Massaja
Lettere

Vol. 3

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Al padre Fabiano Morsiani da Scandiano OFMCap.
procuratore generale delle missioni – Roma

[F. 1r]Padre mio R.mo

Alessandria 21. Maggio 1866.

Di ritorno da Gerusalemme, dove ho dovuto recarmi per la consacrazione di un Vescovo, ho trovato qui in Alessandria molte lettere che mi aspettavano, venute parte dall’Europa, e parte dalla missione. Fra le lettere venute d’Europa ve ne ha una della S. C. di Propaganda, nella quale sono invitato a venire in Roma; le lettere poi venute dalla missione sono lettere, le quali domandano tutto l’opposto, come potrà vedere dalle medesime che Le acchiudo qui tali quali sono, affinché le possa leggere ed anche renderle ostensive alla S. C. suddetta in qualche loro parte; più Le mando aperta la stessa lettera di risposta che facio alla S. C. medesima, affinché sappia come scrivo.

/370/ Lascio poi a Lei considerare se un semplice invito della S. C. di Propaganda debba prevalere al precetto che la medesima mi fa di pensare alla missione, e di provedere ai bisogni urgenti della medesima.

[F. 1v] Se la S. C. vuole che io venga a Roma me lo comandi in modo che io mi trovi sgravato dall’obligo suddetto, e sarò subito ai suoi ordini, ma a cosa mi servono i semplici inviti? Se la missione anderà a male ed avrà uno sfratto totale, a cosa mi serviranno tutti gli altri lavori di grammatica, di teologia, e lo stabilimento stesso di educazione? Se Ella legge le mie lettere precedenti conoscerà da alcune mie espressioni che io in Nizza ho avuto un presentimento delle lettere venute oggi, quando ho deciso di partire. Quando io gridava tanto, perché mi si prolungavano tutte le mie operazioni del catechismo, e simili, allora io passava quasi come un’energumeno, ma io sapeva bene quello che io diceva. Nell’interno tutto il mondo stava in attenzione sperando sulle mie operazioni, ma vedendo passare gli anni senza nulla fare si sono disanimati, e forse hanno creduto che io gli abbia dimenticato, e che me ne stia qui a divertirmi. Essendo andato a male tutto quello che ho tentato, è troppo giusto che io facia almeno un’apparizione sulla costa, onde sforzarmi in tutti i modi di soccorrergli come posso; se non [f. 2r] altro, veggano che io non gli ho abbandonati, ma che il mio cuore è con loro.

Ella legga le lettere di Monsignor Felicissimo e del P. Leone; si prenda le note che crede utili, sia per trattare le questioni colla S. C. di Propaganda, sia ancora per la storia che scrive il P. Lettore Rocco. Quindi mandi tutte queste lettere al Vice Prefetto, per sua norma; ma raccomandi a questi di tener segreto ciò che non conviene publicare per non disanimare i novelli missionarii.

Rapporto a ciò che scrive il P. Leone, è tutto vero quello che dice di Kafa, perché conforme alle relazioni del P. Ajlù Michele, che stanno nelle mie mani, e che sono ancora in via di traduzione. Quello poi che dice rapporto a Ghera parte è vero, parte no, ma essendo scoraggiato esaggera un poco il male, come può dedursi da alcune sue espressioni. I progetti poi che Egli fa sono tutti buoni, ma deve sapere che è il suo debole di sempre pensare ad altro, invece di fissarsi in ciò che tiene da Dio. Bisogna poi dire che egli stesso è la causa che il Re lo tiene come prigioniere onorato, perchè contro il mio avviso ha voluto farsi conoscere come capace di fare qualche cosa; ora dice che è prete e che non sa fare, [f. 2v] ma avrebbe dovuto tenere questo linguagio da principio. Per me io veggo come una Providenza che quel Re non lo lascii partire, perché è troppo necessario colà per assistere da vicino la missione di Kafa, come Vicario da quelle parti. Il P. Leone ha delle idee giuste, ha dell’iniziativa, è zelante, di buoni costumi, ma è francese di sangue, cioè variabile, si scoraggisce facilmente, e scoraggito vale più nulla, ed hanno bisogno di passare altrove per fare un’altra furia. Per rapporto alla Pasqua, non è cosa nuova, tutta la missione osserva la pasqua orientale e Roma lo conosce, perché lui di propria autorità cerca di fare la Pasqua latina? chi dice che non si possa dare rito /371/ latino colla Pasqua orientale? non ha ultimamente ordinato la chiesa ai riti orientali di tenere la Pasqua latina? Lo stesso si deve dire della difficoltà che avvi in Kafa per gli Europei e per i preti Galla non circoncisi; per questo vi è un rimedio molto semplice; la Chiesa permette in Abissinia la circoncisione, purché non si facia come cerimonia religiosa, e non si creda necessaria; nel senso medesimo si può permettere la circoncisione ai nostri giovani Galla. S. Paolo dice, neque circumcisio aliquid valet neque praeputium, l’uno e l’altro essendo indifferente, stabiliendo per base di nostra istruzione che la circoncisione non è comandata, [f. 3r] non bisogna poi andare troppo avanti con dire che il praepuzio sia necessario. Sono tutte queste difficoltà che nascono da principio, fino a tanto che l’oracolo del ministero non è abbastanza stabilito per far fronte all’abitudine religiosa del paese. Per altro si vede che lo stesso Guccirascià in Kafa ha venerato e venera il nostro ministero.

Più grave poi è l’affare che scrive Monsignore Cocino nelle lettere dirette al fu Monsignore Biancheri. Già prima in alcuna lettera precedente sua, che V. P. R.ma ha veduto, Monsignore Cocino avendo riferito che era stato ucciso il mago serenatore., se non erro, io scriveva a Lei, che col tempo questa questione avrebbe fatto dei martiri colà; la storia si avvicina molto. Fu sollevata questa calunnia dai mercanti mussulmani contro di noi da principio, e specialmente nel 1856., in cui una sera una banda di popolacio venne in massa contro di me per uccidermi in casa, ma questa fu allora sbaragliata dai vicini nostri e specialmente dai Cristiani. Dopo di ciò la cosa non si fece più sentire, ed io calcolava che in seguito aumentandosi qualche poco i Cristiani nostri, dovesse cessare questo fermento. Avendo lasciato quella missione sul principio dell’anno 59. per recarmi in Kafa, quella piccola Cristianità stette stazionaria e si raffreddò. Di ritorno [f. 3v] da Kafa nel 1862. ho cercato di risvegliarla, ma ho avuto troppo poco tempo, sempre ammalato, e con mille altre tribolazioni. Vedendo risvegliata di nuovo questa questione dopo la mia partenza, mi fece temere. In speculativa sono convinto che qualche martire sarebbe bono per quella missione, ma in prattica è cosa dolorosa. Anche la sola espulsione da quel luogo sarebbe un’evenimento fatale, perché è il luogo centrale che si presta per le relazioni con tutti gli altri paesi. Monsignor Cocino avrebbe dovuto spingere il ministero, cosa forse un poco negligentata; quindi lasciare qualche tempo il paese per dar luogo alla calma; gli ho scritto di farlo, ma non so se la mia lettera gli sia pervenuta.

Da tutti questi trambusti bisogna dire che quella missione non potrà rilevarsi, se non quando avremo un clero indigeno più numeroso, e capace di reggersi da sé, come è avvenuto in Kafa; dove avvi un movimento consolante, perché il P. Hajlù Michele è uomo capace di reggersi da se. L’operazione per il clero indigeno è incominciata e speriamo che Iddio la benedirà. Io frattanto tenterò l’operazione di una posizione vicina alle coste, onde accertarsi di più di poter soccorrere quella missione o missioni, ed appoggiare così anche l’animo e coraggio della medesima.

/372/ [F. 4r] Quando Le scrissi da Marsilia dovendo darle ragione della mia partenza precipitata Le ho mandato due lettere, una del R.mo Custode di Terra Santa, ed un’altra del P. Elia Segretario di questo Vescovo, per così provarLe una delle minime ragioni. Dalle medesime ha potuto comprendere che io veniva con intenzione di adoperarmi per aggiustare le cose. Una delle ragioni diffatti, le quali mi hanno determinato di andare in Gerusalemme, è stata anche questa. Appena ho veduto le cose come erano ed ho esaminato i documenti da una parte e dall’altra, mi accorsi che la cosa non sarebbe stato più in tempo da poter aver luogo una mediazione officiosa, essendo già la questione troppo avvanzata in Roma; mi sono perciò ritirato dall’impresa. Postochè Ella ha veduto documenti piuttosto odiosi che favorevoli a questo Vescovo è bene che abbia anche le chiavi opposte della questione per ogni caso che fosse consultato come consultore. Il R.mo Custode in quella lettera si lagna di Monsignore perché ha levato il parroco, e l’ha sospeso senza prevenirlo, ma quando il parroco stesso dichiara di non potere assoggettarsi al Vescovo perché proibito da lui, anzi in certo modo eccitato con lettere poco convenienti? Dico questo unicamente per temperare l’impressione che potrebbe aver fatto quella lettera sopra di Lei. Del resto potrei dirLe [f. 4v] che conosco questa questione da venti anni; conosco i sospiri del fu Monsignor Guasco, il quale sacrificò il progresso della missione per la pace coi suoi religiosi, come fece anche questi per lo spazio di cinque anni. Per farLe conoscere la cosa basta dirLe che in questa città di Alessandria sola vi sono 30. mille cattolici, e sono ancora governati come lo erano quando ve ne erano solo 200., cioè neanche la centesima parte. Non vogliono curati, ma che il guardiano pro tempore sia il parroco, non vogliono divisione di parrochie, non vogliono introduzione di altri corpi, non vogliono clero indigeno, e mille cose simili. Una sola risposta datami dal R.mo Custode basterebbe per condannarlo: Monsignore vuole missionarii, ed io non ne ho; ma benedetto uomo, perché dunque impedisci di chiamarne altri? Questi buoni religiosi considerano tutti questi paesi come una vera proprietà; gli stessi lasciti fatti per la missione sono incorporati a Terra Santa, e la missione non migliora. Ora giudichi Ella da questo saggio. Io stesso due anni sono ho acconsentito che si comprasse in Suez una casa in società con Monsignore per le viste che Ella sa; questa casa esiste ancora, ma io mi sono spaventato, perché avrei dovuto prendere io l’iniziativa contro questi Padri, che d’altronde amo e venero molto. Le basti per ora, prima di chiudere il piego farò un post scriptum se occorrerà. L’abbracio nel S. crocifisso e sono

Fr: G. Massaja V.o