Massaja
Lettere

Vol. 3

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Al signore Giovanni Battista Etienne CM
superiore generale – Parigi

[P. 1]

Memorie sopra la Santità del fu Monsignore Dejacobis Vescovo di Nilopoli, e Vicario Apostolico dell’Abissinia – Da rimettersi al Superiore Generale dei Lazzaristi.

[Parigi, 1865]

Nel mese di Giugno dell’anno 1846., mese celebre per la morte del Papa Gregorio XVI di felice memoria, mentre io mi trovava in viaggio per i paesi Galla, mandato ancora dal defunto Pontefice, camminavano pure alla volta di Roma lettere del Signor Dejacobis allora prefetto apostolico d’Abissinia, colle quali il zelante missionario dava relazione alla S. C. di Propaganda dell’esito di sua missione, ed esponeva alla medesima il bisogno di fare ordinare alcuni allievi indigeni, proponendo l’idea che aveva di mandare i medesimi in Egitto per fargli ordinare dal V.o Ap.o dei Copti allora Monsignore Teodoro.

La S. C., sapendo che io era ancora in Egitto mi spedì subito una lettera, colla quale mi ordinava di prendere la strada del mar rosso, e di recarmi in Abissinia, e di fermarmi colà tanto che bastava per tutti i bisogni di quella missione. La lettera mi arrivò in Cairo nel momento in cui era già come organizzata la partenza mia e dei miei missionarii per la via del Nilo, e del Sennaar. Posso dire grazie a questa determinazione di Roma di aver preso la via del mare rosso, di Massawah, e dell’Abissinia, quindi di aver conosciuto il grand’apostolo di quel paese, e ciò che è più di avere fatto sotto di lui un anno di scuola nell’apostolato; del resto io infallibilmente, con quattro rnissionarj compagni che aveva, sarei partito per la via del Sennaar, e Dio solo sa, cosa mi sarebbe accaduto in quel clima pestifero; [p. 2] pagato colà il tributo di qualche individuo della missione che sarebbe forse stato vittima, dopo qualche anno di tentativo inutile per passare di là ai paesi della mia missione, sarei certamente stato obligato sempre a passare nell’Abissinia, ma più al Sud, senza poter conoscere il Signor Dejacobis, e senza prendere le debite intelligenze col medesimo o con altri della costa per le necessarie corrispondenze, le quali in nessun modo aver [avrei] potuto intavolare per la via del Sennaar.

Sono arrivato in Massawah circa la metà di Ottobre portatore di molte lettere e di 15. mille franchi per il Signor Dejacobis statimi consegnati in Egitto dal Signor Le Roi Superiore dei Lazzaristi per il medesimo. Al mio arrivo, essendomi diretto alla casa del V.e Console Francese Signor Degoutin, con mia sorpresa ho trovato colà due allievi del Prefetto, venuti pochi giorni prima, mandati da lui, che mi stavano aspettando; ho domandato subito alla moglie del console, se erano venute lettere o barche, che avessero in qualche modo annunziato il mio arrivo, ed invece mi rispose essere già tra- /308/ scorsi più di otto mesi, dacché non si aveva ne lettera, ne notizia affatto, sia dall’Europa, sia ancora dall’istesso Egitto, e che appunto per questo, il Signor Degutin due settimane prima era partito per Gedda in cerca di notizie, e di denari, per se e per la missione, tutti negli estremi bisogni. Ho sospettato subito che il Signor Dejacobis avesse ricevuto qualche lettera dalla porta del tabernacolo, e coi compagni miei non si parlava altro che di questo fatto; ho voluto prendere da una parte questi ragazzi, ed esaminare un poco la cosa come era andata, ed i medesimi mi raccontarono una lunga storia della necessità in cui si trovava la missione, sia di mezzi temporali, e sia ancora di Preti del rito per l’esercizio del ministero, essendo i cattolici già molti, ed una gran parte senza la Messa; che in seguito a ciò il Prefetto era stato obligato [p. 3]. prendere degli imprestiti in Adoa, per mantenere la sua numerosa famiglia, da una persona, la quale incominciava a seccarlo... Che perciò, già un mese prima aveva mandato a Massawah in cerca di denari, e ritornati colle mani vuote, tutta la casa essendo in pena, un bel giorno, dopo celebrata la S. Messa fece un lungo ringraziamento, e dopo il medesimo tranquillizzò tutti, dicendo che avrebbe mandato di nuovo alla costa: così fu, questi medesimi ragazzi già venuti prima, furono [r]imandati di nuovo, con queste parole = andate, aspettate colà, ed arriverà tutto quello che desideriamo = discesero i boni giovani pieni di fiducia nelle parole del loro Padre, ma vedendosi al terzo giorno senza nulla, incominciavano già a malinconizzarsi, quando comparve la nostra barca. In seguito poi ho cercato in tutte le maniere di sapere da lui stesso le cose più in detaglio su questo fatto, ma la sua umiltà mi privò sempre di ogni risposta diretta; il certo si è che nessuna notizia era arrivata colà, sulle demarcie di Roma, e sulla mia venuta; posso dire, che argomentando dalle ammirazioni che tutte le persone della missione facevano in proposito, bisogna dire che tutti attribuissero [ciò] ad una vera profezia.

Fin dai primi giorni, vedendo il gran rispetto, con cui parlavano di lui, non solo quei due giovani, ma tutta la casa del V.e Console, e molti di Massawah ancorché mussulmani, mi accorsi subito che il Signor Dejacobis non era una persona di un carattere vulgare, ma molto più poi ho dovuto convincermi, e si convinsero pure i miei compagni tutti, nel suo arrivo a Massawah due settimane dopo. Diffatti, avendo spedito subito il giorno appresso del mio arrivo i due giovani con una somma di denaro, con tutte le lettere a lui dirette, accompagnate da una mia semplice lettera, nella quale gli notificava la mia destinazione ai Galla, e l’ordine della S. C. di restare qualche tempo presso di lui, ed al suo ordine per i bisogni della sua missione, egli, al ricevere tutto questo, come mi assicurarono, bacciò più volte la mia lettera, e la fece baciare a tutte le persone principali della casa, e radunata la famiglia in Cappella ringraziò Iddio, e fece un ragionamento che entusiasmò tutta la casa. Quindi senza perder tempo, [p. 4] benché lontano otto giorni di viaggio, partì subito con una quantità di giovani, e venne sino a Massawah a ricevermi. Il giorno del suo arrivo fu per tutti noi un vero incan- /309/ tesimo, e possiam dire che fu il principio della scuola sublime che abbiamo avuto, scuola che durò per noi tutti un’anno e più, e per me in particolare posso dire che non è ancora finita, perché ancora non mi sazio di meditare le nobili lezioni di sì Santo maestro.

Stavamo tutti assieme nella casa che avevamo preso a pigione, quando un servo del Vice Console viene a dirci che il Signor Dejacobis era arrivato; siamo corsi subito tutti quanti al porto per aspettarlo che sbarcasse nell’isola; lontano un tiro di schioppo sul mare, si avvanzava una barca araba carica di abissinesi vestiti di tela, con un piccolo turbantello dei più meschini, e qualcheduno aveva un parasole di erba tutto particolare, ma nessun europeo si distingueva là dentro, dove [è] il Signor Dejacobis? non aveva ancora finito di pronunziare, che la barca arrivò a terra, sbarcò tutta quella turba, ed io ancor non lo scorgeva; direi quasi il più piccolo di tutta quella comitiva, accompagnato da uno dei ragazzi messaggieri in mezzo ad una folla di arabi che avvi continuamente colà; mi si getta ai piedi me li stringe, me li bacia, e conobbi allora dalla sua figura che era un’europeo, epperciò il Signor Dejacobis; la povertà delle sue vesti, la sua umiltà, l’umiltà di tutti quei giovani nel gettarmisi ai piedi con sì tenero slancio alla presenza di tutto quel mondo di mussulmani, debbo confessare, che m’incantò, e non seppi più cosa dire, avrei voluto gettarmi io stesso ai piedi suoi, ma quasi avrei temuto di fare una caricatura; egli mi prese la mano, e non faceva che baciarla, io stringeva la sua persona per baciarla, e ribaciarla, ma egli quasi arrosisse si ritirava; tutti due confusi abbiamo attraversato la folla, e quasi mutoli siamo entrati in casa che non era molto lontana. Appena entrati ho cercato di farlo sedere accanto di me sopra il letto arabo, ma tutto fu inutile, egli sempre assiso per terra, ed i suoi giovani in certa lontananza, tutti rispettosi, come tanti timidi ragazzini; egli non faceva [p. 5] che esclamazioni; ed io tutto assorto nelle ammirazioni, [io] ho cercato di dirgli qualche cosa per rilevarlo un tantino dal troppo abbassamento in cui l’ho veduto, e rimettergli un poco di decoro europeo, ma l’ho trovato sempre e da ogni lato armato di ragioni e calcoli così sublimi, quali esponeva con tutto il rispetto, che fu forza dichiararmi vinto ed ammirarlo; almeno avrei voluto che si prendesse meno soggezione della mia persona, e lasciasse certe cerimonie, allora esso mi sortì con queste parole = monsignore, Lei è il primo vescovo che si fa vedere in questi paesi, io conosco qual’è l’idea del Vescovo in questi paesi, lascii questo a me, e lascii che io sia il primo, altrimenti temerei di scandalizzare questi miei neofiti = vedendomi vinto da tutte le parti, ho finito per pregarlo d’incaricarsi lui stesso della casa, e dichiararlo padrone di far tutto quello che credeva, fortunato di restare io stesso come scuolaro sotto la direzione di una persona così umile, così dotta, e così grave nel tempo stesso.

Da quel momento, io non ebbi più niente a pensare, egli pensò a tutto, egli fece tutto, e la mia casa da quel momento diventò un vero monastero, in cui a suo tempo si facevano le preghiere, la scuola, l’istruzione, non solo a quei di casa, ma ai pochi cristiani /310/ esteri; restò colà due settimane, ed io lo viddi mai un momento fermo, sempre, o a pregare, o ad istruire, o a scrivere: fece battesimi, confessò, e fece tutto quel poco, che si poteva fare in Massawah. Dalla partenza di Massawah sino a Gualà nell’Agamien ci abbiamo messo undeci giorni, perché non si camminava che mezza giornata, e l’altra metà era sempre destinata all’istruzione ed agli esercizii religiosi che cessarono mai nel viaggio istesso. Fui maravigliato di una cosa: dopo molti anni di allontanamento dall’Europa, e dopo molto tempo che non aveva ricevuto lettere, Lui mai mi interrogava di notizie dell’Europa; si fece raccontare nei primi giorni i detagli della morte del Papa Gregorio XVI. e dell’elezione di Pio IX., e parlava qualche volta di Roma, oppure si trattenava qualche volta a discorrere del suo Ordine, fuori di quello, come se avesse, ne patria, ne parenti, ne amici, mai [p. 6] si vedeva in lui quel certo bisogno tanto naturale al[l’]uomo di saper notizie della patria e degli amici, perché il suo cuore [era] di un’unione tale con Dio, che gli faceva, direi quasi, dimenticare di essere in questo mondo.

Ho scritto questo tratto d’istoria unicamente per far conoscere il modo con cui la divina Providenza mi fece conoscere questo uomo di un carattere così straordinario ed elevato, il quale di la in poi fu sempre il soggetto delle mie ammirazioni e meditazioni; del resto, se volessi scrivere una storia esatta di tutto ciò che conosco di lui, anche solamente di quello che ho veduto, ed ammirato coi miei proprii occhj, non sarebbe certamente una cosa da passarsi nei limiti di poche osservazioni che mi sono prefisso di scrivere, come persona che non ha conosciuto, ne gli antecedenti della sua vita, e neanche in seguito è stata sempre con lui, ma che solo le circostanze mi hanno posto nell’occasione di passare con lui qualche tempo, e di trattare qualche affare del ministero. Mi limiterò perciò a toccare brevemente ciascheduna delle sue esimie virtù sì, e come io stesso le ho ammirate sempre, ed ancora attualmente soglio formarne l’oggetto prattico e quasi quotidiano delle mie riflessioni e meditazioni, quando sento il bisogno di scuotermi nel pratico esercizio delle cristiane virtù, e sopratutto del sacro ministero apostolico, come tipo e maestro che Iddio mi ha dato, e che io mi sono prefisso di seguire, per quanto arriva la mia debolezza.

Se io avessi la raccolta delle sue lettere che io ho sempre conservato presso di me, come una specie di testamento del mio padre, e come un libbro che io teneva prezioso, e che di quando in quando soleva leggere e rileggere nelle più critiche circostanze in cui mi sono trovato; come altresì, se avessi con me tutte le memorie che aveva [p. 7] preso dei fatti principali da me veduti, oppure conosciuti con una morale certezza, io potrei corroborare queste mie osservazioni, o note che si voglian chiamare, sopra la vita e virtù del santo defunto apostolo con dei detti e delle sentenze sue medesime, le quali sarebbero certamente più che bastanti per far conoscere il grado d’elevazione della sua mente, e l’intima unione del suo cuore con Dio; nella narrazione dei fatti poi sarei in caso di presentare una precisione storica; ma sgraziatamente l’esilio di Kafa /311/ occorsomi il 25. Agosto 1861., nel quale sono stato preso improvvisamente, e proibito persino di prendere carta e calamajo, con cui stava in quel momento scrivendo, fece sì che tutte dette preziose memorie restarono là bersaglio della soldatesca e della visita del governo, ed ancora non so, se sia riuscito al Sacerdote P. Ajlù Michele, rimasto colà, di salvarle, essendo stato anche lui medesimo in quella circostanza legato, e messo in libertà solo dopo qualche mese.

Nel momento che scrivo perciò io mi trovo affatto sprovvisto di qualunque, anche minimo, documento positivo, e dichiaro di non scrivere altro che quello, di cui mi ricordo, e che è rimasto come un sacro e caro deposito nell’archivio del mio cuore, e della mia immaginazione, e che la corrente di mille vicende e prigionie sofferte, non ha potuto, ne asportare, ne cancellare, perché troppo impresse dal prestigio che quel grand’uomo ha esercitato sopra di me, e consacrato da una gratitudine che non posso esprimere.

Come poi nello scrivere queste memorie, io non m’intendo di fare un lavoro in tutto il rigore dell’arte, e con uno stile capace di soddisfare ancora alla troppo onesta curiosità di quelle persone dotte, le quali avranno la compiacenza di leggere [p. 8] le medesime, poiché, dopo diciannove anni di questo totale isolamento dall’europa, appena posseggo ancora un poco di lingua, per spiegarmi in qualche modo, e mi conosco incapace, bensì intendo solo di produrre esternamente quel tanto che tengo in cuore da tanto tempo, a titolo di una troppo giusta riconoscenza al sublime maestro di tante lezioni; così parimenti l’ordine delle virtù che esporrò sarà il medesimo che esiste nella mia immaginazione, ed esporrò in primo luogo quelle virtù, che le prime si presentano alla medesima, quando penso al caro Monsignore Dejacobis, e che più vivamente mi hanno colpito.

Nasce quindi primieramente il bisogno di parlare della sua umiltà, virtù, che, come elemento semplice, e il fondo della morale evangelica, essa deve formare la base di tutte le virtù cristiane, e tanto più profunda, quanto più la mole delle medesime si slancia più in alto, senza la quale, l’apparato di virtù il più imponente, ed una perfezione o santità in apparenza la più straordinaria, diventa in un momento un pugno di polvere, anzi ben soventi di puzzolente sterco; virtù, che, cercata solo umanamente, senza il raggio di luce divina, che slancia l’anima cristiana nel più profundo abisso di se, corre gran pericolo di diventare un ributtante cinismo; virtù che getta qualche volta l’anima eletta, direi quasi, nel più profondo dell’inferno, in modo da credersi perduta, mentre è per prendere lo slancio per volare al più alto dei cieli; finalmente virtù, perla della perfezione evangelica, per conservare la quale, Iddio suole condurre certe anime sue elette per vie e laberinti così oscuri, da contundere ben soventi i maestri di spirito i più illuminati.

Non è senza motivo che io mi servo di simili frasi parlando dell’umiltà di Monsignor Dejacobis, egli destinato da Dio ad essere, non solo maestro colla parola, ma col suo esempio, un tipo di ogni perfezione possibile al[l’]uomo mortale, frammezzo ad una nazione, dove [p. 9] tutto era menzogna, orgoglio, carne, senso, e corru- /312/ zione di ogni genere, e dove era affatto perduta l’idea medesima dell’evangelica umiltà, certamente che Iddio ha dovuto sollevare un colosso di perfezione simile sopra una base di tal natura, affinché il suo apostolo fosse di eterna lezione alla futura Abissinia, ed agli apostoli che colà avrebbero continuata l’opera da lui incominciata.

Benché l’umiltà esterna risguardante l’atteggiamento della persona, ed il modo visibile di comportarsi relativo al suo prossimo e fratello, non sia, ne la più difficile, ne la più sublime, quando essa però è costante, e lontana affatto da ogni umbra di calcolo mondano, bisogna dire che essa è l’espressione naturale di un totale avvilimento di se medesimo che esiste nel fondo del suo cuore ed ha vinto e prostrato ogni prorito di orgoglio e di superbia; non è fuor di proposito perciò che io di passaggio facia conoscere, ciò che fu a tutti visibile, e da tutti conosciuto, la straordinaria modestia e povertà delle sue vesti, e l’ammirabile abbassamento della sua persona, non solo nel tenersi eguale agli inferiori, e sotto gli eguali, ma facendosi di più vero servo di tutti.

Già ho notato di sopra nella breve storia d’introduzione l’impressione grande che mi fece la prima volta che lo viddi in Massawah, sopra la barca con una quantità dei suoi discepoli indigeni, e come allora non lo conobbi fino a tanto che si avvicinò, perché nessun segnale visibile in certa lontananza lo distingueva dai suoi figli, seduto fra medesimi come eguale, e ad essi eguale nel vestito, ed in tutto, conoscibile solo dalla sua fisionomia, dal suo colore, e dalla sua parola angelica; più stupito poi ancora, quando sbarcato l’uomo di Dio in mezzo ad una folla d’infedeli mussulmani, dove io lo attendeva, lo viddi prostrato ai miei piedi e baciargli, come se fosse stato un piccolo ragazzo, dimentico affatto di essere il Superiore della missione conosciuto da tutti, come tale, [p. 10] in facia ad uno straniero che domandava l’ospitalità, dimentico di trovarsi in mezzo ad una folla immensa di popolo.

Ciò però non fu che il segnale di una storia che io doveva vedere ogni giorno, e più volte al giorno, ed una prova di quanto ha sempre fatto dal primo momento che è comparso in Abissinia, come mi assicurarono tutti quegli indigeni del suo seguito. Monsignore De-Jacobis ha mai portato una veste diversa dai suoi indigeni, ben soventi inferiore, e più di una volta che trovavasi scarzo di mezzi per vestire qualcheduno dei Suoi, arrivò a spogliarsi lui stesso e vestire anche lo stracio dell’altro; una volta che ho voluto farmi coraggio ed esortarlo a moderarsi un poco più, egli mi dimostrò un’incredibile riconoscenza, in modo che io credetti d’averlo risolto, ma poi con tutto rispetto ed alla larga incomminciò un discorso che finì con queste parole, che ho mai più dimenticato e che ho scritto nelle mie memorie = monsignore, disse, chi ha più diritto di vestire, il padrone o il servo? io so che Iddio, la sua Chiesa, ed i miei Superiori mi hanno mandato qui per servire e salvare questa gente, e non so altro = allora conobbi d’averla sbagliata, e cogli occhj rivolti alla mia tela di lusso, diceva fra me stesso – se Lui antico missionario /313/ che ha già fatto tanto la pensa così, cosa dovrei pensar io che ho ancora fatto nulla? [=]

Che la suddetta sentenza partisse poi da un’intima persuasione di essere servo di tutti, tutto il restante delle sue prattiche esteriori ne facevano una prova continua: Monsignor Dejacobis sedette mai in luogo distinto, ma per terra confuso fra i suoi discepoli, sia quando istruiva, sia quando predicava, sia quando conferiva con loro; egli non volle mai mangiare, ne in luogo a parte, ne cibi speciali, il bon fratello Filippini, preso qualche volta [p. 11] da un sentimento di compassione nel vederlo spossato di forze, gli preparava qualche cosa di particolare per sostenerlo, egli la riceveva con una gratitudine degna del cuore umine [!] e nobile che teneva, ma poi, appena gustata la distribuiva ai suoi Preti e monaci. Quante volte poi io stesso non lo viddi per strada camminare a piedi, mentre faceva cavalcare, ora il prete, ora il catechista, ed ora il suo servo medesimo! quante volte non lo viddi privarsi in viaggio della pelle che gli serviva di tappeto per dormirvi, e darla al compagno? quante volte egli camminava al sole cocente per lasciare al suo compagno il miserabile umbrello! non la finirei più in simili racconti, se tutti volessi riferire, mi limiterò perciò ad un sol fatto conosciuto da tutti, benché da me non veduto, ma raccontatomi da moltissimi di quelli, stati testimonii oculari, e nel tempo stesso soggetti della storia medesima; fra questi D. Gabriele alunno del collegio urbano in Roma, Sacerdote indigeno zelantissimo conosciuto da tutti in Abissinia, e da molti in Europa.

Questo Sacerdote fu uno di quelli destinati dai varii principi abissinesi, per far parte della deputazione spedita in Egitto, se non erro, nel 1838. per prendere il Vescovo. Occorrerà esporre poi altrove le ragioni sublimi che hanno prevalzo nel determinare il nostro prelato ad acettare un’incombente per se delicato e pericoloso di compromettere la sua persona, per ora l’esporle sarebbe un sortire dallo scopo attuale, mi limiterò perciò solamente a rilevare la sua grande umiltà nell’acettare simile impresa, e nel modo tutto ammirabile con cui l’ha eseguita.

Quando Dejacobis partì dall’Europa per l’Abissinia una certa speranza era stata concepita qui, che essendo, detto paese, senza Vescovo da alcuni anni, per la morte del Vescovo Cirillo, stato avvelenato, come molti sostengono, per causa di alcune questioni in materia di fede, e disgustato, come molti supponevano, dei vescovi Copti eretici, [p. 12] una spedizione colà sarebbe stata tutta a proposito per determinare il governo dell’Abissinia a domandare invece a Roma un vescovo cattolico. Monsignor Dejacobis con questa speranza nel cuore arrivò in Abissinia, e vi stette tre o quattro anni senza nulla poter fare, disprezzato da tutti e tenuto colà, come è stimato un singaro in Italia; in tutto quel tempo egli si limitò a studiare le lingue sacra e volgare del paese, ed a vincere il cuore ostinato ed orgoglioso di quegli indigeni col buon esempio suo personale; a tale effetto passava in Adoa le intiere giornate nelle chiese di detto paese in continua orazione, senza però comunicare in divinis cogli eretici; /314/ fu in questo modo che gli riuscì di conciliarsi un poco più di stima presso quei paesani; ha cercato qualche volta d’intavolare discorsi sull’affare del Vescovo con alcuni impiegati del Principe Ubiè, che furono i primi ad avvicinarsi qualche poco, ma trovò, che la politica ed il calcolo del paese era ancora molto lontano, perché il nome cattolico-romano, tal quale era stato sempre dipinto dalla razza Copta, era ancora immondo ed infame da spaventargli.

Le cose erano in questo stato, quando i principi furono tutti d’accordo di spedire in Cairo una delegazione portatrice di dieci mille scudi per la compra di un Vescovo, come i paesani colà solevano dire; la spedizione doveva essere composta di circa trenta persone delegate dai varii principi, e venti altri in qualità di servi e compagni: come gli abissinesi fuori del loro paese temono gli arabi, era questione di dare a questa delegazione un capo europeo, come persona temuta dagli arabi e dal governo egiziano, e non essendovi in paese altra persona più capace fu scielto il Signor Dejacobis come condottiero di questa spedizione: egli venuto in Abissinia con tutte altre idee e speranze, ognun può immaginarsi quale dovette essere il suo dispiacere, nel vedere, non solo perduta ogni speranza di determinare il governo a domandare a Roma un vescovo cattolico, ma dovere lui stesso andare come capo della spedizione, per prendere un vescovo eretico, il quale sarebbe stato senza dubbio un nemico giurato della sua missione: [p. 13] ognun può immaginarsi perciò qual capitale di umiltà era necessario per risolversi a fare un sacrifizio simile, il quale gli avrebbe innoltre fruttato chi sa quante dicerie; il P. Gabriele suddetto, ed altri allora al corrente di ogni cosa, mi dissero, aver passato otto giorni in continua orazione, senza ne mangiare ne vedere persona, in capo dei quali risolse di andarvi.

Il risolvere solo di andarvi era già un gran sacrifizio di umiltà, ma Dejacobis conosceva già allora abbastanza l’Abissinia, ed il genio di tutta quella gente, per calcolare quanti altri sacrifizii ed umiliazioni gli avrebbe costata l’esecuzione di simile impresa, in modo utile ed edificante per la missione che lui aveva. Il primo giorno in cui si trovarono tutti radunati sulle frontiere per sortire dell’Abissinia, il sant’uomo credette bene di far loro una parlata faciendo loro coraggio, ed esibendo loro i suoi servizii = fratelli, disse loro, la volontà del principe Ubbie è quella che mi obliga ad accompagnarvi, io poi, non solo perché il Re lo vuole, ma più, perché così piace a Dio, farò tutto il possibile per contentarvi, e voi fate capitale di me, come di un vostro servo = a queste o simili parole che lui disse risposero quasi tutti d’accordo con un’aria d’impertinenza = certamente, che sei nostro schiavo, e guai a te, se non eseguirai le intenzioni del principe, ci vedremo poi avanti di lui nel ritorno = una risposta simile unita ad altre simili impertinenze che gli dissero allora, delle quali quelli medesimi, che le avevano proferite più non si ricordavano, quando essendo cattolici mi facevano il racconto molti anni dopo, avrebbero certamente bastato ad un’altro per farne subito rifer[i]ta al Principe ancor vicino, fortunato di aver trovato un giusto motivo per ritirarsi dall’impresa, ma Dejacobis che vedeva /315/ molto lontano nelle opere del Signore [p. 14] e che era persuaso nel suo cuore di essere realmente schiavo di quella gente, e di quella nazione, in virtù di una missione come divina che l’obligava a cercare la salute della medesima e di tutti quei popoli, per qualunque via che la divina providenza [avesse] disposto, ed al costo di qualunque sacrifizio suo personale, egli invece [ab]bassò la testa, e rispose a quella turba d’impertinenti eretici = avete ragione, e coll’ajuto di Dio vi prometto di fare tutto quello che potrò, e vi rinnovo ciò che vi ho detto, fate capitale di me, come d’un vostro schiavo =

Dejacobis che non era uomo di sole parole ma di fatti sempre erojci, ciò che ha detto l’ha fatto: in tutto quel viaggio, che durò circa tre mesi per arrivare al Cairo, neanche una madre la più tenera, non avrebbe potuto fare di più per un suo figlio il più amato, di quello che fece lui per quella turba d’insolenti; occuparsi del loro vitto, portar loro dell’acqua, lavar anche loro i piedi, preparare loro il letto, alzarsi di notte, quando qualcheduno si lagnava di qualche cosa, far questioni coi marinari in mare, affinché fossero ben trattati, dar loro sempre il miglior luogo, sempre cortese nel rispondere a tutte le loro futili questioni, sempre pronto a provedere e soddisfare alle loro insaziabili pretenzioni; in somma egli per noi, disse il D. Gabriele suddetto, non aveva un momento di riposo, e pare incredibile, come un’uomo potesse far tanto; ma invece di essere noi contenti di tante sue sollecitudini, tutto all’opposto, come noi non potevamo formarsi un’idea giusta del principio sopranaturale che lo moveva a tanto fare per noi, noi nella persuasione che ciò facesse per timore delle nostre minaccie, e del principe Ubbie, oppure per altro fine secondario o calcolo d’interesse concepito a nostro riguardo [p. 15] noi invece di essergli riconoscenti diventavamo anzi più orgogliosi e petulanti; sono perciò incredibili le ingiurie da noi vomitate contro di lui, ognuno andava a gara per dirgliene delle più grosse, e siamo persino arrivati ad accusarlo di complotto coi mercanti per venderci, e guai che parlasse con qualche mussulmano, subito molti di noi correvamo per vedere il nostro conto, ed anche ben soventi per gridarlo, e per minaciarlo; a tutto questo, egli mai rispose una parola, tutto al più rispondeva con un nobile sorriso, come se gli avessimo detto una facezia per tenerlo allegro.

La storia andò avanti così sino passata circa la metà del viaggio, sono sempre poco presso le parole di D. Gabriele suddetto, ma l’umiltà, e la pazienza di Dejacobis incominciava presentarsi agli occhj di qualcheduno di noi sotto un’aspetto, prima inconcepibile, ma poi rispettabile, massime dopo che passarono certi luoghi, dove più noi temevamo di essere da lui venduti; incominciarono perciò alcuni a prendere le sue parti, quando altri si lagnavano di lui e ne parlavano male; quindi non tardò a diventare l’oggetto delle ammirazioni, ed il soggetto dei discorsi di una gran parte della deputazione; egli pure, per parte sua, a misura che ci vedeva più rispettosi, e più disposti a sentirlo, incomminciò tosto le sue conferenze, ora sulla fede, ora sul Papa, ed ora direttamente sullo scopo della nostra missione, e seppe così ben parlare, che al momento del nostro /316/ arrivo in Cairo i due terzi della spedizione erano tutti per lui, disposti anche di andare con lui a Roma per prendere il Vescovo, ma Roma era troppo lontana, e per andarvi bisognava passare in Cairo, e superare tutti i maneggi ed impegni che avrebbero certamente fatto gli eretici copti spaleggiati ancora da una parte della deputazione. [P. 16] Ognun sa però, che ciò nonostante riuscì a Dejacobis, dopo mille battaglie e contrasti, di portare a Roma i due terzi della deputazione medesima, e se non gli riuscì il colpo di prendere un vescovo cattolico, perché ancora Iddio voleva sottomettere il nostro apostolo e tutta quella missione ad una prova di molti anni, al ritorno della medesima, una gran parti [parte] di quegli abissinesi divennero cattolici ferventi, e fra loro alcuni arrivarono persino alla Palma del martirio; ognun sa pure che fu al ritorno di questa stessa spedizione, e cogli elementi della medesima, che incominciò la missione, e si destò un movimento tale da spaventare il partito copto eretico, e se la medesima si trova tuttora sotto il giogo del partito suddetto dominante, il germe cattolico però, dopo alcuni anni di aridità, sviluppatosi sotto l’influenza di un raggio sfolgorante di umiltà dell’inclito nostro eroe, nutrito coll’esempio della sua vita evangelica ed apostolica, e confermato con una morte ammirabile, non ha bisogno di altro che un poco di libertà e di pace per fare il più mirabile ecclatto. Dopo un fatto così classico, io sono intimamente persuaso di aver dato un’idea più che sufficiente dell’umiltà tutta straordinaria, sopra di cui, come sopra fermissima base si innalzava la gran mole di perfezione e di santità del nostro abuna Jacob così ordinariamente indi chiamato, eppure io non ho ancora messo fuori ciò che ho di più prezioso nel tesoro delle sue memorie, ancora non ho esternato i grandi misteri che passarono tra me e lui, segnatamente nella storia della sua elevazione all’episcopato, perché qui è, dove io ho conosciuto quel uomo, che pur vedeva coi miei proprii occhj, ornato di tante virtù, perduto in un caos di proprio avvilimento, e tale che appena si teneva in equilibrio tenendo stretto l’ancora della speranza cristiana per non lasciarsi trasportare dalla corrente della cognizione profunda che aveva di se stesso; oh se potessi qui tutti rapportare i lunghi dialoghi che passarono tra me e lui in detta circostanza! Se avessi solo le memorie che io aveva scritto, e che teneva tanto care!

[P. 17] Appena arrivato in Abissinia e viddi il carattere elevato di questo uomo, nella prima lettera che scrissi a Roma, ho incominciato subito ad esternare il mio sentimento alla S. C. di Propaganda, affinché pensasse per tempo a spedire i documenti necessaril, affinché potesse essere consacrato Vescovo Monsignore Dejacobis, della capacità e merito di cui non era il caso di farne il menomo dubbio, per poter essere io al più presto in libertà di partire per i paesi Galla. La S. C. medesima mi rispose subito, che avrebbe al più presto possibile spedito ogni cosa, ma che frattanto non mi fossi mosso da dove era, per eseguire quanto mi sarebbe stato ordinato. Frattanto, terminate che sono state tutte le ordinazioni degli allievi, le quali ci trattennero in [in] Gualà, dove si trovava la casa /317/ principale della missione, quasi cinque mesi; dopo la Pasqua il Signor Dejacobis sortì con alcuni nuovi Preti stati ordinati per visitare altri paesi, dove già vi erano dei cattolici, per mettere in esercizio i medesimi, e sul finire di Giugno 1847. arrivò da Roma il piego contenente i documenti diretto a Dejacobis mentre egli si trovava in Alitienà, nel medesimo però non si trovarono lettere per me, essendomi state le medesime mandate per altra via, le quali, invece di arrivare sino a me, per sbaglio arrivarono alle mani del Vescovo eretico, delle quali questi se ne servì poi per farmi un processo, e far decretare la mia espulzione.

Qui incominciò la battaglia tra la mia superbia e l’umiltà senza esempio di Monsignore Dejacobis: io aspettava con anzietà lettere da Roma per finire tutte le mie incombenze colla missione dell’Abissinia, consacrando il Prefetto in Vescovo; egli, che le aveva ricevute le seppelì, e se ne seppe più niente; fortunatamente il Signor Degoutin V.e Console Francese in Massawa, avendomi scritto [p. 18] per altri affari, mi disse nella sua lettera essere arrivato un piego, che gli sembrava di Roma all’indirizzo di Monsignore Dejacobis nominato vescovo di Nilopoli e V.o Ap.o dell’Abissinia; vedendo così gli scrissi subito una lettera, nella quale gli domandava se non era venuta da Roma nessuna lettera per me, credendo come certo, che sarebbe venuta nel medesimo piego la lettera d’istruzione dalla S. C. di Propaganda; ma egli mi rispose subito, assicurandomi, che nulla affatto era venuto. Allora scrissi una seconda volta dicendogli, che io non dubitava della verità di quanto lui mi scriveva, ma che perlomeno dovevano essere venute lettere, nelle quali vi erano affari che mi risguardavano; a questa seconda egli mi rispose, essere venute realmente lettere contenenti affari che risguardavano lui solamente, e che non riguardavano me, e mi pregava di restar tranquillo, assicurandomi, che in ogni caso fossero venute, non avrebbe certamente avuto il coraggio di nulla nascondere al suo padre, e via dicendo; la persona che mi portò la lettera però, presomi da una parte mi disse = cosa ha il nostro Padre, il quale ricevette la sua lettera, si ritirò, ed alcuni Sacerdoti essendo entrati da lui lo trovarono in ginocchio, che stava piangendo = non dissi altro, il vostro Padre è molto ammalato di una malattia che si chiama umiltà =, che fosse vero ciò che mi riferì la persona suddetta, mi accorsi dalla lettera stessa sopra la quale si vedevano traccie di goccie seccate, che io giudicai lacrime, che arrivai persino a baciare, tanto era il rispetto che io aveva per lui.

Per finire questo affare, sapendo che egli non avrebbe mancato di ubbidirmi, benché io non avessi titolo alcuno sopra di lui, mi risolsi di scrivergli una terza volta, e pregarlo di venire ad ogni costo in Gualà, dove io era, e ciò al più presto possibile, perché io aveva degli affari gravissimi da comunicargli, senza aggiungergli altro, dichiarandomi quasi un poco alterato con lui: non vi volle altro, non si tosto ricevette la mia lettera, lasciò persino il pranzo [p. 19] quasi preparato, e preso con se un pezzo di pane, accompagnato da un suo Prete, se ne partì, ed arrivò in Gualà la sera a notte oscura, /318/ mentre noi stavamo cenando. Come era molto stanco, ma molto più tristo in volto e malinconico, di quella sera la cosa passò così, e l’indomani mattina, dopo celebrata la S. Messa, rimasti soli in cappella, avanti all’altare entrambi seduti gli ho domandato, se non aveva ricevuto qualche documento da Roma sul proposito dell’episcopato, obbligandolo, per quanto io poteva sopra di lui, e comandandogli anche a nome di S. Santità, di cui ben poteva interpretare le intenzioni, di tutto significarmi, e nulla nascondermi.

Quando egli si vidde così attaccato, e comandato a nome del S. Padre, allora docile come un’agnello, mi raccontò schiettamente ogni cosa, ed arrivò persino a confessarmi, che non poteva mostrarmi i documenti, perché, non prevedendo che io l’avrei preso così forte e direttamente, a bella posta gli aveva lasciati in Alitienà; finita che ebbe la sua confessione, fu una vera scena, rivoltosi verso l’altare, invece di ascoltare quello che io voleva [a] dirgli, si mise a piangere, e declamare avanti Dio tutta la storia delle sue miserie, dei suoi difetti, dei suoi stessi peccati, e non finiva più, ne di piangere, ne di confessare le sue miserie, ne, per quella mattina, mi fu possibile intavolare anche solo un discorso sodo per portargli tutte le ragioni, tanto intrinseche all’affare, quanto estrinseche, onde finire la questione in discorso, ma viddi di tutta necessità aggiornare la cosa, e dar tempo, affinché si raffreddasse la sua immaginazione. Ho cercato di prenderlo molte altre volte, sciegliendo anche il momento, in cui mi pareva più tranquillo, ma sempre lo stesso, e qualche volta, una specie di agitazione convulsiva lo impediva persino a darmi una risposta diretta. Tutte le ragioni in contrario che [p. 20] seppe portarmi, furono sempre le medesime, che cioè non poteva assolutamente acconsentire di addossarsi simile peso con una certissima persuasione di non esserne capace in tutti i sensi, e con una certezza morale di non potere sostenere il solo decoro morale dovuto a simile carattere, e bastava sortire questo argomento per obligarlo subito a fare la solita confessione esaggerata di tutti i suoi diffetti, del suo cattivo naturale, e di tutto il più umiliante di sua vita; quindi nell’esaltazione del suo spirito sortiva in certe sentenze, che finivano per spaventare anche me stesso = come, diceva, io, che non sono ancora arrivato a capire cosa vuol dire sacerdote dopo tanti anni di sacerdozio, dovrò essere vescovo?... vescovo che?... che?... e qui proferiva certe sentenze sue proprie, così sublimi, e così profonde, delle quali più non mi ricordo, le quali sarebbero veri tesori se non fossero andate perdute.

Una sola risorsa mi restava ancora a tentare, ed era quella di un comando formale, come persona, la quale mi ubbidiva in tutto, come un vero novizio; a tale effetto ho preso un giorno, in cui mi pareva più calmo del solito, ed ho incominciato per fargli una conferenza sulle pressanti ragioni di risolvere presto l’affare; gli ho ricordato i bisogni della sua missione da lui stesso esposti a Roma, e come prima del mio arrivo lui stesso aveva scritto per la facoltà di mandare i giovani in Egitto per le ordinazioni; quindi gli ho fatto vedere la lettera della S. C. di Propaganda che mi comandava di fermarmi /319/ a tale effetto, e che per causa della sua renitenza restava ferma la missione Galla; poscia per spingere di più gli ho fatto presente, che l’orizzonte in Abissinia incominciava ad oscurarsi a mio riguardo, e minaciava a me un esilio, e lasciava a lui calcolarne le conseguenze; dopo di che sono passato al comando formale a nome del Papa, di cui credeva potere più che ragionevolmente interpretare le intenzioni; come se fosse disceso un fulmine [p. 21] sopra di lui, restò forse dieci minuti immobile; io ho creduto questo un buon segnale, e gli aggiunsi di pregare Iddio, e di confidare in Lui, ma il risultato fu tutto l’opposto di quanto io pensava; egli gettossi ai miei piedi, mi domando perdono nel modo il più toccante, ma poi, ecco la risposta poco presso, che mi diede, la quale pose il suggello per allora ad ogni altra mia istanza = Padre mio, io spero nella misericordia di Dio, che questa mia disubbidienza a Lei non mi sarà imputata a peccato, perché Lui tutto buono, non domanda l’impossibile, e sopratutto è certo, che egli non pretende una cosa che sarebbe alla mia debolezza un’occasione di peccato, forze di scandalo all’episcopato, e di rovina a questa missione, è perciò impossibile che io mi possa risolvere; anche nel caso che tutto questo non fosse, io sono religioso, e l’episcopato inchiude una specie d’emancipazione dal corpo dell’Ordine a cui appartengo, e che tanto amo; Lei inutilmente si affatica, perché deve sapere, che è impossibile risolvermi a fare un simil passo, se prima non sono moralmente certo, non solo della permissione, ma di un comando formale del mio P. generale, a cui appartiene la mia persona; la Chiesa è sopra il mio P. Generale, ma Lei conosce abbastanza, che tutti quelli che la Chiesa intende nel caso di onorare con una carica, non s’intende sempre di inchiudere il comando; perché dunque Lei mi stringe con un comando così grave, mentre Roma non parla così? Lei poi, nel caso, io la dichiaro in libertà, e se vuole lo metterò anche per scritto a suo discarico presso i Superiori =

Una risposta così assoluta, e così categorica, certamente che ha dovuto chiudermi ogni via per instare di nuovo, confesso però di esserne stato in quel momento sommamente disgustato, e direi quasi scandalizzato della sua pertinacia, e non fu che la sua gran santità di vita, ma più ancora la sua prattica di risolvere sempre tutte le questioni più gravi per vie e mezzi termini sempre superiori al calcolo comune, quello che mi fece rispettare allora in Lui [p. 22] la preponderanza del sentimento umile sopra quello dell’ubbidienza. Naque intanto la persecuzione, ed io fui obbligato dal principe Ubié a sortire dall’Abissinia; il bisogno di cercare un’altra strada per recarmi ai paesi Galla, luogo della mia missione mi fece partire ancora da Massawah per Aden, e di là per la costa orientale d’Affrica detta dei Zeila, o dei Somauli, per tentare di penetrare di là, verso lo Scioha. Trovandomi colà in Ottobre dell’anno seguente 1848., una lettera privata mi avvertì, che Roma aveva sentito con dispiacere il mio allontanamento dalla costa di Massawah prima di aver consacrato in vescovo Monsignore Dejacobis, e che invece ogni cosa veniva /320/ attribuita ad una mia debolezza, a fronte che io non avessi mancato di tenere Roma al corrente di quanto passò tra me ed il suddetto.

Spiacente di ciò, ho lasciato la costa di Zeila, verso il fine di Ottobre suddetto, e ripassato lo stretto di Babelmandel [nota di M.: Ba-el-mandeb: porta dell’ansietà], sono arrivato in Massawah sul principio di Novembre detto anno, dove il nostro santo uomo si trovava pure, stato anche lui obligato a sortire dall’Abissinia, qualche mese dopo di me. Gli ho significato il motivo della mia venuta, quello appunto di consacrarlo Vescovo, pensando, che, dopo quattordeci mesi aveva avuto tempo a pensarvi, ed anche per intendersela coi suoi Superiori; per rinforzare l’argomento gli ho fatto vedere la lettera summentovata, e non ho lasciato di fargli conoscere, come il suo rifiuto mi aveva anche fruttato qualche dispiacere. Egli provò un sommo dispiacere, anzi direi che rimase molto confuso al sentir questo, e da Santo quall’era fece delle umiliazioni incredibili, domandandomi perdono, per essere stato causa di tanti miei disturbi.

Vedendolo così umiliato e pentito di tutte le storie passate, ho creduto un momento di trovarmi a bon porto relativamente alla questione principale della sua consacrazione, ma egli più furbo di me, prevenendo tutto quello, che io stava per dirgli in proposito, [p. 23] mi dodandò [!] otto giorni di tempo per pensare a se stesso, in capo dei quali, avrebbe esternato il suo sentimento, e mi avrebbe dato tutta la soddisfazione possibile; la domanda era troppo giusta per rifiutarla, e come pareva che la questione che mi interessava di più fosse a bon porto, ho creduto di lasciarlo tranquillo, e così lui coi suoi preti e chierici si ritirò nella casa di Moncullo in terra ferma, ed io sono rimasto nell’isola di Massawah ad aspettare che il frutto maturasse spontaneamente, senza espormi a rinnovare tutte le scene antiche. Come passò quegli otto giorni in una perfetta solitudine col suo clero indigeno, facendo una specie di ritiro spirituale, e mi risultò che aveva raccomandato a tutti di pregare, e spedì persino l’ordine di pregare a coloro, i quali si trovavano nell’interno, a custodire le loro stazioni, io mi sono confermato nella mia persuasione, che in capo agli otto giorni si sarebbe fatta la tanto desiderata consacrazione, ed a tale effetto io mi stava preparando, come funzione tutta nuova per me, solamente io non ne parlava, neanche con il mio compagno P. Felicissimo, ora Vescovo di Marocco e mio coadjutore, perché attese le persecuzioni insorte, sarebbe stato il caso di farla secretamente.

In capo agli otto giorni, invece di venire lui da me, mandò un Sacerdote indigeno con un grosso piego, contenente un grosso quinterno di scritto, accompagnato da una letterina, nella quale mi pregava di leggere quello scritto con attenzione, e che dopo due o tre giorni sarebbe venuto lui stesso in persona a sentirne il mio sentimento. In questo scritto egli faceva un racconto genuino di tutte le questioni passate in Gualà tra me e lui, relativamente all’affare del vescovado; quindi una rivista più che esatta, anzi esaggerata delle medesime confessioni sacramentali fatte a me, nel suo senzo tutte gravissime, (confessioni, che ora dopo la sua morte, posso dichiarare /321/ perfettamente vuote, nelle [p. 24] quali, spremuti tutti i suoi timori, e le sue pene, era sempre un fastidio potersi assicurare della materia sufficiente al Sacramento) e con questi materiali alla mano mi faceva una specie di processo, nel quale intendeva di spaventarmi con una risponsabilità tremenda, e mi invitava a riflettere bene a tutti i passi da me fatti per la sua nomina, e mi pregava a lasciarlo in pace, e non spingere di più a mettere il suggello ad un gran sbaglio da me commesso, e fatto commettere dalla Chiesa stessa, sbaglio che mi avrebbe costato un’eterno rimorso. Passava quindi a dirmi, che, nel caso, che i suddetti riflessi non avessero bastato ad arrestare il mio impegno di volerlo ad ogni costo consacrare, suo malgrado si vedeva obligato in coscienza a rifiutare, e che mai si sarebbe determinato ad acconsentirvi, se prima non veniva accertato della realtà del precetto che io gli aveva fatto a nome del Papa, cosa che lui ancora considerava, come un semplice calcolo mio, onde risolverlo.

Per ciò che risguarda lo scritto suddetto, prescindendo da tutto ciò che è semplice fatto personale, per lo più tutto esaggerato, perché passato per il microscopio della sua umiltà troppo forte, e manovrato dalla sapienza infinita, e providenza paterna di un Dio, il quale con ciò voleva tenere nell’equilibrio, della più profonda umiltà, quell’anima grande, e per se stessa di una natura molto vivace e pericolosa; tutto il resto poi si poteva dire un piccolo trattato non studiato sui libri, ma frutto di una profonda meditazione, e puro sugo, succhiato nella contemplazione del carattere sublime del Sacerdote e del Vescovo, il quale presentava delle idee e delle sentenze tutte fuori della comune, e così vive e forti, che io ne restava sempre colpito ogni qual volta le leggeva; la stessa storia umiliante di se medesimo, che faceva, per chi lo conosceva personalmente, era una lezione prattica la più semplice e chiara del modo economico, con cui Iddio suol tenere in equilibrio dell’umiltà cristiana [p. 25] le anime, anche più elevate e dotte, e che la dottrina aquisita serve a nulla per guidare se stesso; io confesso, che ho incominciato allora a conoscere come potevano i gran Santi, e quelli medesimo stati da Dio onorati in modo particolare col dono dei miracoli, oppure con qualche altro segnale straordinario, come S. Francesco, colle stimmate, potevano, dico, non solo contenersi nei limiti di un’umiltà cristiana, ma chiamarsi gran peccatori senza pericolo di affettazione, o di bugia, come è cosa certissima e chiara. Io teneva molto prezioso questo scritto, sempre presso di me, e soleva chiamarlo la mia camera oscura, e me ne serviva qualche volta, come di un bicchierino di elixir lunga vita per scuotere le indigestioni morali, e per scuotere il cuore, caduto nel torpore e nella negligenza. Questi rimase in Kafa nel mio esilio, e sarebbe una disgrazia se andasse perduto, come è da temere. Dopo la sua consacrazione in Vescovo, egli ha cercato di ritirarlo, ma io ho rifiutato di darglielo, dicendogli, che era troppo a proposito che stesse nelle mie mani, per ogni evento che fosse vero ciò che lui in esso mi rimproverava, per farne la dovuta penitenza.

Ritornando allo scopo, al vedere questo scritto, sono caduto dalle stelle, e conobbi subito, che senza un miracolo di Dio, oppure un /322/ comando diretto del Papa, non era più possibile sperare qualche cosa; stava perciò sul dubbio di spedire a Roma lo scritto suddetto per far conoscere lo stato della questione, ed anche per mio discarico, ma il medesimo, nella parte che concerneva il merito della persona non poteva essere ben inteso, se non da chi ne conosceva in prattica la persona, e mi sarebbe rincresciuto, se la S. C. di Propaganda avesse accettate per buone la sue ragioni. Mentre io mi trovava in questo guazzabuglio di perplessità, Iddio incominciò un movimento di circostanze che dovevano finire la questione determinandolo ad accettare contro ogni mio calcolo umano.

[P. 26] Il governo turco da un secolo circa era padrone dell’isola di Massawah, la terra ferma apparteneva al Naïb capo della tribù Soho, il quale aveva la sua residenza in Dehono, detto anche Arkeko, ed era come tributario antico dell’Abissinia, da cui riceveva la sua investitura; nel mese di Febbrajo 1847. il governatore di Massawah Ismaele Effendi fece la guerra al Naïb, e si impadronì di Arkeko e della costa, facendovi alcune fortezze in terra ferma; il Naïb avendo fatto ricorso al principe Ubbie, questi, nel Decembre 1848., appunto nella circostanza indicata, trattava di discendere alla costa per fare la guerra ai Turchi; tutta la popolazione suddita o protetta dei Turchi ha dovuto lasciare la terra ferma e ritirarsi nell’isola, come il solo punto sicuro dall’invasione abissinese, lo stesso Signor Dejacobis colla sua famiglia ha dovuto lasciare Monkullo, e rifugiarsi in Massawah.

Sul principio di Gennaio 1848. discesero le truppe di Ubbie alla costa e fecero un massacro di tutte le popolazioni amiche dei turchi che ancora restavano in terra ferma; fu allora, che lo stesso Vice console Francese Degoutin, come amico del principe Ubbie, credendo poter restare in Monkullo, corse gran pericolo di essere ammazzato, e fu abbruciata la bandiera che aveva messo sopra la casa. Tutta la popolazione araba fanatica mussulmana, vedendo il massacro che i cristiani d’Abissinia avevano fatto dei mussulmani in terra ferma, minaciavano una rivolta nell’isola di Massawah per vendicarsi contro la casta cristiana colà ritirata; il governatore turco Kalil Bey, temendo di non poter contenere la popolazione tutta minaciante nell’isola stessa, pensò di salvare gli europei, come quelli, i quali avrebbero potuto complicare la politica turca in facia alle nazioni europee, in caso di massacro, ed intimò a tutti noi di ritirarci in mare sopra delle barche che lui stesso ci accordò. Il giorno 5. Gennajo si passò quasi tutto nel più grande scompiglio, ed abbiamo in detto giorno trasportato tutti gli effetti [p. 27] sopra le barche, e come la mia casa era proprio sul mare con un’uscita immediata al medesimo, tutti gli europei erano colà radunati, disposti a mettersi in mare, venendo un cattivo momento; verso sera, quando tutto era come finito, mi trovava col Sig. Dejacobis ed alcuni suoi Preti indigeni ed ho fatto al medesimo una forte parlata di risentimento, dicendo, che per causa sua io soffriva tutti quei disturbi, ed un poco di collera mi fece profferire ancora certe parole, dalle quali il Sant’uomo è rimasto ferito, e fra le altre cose dissi = Lei per umiltà non vuole esser Ve- /323/ scovo, i vescovi delle missioni sono vittime e non sposi... che non sia l’amor proprio quello che fa tanto rumore, e simili = tanto bastò, e contro ogni mia aspettazione si gettò per terra, mi domandò perdono, e finì per dirmi di fare di lui ciò che Iddio mi avrebbe inspirato.

Veduto così, ho pregato un certo Alessandro Vissier Francese di andare dal governatore, e pregarlo di mandarmi dei soldati per assicurarmi nella notte, onde poter ultimare alcuni affari; ho fatto venire subito la cassa dei parati sacri, e lasciata la cappella, dove soleva celebrare, perché troppo verso la porta vicino all’adito dell’interno dell’isola, abbiamo fatto la cappella nella stanza sopra il mare, dalla quale, in caso di assalto potevamo discendere, ed entrare nelle barche, dove già ci aspettavano tutti gli altri europei: così poco dopo la mezzanotte, scortati dalle guardie, che custodivano tutti i passaggi che potevano dare l’adito alla casa, e gli europei che ci guardavano dalla parte del mare, coll’assistenza di due soli Sacerdoti indigeni fu incominciata la funzione della consacrazione di Monsignore Dejacobis, la quale finì sul fare del giorno. Io sono stato consacrato in Roma da S. Em: il cardinale Franzoni, nella Chiesa di S. Carlo del corso, in compagnia di M.r Nikols arcivescovo di Corfù, e M.r Casolani di Malta, con una solennità che fece correre la metà di Roma; M.r Dejacobis tutto all’opposto è stato consacrato [p. 28] di notte come un ladro, dentro un tugurio, coll’assistenza di due Sacerdoti indigeni neri; nella mia consacrazione vi erano centinaja di preti e chierici assistenti ed una musica che incantava, laddove in quella di M.r Dejacobis noi dovevamo fare da Chierici e da funzionanti, costretti persino a lasciar l’altare, quando mancava qualche cosa, perché i due preti indigeni assistenti essendo di rito etiopico, nulla capivano del latino, ed erano presenti come due statue; in luogo della musica si sentivano gli urli della città e le minaccie di morte da tutte le parti. Con tutto ciò entrambi eravamo così commossi, che la S. funzione fu accompagnata da continue lacrime di tenera consolazione, e la somma tranquillità con cui il nuovo aronne riceveva la Sacra funzione pontificale, dopo tante pene e ripugnanze, era un segnale parlante, che Iddio voleva in quel momento riempire quel caos tenebroso di umiltà con altrettanti tesori di lumi e di grazie.

Io veggo in questa storia due arcani, l’umiltà cioè del uomo di Dio che aborriva l’episcopato fino a tanto che si presentava con un’aspetto di onore da compiacere anche solo momentaneamente il senso, e l’armoniosa providenza del suo buon Dio, che lo voleva vescovo, ma senza incorrere anche solo un momento il pericolo di macchiare questa sua prediletta virtù. Benché l’episcopato per se stesso sia ben tutt’altro che un semplice onore, ma una vera schiavitù del cuore del[l’]uomo, in certo modo, della natura medesima di quella che il verbo divino incontrò nel mistero inneffabile dell’incarnazione, in cui si vestì della nostra umanità per niente altro, che per sentirne tutti i bisogni e portarne tutti i pesi, e le risponsabilità della medesima al cospetto della divina giustizia, fatto Sacerdote eterno per sacrificarsi ed essere sempre sacrificato; così parimenti il vescovo, /324/ l’espressione vivente, e la continuazione del Sacerdozio di Cristo sopra la terra, egli si spoglia solennemente della sua libertà di privato per vestirsi della personalità della Chiesa, ed essere investito del carattere sublime, il quale mentre lo costituisce padre del suo popolo, per sentire tutti [p. 29]. bisogni della sua famiglia, e solidariamente risponsabile della medesima; per la quale deve continuamente offrire se stesso a Dio in sacrifizio di pazienza, per compire il sacrifizio eterno della croce, come membro di Cristo; per altra parte poi lo fa entrare a parte nell’amministrazione del sacro deposito della fede, con doveri, subordinati bensì al capo della gerarchia evangelica, ma pure illimitati, di travagliare e zelare, non solo per la custodia della medesima, ma per la diffusione a tutto il mondo, in adempimento del divino precetto.

Benché, come dissi, l’episcopato longi dall’essere un’onore, è anzi un peso tremendo per chi seriamente riflette, ciononostante, dovendo la Chiesa rappresentare nell’ordine esterno una società di sua natura molto grave e sublime, la gerarchia della medesima non lascia di essere vestita nel suo esteriore di certe apparenze capaci di allucinare un momento il cuore dell’ecclesiastico meno cauto e guardingo, il quale, nella bilancia, pende più verso la materia, e verso il senso, a preferenza dello spirito. Dejacobis perciò, perduto nel caos tenebroso della sua umiltà, vedeva nell’episcopato due estremi pericoli, quello cioè di restarne schiacciato sotto il grave peso, intimamente creduto da lui superiore alle sue forze, e quello di esser preso nel lacio di un’apparato di gloria vana e bugiarda, motivo per cui egli si dibattè, si divvincolò a preferenza di cedere e di acettare, benché fosse disposto, anzi risoluto di consumare la sua vita nel più rigoroso e sublime apostolato.

Iddio poi anche, il quale voleva in Dejacobis presentare un tipo di umiltà senza esempio alla nazione di Abissinia, la quale aveva perduto persino l’idea di questa evangelica virtù, e nel tempo stesso un’esempio all’episcopato, di un uomo, il quale ha compreso in tutta la sua profundità il senso di un tanto sub- [p. 30] lime carattere del sommo Sacerdozio cristiano, ben tutt’altro che di sola gloria, ha permesso da un canto tutta la varietà della storia da noi citata di forte e generoso ripudio dell’episcopato considerato come dignità, ma poi dall’altro canto maneggiò e preparò le circostanze in modo, che lo acettasse poi, direi quasi, con un certo trasporto di piacere, quando l’episcopato si presentò a lui nudo affatto, e spogliato persino di tutta la sua maestosa cerimonia, e si presentò nel suo vero senso di sommo sacerdozio coronato di spine con Cristo nel pretorio, e crocifisso con lui sul calvario.

Non son queste combinazioni di semplici parole, o combinazioni rettoriche di un discorso studiato, ma un gruppo di fatti tutti sinceri e reali, dei quali io sono il testimonio, l’attore in certo senso, e l’oratore, fortunato di poter render giustizia, prima di morire, senza timore di offendere più la sua umiltà e modestia; Dejacobis dopo quasi due anni di resistenza e di combattimento contro la dignità, a cui veniva elevato, e non acettò, se non quando il consi- /325/ glio dei maligni prevalendo sopra di lui, fu cacciato dall’Abissinia come un’immundezza, ed arrivato alla costa, nel luogo stesso del suo rifugio in Massawah, un turbine di lancie girava al vento per coglierlo, ed allora, come un ladro di notte fu consacrato colla speranza di morirvi pontefice sul calvario con Cristo, offrendo se stesso vittima per la sua diletta Abissinia; fu pontefice quasi dodeci anni, ma vidde mai le divise pontificali, volle, neanche una sol volta godere l’onore di celebrare pontificalmente, ed io stesso che scrivo, nella sua consacrazione mi son levato di capo la mitra per coronare la sua testa di recente consacrata, mi son levato Pannello per metterlo a lui, mi privai del pastorale mio per innaugurare il suo nuovo potere, e così della croce; ne, per quanto io sappia, vidde più queste insegne del suo nuovo carrattere; egli poscia, riprese le sue vesti, ed il suo sistema di apostolo pellegrino in abito di selvaggio, tale visse, e tale morì in deserto sotto un piccolo albero di mimmosi, specie di spina Christi; se questo non è un portento di umiltà, lo giudichi chi ha senso cristiano.

Io per me, direi, che Dejacobis fu tanto umile, che ho dovuto studiare, e solamente ai piedi del crocifisso [p. 31] Gesù, unico maestro di questa sublime virtù, l’Alif dell’alfabeto Cristiano, ho potuto penetrare i sublimi calcoli di quella grand’anima, o direi meglio, le vie misteriose della Previdenza medesima che lo guidò, per non interpretare il grande avvilimento di se, ed il troppo rispetto che usò sempre per tutti, sì indigeni, che europei, come una sua debolezza, e per non mettermi anche io dalla parte del volgo che osò criticarlo, perché non arrivò a comprenderlo.

Iddio quando vuole usare misericordia con una nazione traviata e perduta, suole sciegliere i mezzi e le persone che più sono al caso, e suol dare alle medesime i lumi e le grazie proporzionate alla missione; è questa una dottrina insegnata dai Santi padri, e tenuta dalla Chiesa; il nostro Dejacobis è stato l’eletto fra mille, e lui solo colla sua umiltà ammirabile ha potuto fare quello che ha fatto colà. L’Abissinia paese perfettamente pagano nella sostanza, solo con certe forme esterne di cristianesimo, come sogliono divenire per lo più tutti gli eterodossi, aveva perduta tutta la sostanza della dottrina cristiana, particolarmente, io stesso ho osservato, che l’umiltà evangelica, che ne è la base di tutto, era così dimenticata in quel paese, che non se ne trovava neanche più l’idea fra i medesimi anacoreti, i quali, in tutto il resto, di un’austerità senza esempio, avrebbero poi creduto dar scandalo confessarsi per miserabili e peccatori; l’Abissinia era, ed è tuttora una coppia perfetta del popolo ebbreo all’epoca di Cristo, colle medesime esteriori osservanze, il medesimo orgoglio, e colla stessa ipocrisia di scribi e farisei; essa non conosceva più Cristo mite ed umile di cuore, come non lo volle conoscere l’Ebbreo.

Oltre di ciò, l’eterodossia cristiana dell’Egitto che aveva inviluppata quella povera nazione nel scisma e nell’eresia, come sappiamo accadere sempre fra gli eretici, nei dodeci secoli di magistratura esercitata colà, lasciando affatto il ministero della parola, non fece altro che chiudere le finestre, affinché [p. 32] non entrasse la luce catto- /326/ lica, e tutta l’istruzione essendosi ridotta ad un libello famoso contro il cattolicismo, e contro tutta la razza europea, era divenuta questa perciò così infame ed immunda, che [Dio dovette mandare all’Abissinia in monsignor Dejacobis un libro vivente, vera copia del Vangelo. Egli le mandò un vero apostolo, immagine di Gesù dolce ed umile di cuore, il quale fece conoscere a quel povero popolo, in un modo pratico e meglio che con qualsiasi possibile insegnamento, la vera idea della vita cristiana, ed in tal modo partorì alla Chiesa una moltitudine di nuovi fedeli degni dei primi secoli della fede].