io che li ho ricevuti stamane, non macchiate la vostra mano nel sangue innocente.» Allora il re disse: «Iddio mi ha preservato da un gran delitto, slegate quest’uomo, e poiché la cosa sta così il Vescovo esca subito dal regno!» Egli inviò di poi il capo dei musulmani per visitare e numerare tutti gli oggetti di Monsignore: in seguito [p. 433] agli ornamenti sacri, due calici ed i vasi dell’Olio Santo furono portati al re; e tutti i facinorosi del paese si precipitarono sulla nostra abitazione e la saccheggiarono. Così il povero Vescovo, spogliato di tutto dovette partire da Limou nel giorno stesso; non ostante che il sole già volgesse all’occaso. Anzi gli convenne passar la notte allo scoperto presso al deserto posto nella direzione dei Galla liberi, con timore d’essere massacrato da un momento all’altro; cosa che era resa probabile, sì dalla natura della gente che gli era data per iscortarlo, sì per le minacele che di continuo gli si facevano.

Giustizia ottenuta dalla regina. – In questo mezzo giunsero da Cafa i due sacerdoti indigeni di cui altrove è detto, e furono testimoni dell’ostracismo del proprio Vescovo. Ciò non di meno non si perdettero d’animo; ma arditamente si presentarono al re, ed un di loro gli rimproverò vivamente la sua ingratitudine; poiché mentre Monsignore stava a Cafa, aveva ottenuto il richiamo dall’esiglio della sua nipote. E vedendo che la sua arringa al re non aveva avuto alcun effetto, questo stesso sacerdote si fece presentare alla regina, /378/ madre di quella ragazza, gli parlò collo stesso ardire, per cui la regina rimproverò fortemente il re suo figlio, il quale mandò richiamare Monsignore facendogli dire: «Scusami, padre mio, i cattivi consigli mi hanno fatto operare in questa guisa, ritorna a casa tua; se vuoi rimanere nel mio paese trattienti pure, e benedicimi; se vuoi partire, io ti spedirò cogli stessi onori con cui mio padre ti ha ricevuto e mi benedirai prima di partire.» Ed in segno di scusa gli inviò un bue. Allora Monsignore fece ritorno alla missione, che trovò ben più povera di prima; poiché le case in paglia dei missionari erano state saccheggiate, spogliandole d’ogni provvigione; poi erano state distrutte per cercarvi i tesori, che in esse credevano nascosi. Informato il re di queste cose, fece ben mettere nei ferri cinque dei colpevoli: ma gli oggetti stati portati al re non ci furono restituiti; anzi per riavere i vasi sacri, si dovette sborsare il loro valore in denari e così si dovettero sborsare più di 100 talleri (più di 500 franchi): l’Olio Santo poi era stato versato e tutto il resto era stato profanato. Dopo tutto questo il re voleva ancor ritenere Monsignore nel suo paese, per poter mettere la mano sui redditi della missione; ma al fine consentì a lasciarlo partire. E così quindici giorni dopo i fatti narrati, Monsignore partì da Limou con due dei suoi sacerdoti e ciò che si potè salvare dal saccheggio, lasciando un prete indigeno, che più tardi doveva venirmi a raggiungere a Ghera. Egli aveva già attraversato il deserto ed entrava nei paesi Galla liberi, allorché il re di Limou mandò gente per farlo tornare indietro; ma era già troppo tardi.

P. 434 Intanto Monsignore pervenuto nel paese di Nono, in cui dimorava una quarantina di famiglie Amhara, di cui la parte maggiore era stata battezzata, si fermò quivi alcuni dì, tanto per rinfrancarsi, quanto per confortarle spiritualmente.

Questi buoni cristiani volevano ritenerlo con loro; ma siccome il luogo era troppo vicino a Limou, Monsignore stimò più opportuno di recarsi a Lag-Amhara. Come vi pervenne, tanto i cristiani che i pagani, gli andarono incontro offrendogli regali; e Monsignore Coccino coi due sacerdoti indigeni, che avevano preceduto Monsignore Massaia, gli andarono incontro sino al fiume Ghiviè. Egli rientrò così nella sua antica abitazione la vigilia di Natale dopo tre anni di afflizioni d’ogni genere.

Grave malattia e guarigione di Monsignore Massaia, il quale si risolvè di ritornare in Europa. – Tutte queste prove avevano talmente logorata la salute del venerato nostro Vicario Apostolico, che cadde quivi gravemente infermo. In pochi giorni le sue forze di tal guisa lo abbandonarono, che credette esser giunto alla sua ultima ora, però dopo aver ricevuto l’estrema unzione, egli si addormentò tranquillamente, e mentre era già creduto morto e stava per esser coperto col lenzuolo funebre, di tratto si risvegliò e si trovò meglio; non volendo Iddio così tosto strapparlo dalla sua missione, dopo averlo così prodigiosamente salvato dalle mani dei suoi nemici.

Allorché fu ristabilito risolvette di partire per l’Europa, affine /379/ di rendervi conto della sua missione e della sue prove; partì adunque da Lag-Amhara nel mese di marzo ed entrò nel Goudrou, traversò il fiume Abbai, ossia Nilo bleu; ed entrò nel Gojan.

Colà Teodulo Guallu, ribellatosi poc’anzi all’imperator Theodros, non gli volle concedere il passo, benché nulla avesse contro il Vescovo; anzi nel accoglierlo presso di se, fosse disceso dalla sua amba per riaverne la benedizione. Questo re si condusse a ciò fare perchè voleva ritenere presso di sé il nostro Vicario Apostolico per opporlo ad Abba Salama, contro il quale si erano ribellati i preti ed i frati del paese. Se Monsignore Massaja l’avesse secondato ne’ suoi disegni ambiziosi, l’imperatore ci avrebbe considerati come suoi nemici, il che ci avrebbe recato non piccol danno, però Monsignore rinunziò per allora il suo viaggio e ritornò nei paesi Galla in maggio 1862; e questo fu un nuovo favore della Provvidenza per la missione dei Galla.

Frutti e speranze della missione abissina. – Prima di por fine a questa qualsiasi relazione, gittata già in mezzo a continui disturbi ed angoscie, è ancor da sapere qual frutto abbiamo ottenuto dai nostri sudori sparsi in queste povere regioni, in cui [p. 435] domina lo spirito delle tenebre; e quali speranze sia lecito nutrire per l’avvenire. Dico adunque, che nei due anni della missione a Cafa, quasi 200 ragazzi di razza Amhara furono battezzati unitamente ad una quarantina di adulti quasi tutti nostri domestici. Questa missione di Cafa può offerire speranze per l’avvenire, poiché la razza Amhara detesta fondatamente i pagani e i musulmani; ma siccome per ora non è che un odio di casta, vi è poco da sperare per la generazione attuale. Tuttavia quello che vi abbiamo operato influirà lentamente su questi popoli che conservano le loro cristiane tradizioni. I grandi presenti sono troppo corrotti ed avidi del sangue dei popoli, per decidersi ad abbandonare sia le loro 10 o 12 spose, sia le loro speculazioni su 100 o 200 schiavi a fine di abbracciare la morale severa del cristianesimo. Finché vivrà il re attuale ed il suo ministro il Guccirascia capo degli Amhara, il cattolicismo non potrà sperar nulla; ma secondo l’opinione del paese, alla lor morte la razza Amhara penserà a provvedersi di un re della propria casta, e così sarà tolto uno dei più grandi ostacoli. Intanto il povero missionario rimasto a Cafa trovasi nel più doloroso esigilo, senza che io possa andarlo a visitare, mentre mi trovo ad una sola giornata da lui. Eccone il perchè: Esiste a Cafa una tradizione per cui si tiene che il regno andrà perduto allorché mancheranno i preti; essi hanno adunque un bisogno assoluto di preti. Però quando un prete entra in Cafa divien subito proprietà dello stato, non può più uscirne e riceve una guardia di onore. Tuttavia egli è in libertà di far tutto quel che gli talenta nel paese, persino gli atti i più schifosi, senzacché però esso perda nulla della sua influenza, o del suo potere.

E ciò appunto fanno i sedicenti preti scismatici ed eretici, i quali non sono altro che cerretani d’Abissinia; anzi alcuni che si spacciano per tali, non son neppur battezzati, e non sono che maghi /380/ e stregoni, le funzioni dei quali consistono nel fare il macellaio in chiesa, piuttosto che in una pubblica bottega. Non accade dunque meravigliarsi delle difficoltà che abbiamo incontrato; è naturale in fatti che il mostro infernale combatta fieramente gli apostoli di Gesù Cristo per non perdere la sua preda. Ed inoltre, siccome il discepolo non è dappiù del maestro, è giusto che insieme alla chiesa universale noi pure abbiamo la nostra parte nelle persecuzioni.

Il Cielo fa sentire la sua giustizia ai persecutori. – Non è però da credere, che la giustizia di Dio chiudesse gli occhi sulla iniquità della persecuzione che ci venne mossa; imperocché la mano dell’Onnipotente si aggravò sul regno di Cafa, che aveva ricusata la luce del vangelo. Ed eccone il modo.

Il paese di Gobo sino allora tributario di Cafa si ribellò, i suoi Ca- [p. 436] valieri invasero il paese, mettendo tutto a fuoco ed a sangue; poco tempo dopo il re perdette una figlia della sua sposa principale, che era sposa di un re vicino, e questa morte, a quel che pare ai più, sarà causa di una gran guerra. Questa disgrazia fu seguita da una terza più grande ancora. Quei di Cafa volendo vendicarsi di quei di Gobo, si misero tutti in armi ed invasero il regno di Gobo; sul principio furono lasciati penetrare senza resistenza, poi con molta strategia vennero fieramente assaliti alle spalle ed ebbero così la ritirata tagliata, scompaginati da questa mossa inaspettata, si diedero a subita fuga, in cui si fece di loro un gran macello. Più di 400 uomini perirono con 12 capi, o rascia, la maggior parte di razza Amhara, e fu osservato che un gran numero dei nostri persecutori fu punito in questo modo. Così noi speriamo che il Dio che regna nei cieli, proverà col castigo dei persecutori, che la santa chiesa cattolica ed apostolica è la sposa prediletta di Cristo, Dio ed uomo, giudice dei vivi e dei morti.

P. 441 Vicende della missione di Limou. – La missione di Limou ebbe un fine ancor più triste.

Dalla prima introduzione dell’islamismo in queste regioni, questo regno fu il centro dell’influenza dei musulmani; però dopo la partenza di Monsignor Massaia, il nuovo re che era foukara, prese possesso del locale della missione e voleva ridurre in ischiavitù il giovane sacerdote indigeno che vi era rimasto; ma io riuscii a farlo uscire e rivenire a raggiungermi.

La nostra casa fu ceduta ai musulmani e la cappella fu ridotta in casa particolare. I cristiani di questo paese sono di razza abissina e non sono guari zelanti per la religione; allorché ricevettero il battesimo, dimostrarono un po’ di fede, ciò che ci diede da sperare in bene; ma la corruzione musulmana ne spense le prime faville ed essi caddero nell’indifferenza.

La maggior parte di questi cristiani di nome sono mercatanti e fanno il commercio degli schiavi, che è in orrore anche presso gli Amhara non battezzati. Mentre si saccheggiava la missione, niun di loro si dichiarò in favor nostro: tali sono quelli che si dicono i nostri amici in questi paesi.

/381/ Il re di Cafa tentò ancora di farmi cacciare da Ghera; ma Iddio che ha in questo paese alcune anime che lo amano, ci conservò questa missione; il re rispose che egli preferiva esser nostro amico anzicchè esser nostro nemico, ma in compenso io dovetti fabbricargli una casa in pietra, e grazie a Dio l’opera essendo ben riuscita, egli si è fatto veramente amico nostro e la nostra influenza nel paese ne guadagnò assai, ciò che è un ben per la missione.

L’anno 1861 fu celebre in questi paesi per le folgori ed i tuoni che non ebbero mai in addietro tal violenza (forse i dotti ne attribuiranno la cagione alla cometa), la stagione piovosa fu pure straordinaria. Il fulmine cadde principalmente sulle case dei re, o nella loro [p. 442] prossimità: molte persone vi perdettero la vita e lo spavento fu grandissimo. A Limou cadde il fulmine su di una casa uccidendone tutti gli abitanti, uomini, donne, ragazzi ed animali; non rimase intatto che un agnello che fu sacrificato all’indomani dal fratello del defunto capo di famiglia pel convito funebre, ma la sera stessa, la casa di costui fu pur distrutta da un nuovo fulmine.

Il cadavere del defunto dopo essere stato interrato fu dissepolto da un terzo fulmine, e cosi perirono a Limou 50 persone. Nel regno di Gimma un fulmine solo stese morti alcuni musulmani mentre faceano le loro prostrazioni. Nel paese di Goma una donna che schiacciava grano vide rompersi, frantumarsi la pietra ed udì una voce che le diceva: «Verrà tempo in cui non abbisognerai di me». Nello stesso paese un soldato mentre impugnava la lancia udì una voce che diceva: «Verrà tempo in cui avrò molto a fare» e nello stesso tempo ancora cadde una pioggia di sangue su trenta persone che erano andate a tagliar pali nella selva, ed un fulmine ne uccise 25, asfissiandole. Tutti questi avvenimenti produssero un gran timore, ed i re ordinarono digiuni di espiazione (nei giorni del digiuno solenne non si potea portar la lancia, conveniva portar bastoni) e si fecero persino digiunare i bambini lattanti.

La stagione poi fu così cattiva, che una parte dei grani mancò e vi fu carestia. Nel 1862 la stagione piovosa passò secca, e le pioggie caddero abbondanti dopo il passaggio del sole all’equatore, cioè a dire fuor di stagione. Gli indigeni mi interrogano soventi su questo cambiamento di stagioni. «Anticamente, essi dicono, si seminava poco e si raccoglieva molto, le pioggie erano periodiche e le stagioni sopportabili; adesso abbiamo ora venti freddi ora venti ardenti, ed il sole è insopportabile; dopoché i musulmani si sono moltiplicati, i peccati son numerosissimi, ed i nostri schiavi son venduti ogni dì. Dio non ci benedice più e tutto annunzia il giorno in cui il Signore nostro Gesù verrà a giudicare i vivi ed i morti.»

Dopo la distruzione della missione a Limou le iene si moltiplicarono talmente che i loro urli mettono spavento in tutti. Il re ne ordinò la caccia notturna; ma siccome secondo la loro superstizione, tiensi che questi animali sono orchi, fu detto che alcuni avessero il viso umano, il re stesso promulgò una nuova legge per proibire di uccidere le iene; i suoi migliori guerrieri, diceva egli, e chiunque ne /382/ ucciderebbe una, pagherebbe il prezzo del sangue d’un uomo. La casa del nostro principal nemico fu divorata dalle fiamme, nulla si potè salvare. Colui che consigliò il furto dei vasi sacri, vide innanzi a [p. 443] se un bianco fantasma che appiccò il fuoco a venti delle sue case; esse vennero ricostrutte per ordine del re, e lo stesso misterioso personaggio le incendiò di nuovo. Quest’uomo riunì allora a casa sua i foukaras, e dicesi che lo stesso personaggio si fece vedere fra loro minacciando la morte a chiunque oserebbe aprire il Corano in sua presenza. Il re ordinò che il popolo offerisse caffè arrostito sulle radici degli alberi e versasse birra per le strade per calmare la divinità; i contadini dicono invece, che quello è l’angelo dei Sacerdoti, ed il fanatismo musulmano si è assai raffreddato in questo regno ove i foukaras erano onnipotenti.

Conclusione. – Tali sono gli avvenimenti di questi paesi che in piccolo han però la loro importanza e che fan presagire grandi cambiamenti.

Se la divina provvidenza ha viste di misericordia su queste popolazioni, essa annullerà prima di tutto questi piccoli re musulmani, all’ombra dei quali fu piantata la schiavitù che ha decimato questi abitanti. I grandi non pensano che a ridurre i poveri in ischiavitù, e come dicono gli indigeni, essi bevono il sangue e mangiano la carne dei poveri. Con questo sistema di governo è impossibile al Cristianesimo il progredire in questo paese dei re Galla, la nostra speranza è nulla. In questo piccolo regno di Ghera, per esempio, che ha l’estensione di un comune di Europa, abbiamo 20 famiglie cattoliche; questi cristiani originari di Cafa formano una razza a parte e si dicono cristiani per non rinnegare le loro tradizioni, perciò han chiesto il battesimo a Monsignor Massaia mentre si recava a Cafa, ma ad eccezione di 4 o 5 vecchi, il Signore non conta che pochissimi veri servitori; la generazione attuale è inclinata all’islamismo, o per dir meglio al materialismo.

Nei paesi Galla liberi il Catolicismo pare debba avere maggiori speranze; ma a prima vista questi paesi spaventano: lo straniero e particolarmente l’Europeo è sempre in pericolo d’essere trucidato, poiché i musulmani non cessano dallo spargere su di noi le calunnie le più strane, dicono che siamo spioni del re d’Etiopia, che siamo stregoni ecc.

Il Cristianesimo non può aprirsi la via su questa terra infedele, coperta dalle tenebre dell’eresia e dell’idolatria. Se il Padrone non si alza e non dice: Fiat Lux! chi potrà mai dissipar queste tenebre? La nostra speranza sta adunque nel Signor nostro Gesù Cristo, lume di giustizia, egli solo colla sua grazia può operare questo cambiamento. Fiat, fiat? Quanto a noi, apostoli della divina parola, annun- [p. 444] zieremo colla nostra presenza e coi nostri discorsi la buona novella, e riguardo all’eresia, all’islamismo ed all’idolatria, noi renderemo testimonianza contro di loro il dì della giustizia, che il Signore ha voluto la loro conversione, come l’opera della propagazione della fede renderà testimonianza della misericordia del Signore /383/ per tutte le nazioni della terra che per essa ricevettero il pane della parola di vita.

Raccomando questa povera missione nascente alle preghiere dell’opera, mi dichiaro col più profondo rispetto

Vostro umil.mo e devot.mo servo
F. Léon des Avanchers
Min. Cap. Miss. Apost.