Massaja
Lettere

Vol. 3

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Al padre Fabiano Morsiani da Scandiano OFMCap.
procuratore generale delle missioni – Roma

[F. 1r]Padre R.mo (riservata a Lei solo)

Parigi 29. Ottobre 1865.

Con tutti i lavori che tengo, e con un mare di pene che affliggono il mio spirito; più, con tutta la volontà che avrei di non aggiungere più dispiaceri e disturbi alla P. V. R.ma, pure sono costretto a scriverLe ancora altra lunga lettera, ed aggiungerLe altri disturbi a tutti i passati per metterLa al corrente delle cose che passano alla missione, essendo per me V. P. l’unica persona a cui confiderò i secreti delia medesima nelle attuali circostanze di crisi in cui essa si trova.

Incominciando dalle lettere venutemi ultimamente, sia dalla missione, sia ancora dalla P. V. R.ma, che ha potuto leggere in parte la corrispondenza, Le dirò anticipatamente, che stando alla Sua ultima, mi pare che Ella, ne abbia capito me bene in Roma, ne tanto meno abbia capito nel suo senso la lettera di Monsignore Cocino.

Appunto sul riguardo di questo Prelato, si ricordi bene, io non ho inteso di dire che fosse bono e capace di reggere la missione; ciò /289/ ne posso, ne debbo dirlo, perché in realtà non lo è, e lui stesso lo conosce, ed il solo conoscerlo è una di quelle qualità che gli fanno tutto il suo merito; io in Roma non ho inteso di più, se non confessare per una parte questo suo merito di docilità sopratutto alla mia persona, e quando sono vicino.

[F. 1v] Per altra parte poi intesi solo di giustificarlo dalla maggior parte delle accuse state fatte contro di lui dal P. Leone, le quali furono molto esaggerate; dicendo esaggerate, Ella intende abbastanza la forza del discorso senza che io dica di più.

Dissi poi che V. P. R.ma non aveva abbastanza capita la lettera di Monsignor Cocino mandatami ultimamente; diffatti io rimango come V. P. per altro molto accorta non abbia trovato in essa dei manchi, i quali mi hanno dato nel naso, anche senza parlare di quelle cose, delle quali Ella non ne ha la catena per capirle: come diffatti Ella interpreterebbe il silenzio assoluto osservato da Monsignor Cocino sulle due missioni del Sud? È egli possibile che non avesse notizie di sorta, o vecchie o nuove ne da Ghera ne da Kafa? Questo silenzio mi fa dubitare che vi siano in via delle lettere del P. Leone e del P. Ajlù Michele, e probabilmente poco favorevoli a lui; o per lo meno mi fa dubitare che vi sia qualche dissenzione.

Lasciando ancora questo da una parte, Ella che senza dubbio deve avere il naso più fino di me, non trova detta lettera mancante di detagli sul ministero, segnatamente sulla scuola e sull’andamento dei giovani della propria sua casa di Lagamara? Sappia che appunto questa è una sua gran debolezza; quel miserabile non ha ancor fatto figlio per il ministero, perché mancante del dono dell’esempio e della parola; quei pochi medesimi da me iniziati e mandati a lui sono stati guastati, e sortirono buoni mercanti, neanche buoni cristiani. Ora in una missione che per un tempo notabile non potrà avere Seminarli indigeni, e neanche i missionarii europei a petizione, a che serve un mulo che non fa figli? [f. 2r] ma a che serve, se Roma stessa non capisce questa verità; epperciò sono costretto io qui a confessare che Monsignor Cocino con tutto ciò è appunto il Vescovo che fa mirabilmente per Propaganda, capace di tradurgli il Bellarmino ad litteram con calligrafia da notajo, ma lasciamo questo.

Ritornando a Monsignor Cocino, o meglio alla sua lettera rilevo ancora due cose, che Ella non è in stato di conoscere, perché non conosce gli ordini da me lasciati al medesimo prima di partire, e le ragioni che m’indussero a così ordinare. La prima riguarda alcuni Preti indigeni, e la seconda riflette alcuni giovani di migliori speranze. Non parlo qui del fu prete abissinese stato scomunicato, di cui Ella è già stata informata da me, ed ha veduto abbastanza l’affare nelle corrispondenze di Monsignor Cocino medesimo; di questi si vede dalla sua lettera ultima una certa condiscendenza bensì, ma spero che non si risolverà tanto presto di scioglierlo dai vincoli materiali e spirituali; d’altronde questo stricte appartiene alla missione d’Abissinia. Parlo del P. Giacomo Ajlù, quel campione, al quale debbo attribuire la riuscita delle trattative di Kafa nella defezione del fu P. Cesare, di tanto cara memoria. Questo P. Giacomo incominciava a clau- /290/ dicarmi in Kafa, con tutto ciò si condusse ancora erojcamente in quella crisi, ma venuto nei paesi Galla incominciò lasciarsi andare a bassezze; prima di partire dal Gudrù, in compagnia di Monsignore Cocino stesso ho finito il giudizio relativo all’immoralità di questo Sacerdote; fu Monsignore suddetto stesso che in mia presenza esaminò ogni deposizione, e volle che si venisse alla sospensione. Partendo gli ho raccomandato di andare adagio a rimetterlo in esercizio, atteso anche, che non era abbastanza instruito, e neanche amante di esserlo: Dopo tutto ciò nelle sue lettere venute nec verbum quidem di questo individuo, e da quest’ultima lettera m’accorgo che è già il fac totum, il quale ha preso dominio sopra il suo cuore; questi e lo scomunicato sono gli unici sostegni [f. 2v] della casa centrale di Lagamara, dove sta il Vescovo, e dove si suppongono esistere i giovani allievi; tutti i buoni sono lontani, e certi gemiti di questi (benché nulla dicano di serio nelle loro lettere, che Ella non ha potuto leggere) indicano un certo partito dominante, certamente non dei buoni, caso solito sotto il governo di Monsignor Cocino, sotto di cui i buoni sono sempre vittima, e regnano i deboli, come suole accadere anche presso di molti Prelati deboli della nostra Europa...

La seconda cosa che riguarda i giovani, riflette alcuni di questi per i quali vi erano speranze molto grandi, in specie di un giovane per nome Andrea, di molto talento, di una vivacità unica, già molto instruito, ma suscettibile di essere guastato ancora, come già ne aveva avuto qualche segno nel poco tempo che scorse dalla mia partenza di Lagamara per il Gudrù sino all’arrivo di Monsignor Cocino colà. Per salvare, fra gli altri, questo ragazzo dal naufragio come certo che io prevedeva, prima di partire ho lasciato ordine severissimo di mandarmelo col vecchio P. Gualu venuto a Massawah, (di cui parla il Sig.r Delmonte nella sua lettera che Ella ha veduto); in tutte le mie lettere non ho fatto altro che raccomandargli e ripetergli questo ordine; ora che V. P. R.ma ha letto tutte le lettere di M.r Cocino, vedendo a mandare il vecchio Gualu senza il ragazzo, e senza una parola di scusa, che ne pare? Le dirò che Monsignor Cocino ha una vera passione (non viziosa, come credo) per questo ragazzo, ed è sempre la passione sua per i ragazzi quella che gli ha guastati; questi ragazzi sogliono avere le confidenze dei secreti più [più] gelosi della casa, e qualche volta anche meno morali, intelligenti pauca.

Dal breve cenno di questa lettera ella potrà [formarsi] un giudizio giusto sul valore di Monsignor Cocino, senza che rapporti altre cose passate, molte delle quali la S. C. stessa è consapevole. Questo Prelato è una creatura mia, lo amo, e lui ha per me tutta la sua confidenza, come ha potuto vedere dalla lettera stessa in cui dice queste parole = spero che in Roma aggiusterà le cose mie come eravamo intesi = L’amore che porto a lui non mi salva dal dovere di dire la verità, come il rispetto e l’ubbidienza che professo alla S. C. ed al S. Padre stesso non credo che m’impediscano di parlar chiaro, quando sta di mezzo il S. dovere della Chiesa a cui siamo sposati coll’episcopato; così io intendo il Vangelo. Ella conosce la mia gran riserva in queste cose, saprà perciò farne l’uso come conviene. Delle /291/ cose che passano tra me ed i Superiori, oppure [oppure] i prelati della chiesa, mi guardo persino coi miei confessori; quanto sono schietto con loro, altrettanto sono riservato col publico; fossero così costà; di questa dia coppia a nessuno, al più potrà renderla ostensiva.

Fr: G. Massaja V.o Ap.o dei Galla