Libro dei Miracoli
di Santa Fede
Trad. Maurizio Pistone

Libro I

Latino →

1.

Come Santa Fede ridiede gli occhi a Witberto, a cui erano stati strappati

Nel territorio del Rouergue, dove riposa la beatissima vergine Fede, nelle vicinanze del borgo di Conques vive ancora oggi un prete, di nome Geraldo. Egli aveva un cugino di nome Witberto1, che gli era anche figlioccio di cresima; questi lo serviva come domestico2, e amministrava con competenza i suoi beni.

Una volta questo Witberto si era recato a Conques per la festa patronale. Terminata la consueta celebrazione della vigilia, il giorno successivo, cioè proprio nel giorno della festa, tornava a casa, quando per sua disgrazia incontrò il suo padrone, che era animato da un nascosto odio nei suoi confronti. Questo prete, quando se lo vide di fronte con l’abito del pellegrino, all’inizio gli parlò in modo pacifico: Eccoti, Witberto; vedo che ti sei fatto romeo3, — così in quel paese si chiamano i pellegrini dei santi. Questi rispose: Sì, torno dalla festa di santa Fede. L’altro, dopo aver scambiato qualche parola con atteggiamento quasi amichevole, lo congedò. Ma appena si fu allontanato un poco, questo sacerdote, traditore come Giuda – se pure si può chiamare sacerdote colui che contamina con sacrilegio il sacerdozio – voltatosi indietro gli ordinò di avvicinarsi di nuovo; e subito ordinò ai suoi servitori di prenderlo, da una parte e dall’altra, e di tenerlo fermo.

Witberto, spaventato, cominciò a chiedere di quale crimine lo accusasse. Ma quel traditore gli rispose minacciosamente: Tu mi hai fatto un torto, e ti prepari a farmi di peggio; e come soddisfazione, pagherai con niente di meno che la perdita degli occhi. Ma quasi vergognandosene, non volle dichiarare apertamente la colpa di cui lo accusava. Infatti per un sacerdote è ignobile emettere una condanna per rancore personale, poiché la causa di quel delitto era il sospetto relativo al possesso di una donna4.

Ma Witberto, che era all’oscuro della cosa, disse, convinto di poter dimostrare la sua innocenza: Signore, se mi dirai chiaramente qual è la colpa di cui mi sospetti, io posso rispondere secondo la legge, non penso che si possa trovare qualcosa per cui debba incorrere nella tua ira e in quella dei tuoi servitori. E quell’altro: Basta con queste inutili scuse: ormai la cosa è chiara, ed è stata proferita la sentenza che tu sia privato degli occhi.

Witberto, vedendo che quello si accaniva ferocemente su di lui, e rendendosi conto che incombeva irreparabile l’ora della sua rovina, e vedendo che non era più tempo di pregare, e che ormai non c’era più speranza di salvezza, tuttavia gridò: Signore, ti prego, abbi pietà, e se non credi alla mia innocenza, fallo almeno per amore di Dio e di Santa Fede, per la cui devozione qui ora porto il sacro abito del pellegrino.

Ma quella belva feroce, non curandosi né di Dio né della sua Santa, mandando un urlo di rabbia, vomitò il veleno della bestemmia da lungo tempo concepito con queste parole sacrileghe: Né Dio né santa Fede oggi ti libereranno, e non ti servirà a nulla pregarli; non te ne andrai impunito dalle mie mani, e non sperare che per la reverenza verso l’abito del pellegrino io ti consideri inviolabile, poiché per me sei intollerabilmente odioso.

Dette queste cose, ordinò ai suoi uomini di gettare quell’innocente a terra e di strappargli gli occhi. Ma nessuno dei suoi, che erano tre, i cui nomi preferiamo non citare per la barbara asprezza di quei suoni, volle farsi trascinare in un simile crimine; quello, ottenuto che almeno lo tenessero fermo, scese da cavallo, e con quelle stesse dita con le quali era solito toccare il sacrosanto corpo di Cristo, strappò con rabbia gli occhi al suo figlioccio, e li gettò con disprezzo per terra.

Tutto questo avveniva al cospetto della virtù suprema; essa non permette che gli uomini siano privati del soccorso divino, ma sempre assiste coloro che l’invocano con sincerità, e rende giustizia a coloro che patiscono ingiuria. Coloro che erano presenti poterono vedere una candida colomba, o, come testimonia lo stesso autore del crimine, una gazza. Questa gazza, o colomba che fosse, in quel preciso momento raccolse da terra gli occhi di quel poveretto, ancora intrisi di sangue fresco, e alzandosi al di sopra dei monti fu vista dirigersi verso Conques.

Non c’è da stupirsi se Dio affidò gli occhi a un’alata gazza, visto che un tempo nutrì Elia nel deserto per mezzo di corvi5. O forse, per volontà divina, arrivò un uccello di natura incerta, né gazza né colomba, ma che agli occhi di chi guardava aveva un aspetto ben definito: alcuni videro distintamente una colomba bianca, quell’altro una gazza bianca e nera. Infatti Dio si mostra terribile agli empi, mite ai giusti; gli innocenti, che di fronte a tanta scelleratezza piansero silenziosamente nella loro coscienza, videro chiaramente una figura candida; il colpevole vide qualcosa di confuso. Tuttavia, quando il sacrilego vide quella scena, cominciò a piangere profusamente per il pentimento. Uno dei suoi complici gli disse che quel pentimento ormai era inutile e troppo tardivo.

Una volta andatosene da lì, non volle celebrare la santa Messa, o a causa del crimine che aveva commesso, o, cosa più verosimile, per qualche altra occupazione profana.

Invece la madre di Geraldo, fortemente commossa per quel crimine a danno di un innocente, accolse Witberto in casa sua, e gli prestò amorevolmente tutte le cure necessarie, finché fu guarito. In quel periodo si faceva sempre accompagnare da lei, non perché gliel’avesse ordinato il padrone, ma al contrario per difendersi dalla sua cattiveria, poiché quello continuava ad inveire contro di lui, per fargli sentire ancor più forte nel cuore la ferita provocata dalla sua gelosia.

Una volta guarito, per un anno andò in giro a mendicare facendo il cantastorie, e così si guadagnava da vivere, tanto che, come riferiscono molti, non sentiva più la mancanza degli occhi; ne traeva infatti un buon profitto e una vita comoda.

Passò così un anno, e si avvicinava la festa della Santa. Era la vigilia, e mentre dormiva gli sembrò che gli stesse di fronte una ragazzina di indicibile eleganza, d’aspetto angelico e serenissimo. Il volto candido era asperso di rosa, tutto l’aspetto emanava una forza che superava ogni umana bellezza. La sua statura non era diversa da quella propria dell’età del suo martirio: una fanciulla non ancora adulta. La vesta era larghissima, tutta intessuta d’oro purissimo, bordata tutt’intorno di un ricchissimo ricamo. Le maniche, larghe fin quasi ai piedi, erano arricciate per tutta la loro estensione in sottilissime pieghe. Il velo che le cingeva il capo chiudendole i capelli brillava per due coppie di perle di sfolgorante bianchezza. La sua piccola statura non significa altro, a mio vedere, se non che al tempo della passione era giovane.

Le cose che a Witberto fu permesso di vedere, i caratteri del volto, e la bellezza dell’abito, non erano senza significato, e di per sé mostrano un miracolo. L’abbondanza dell’abito rispetto al corpo si può intendere come l’armatura o la protezione di una fede esuberante; lo splendore dell’oro rappresenta chiaramente l’illuminazione della grazia. Che cosa possono rappresentare le sottili pieghe delle maniche, se non la sottigliezza della divina sapienza? E a proposito delle quattro gemme che apparvero sulla parte principale del corpo, il capo, si tratta sicuramente delle quattro principali virtù: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza. Di queste Santa Fede ebbe la massima cognizione, e vivificata dallo Spirito Santo venerò con perfetto amore interiore anche le altre, che da queste derivano; per questo fu sommamente amata dall’altissimo, e non ignara del sommo bene, sacrificò spontaneamente sé stessa a Cristo nel sacro martirio. Rimane da illustrare la qualità del volto, che dal nostro informatore abbiamo appreso per prima, ma mettiamo al fondo della nostra esposizione, poiché è la somma e la conclusione di tutta la sua vita; essa, nel candore della pelle, significa la carità, che per il suo biancore sovrasta tutti i colori; e giustamente è stata indicata dal nostro informatore prima del colore rosso, poiché non si arriva alla grazia del martirio se non per l’eccellenza della carità. E questa virtù fu incorruttibilmente propria di Santa Fede, in questo sommamente cara e grata a Dio, quando chiese con insistenza una morte precoce per il suo amore.

Ma torniamo dov’eravamo rimasti. Questa beatissima, appoggiata ai piedi del letto, sfiorò leggermente con la mano la guancia destra del dormiente, e gli disse: Dormi, Witberto? E lui: Chi sei tu che mi chiami? Lei rispose: Sono santa Fede. E lui: E per qual motivo sei venuta da me? E lei rispose: Solo per vederti. Witberto cominciava a ringraziarla, e Santa Fede gli chiese: Mi conosci? E lui, riconoscendola come se l’avesse vista solo in quel momento, le rispose: Ti vedo bene, Signora6, e ti riconosco benissimo.Allora dimmi come stai, e come vanno i tuoi affari. E lui rispose: La fortuna mi è favorevolissima, e per grazia di Dio tutti i miei affari vanno molto bene. E lei: E come puoi dire che vanno bene, dal momento che non vedi la luce del cielo?

Allora lui capì che, come accade nei sogni, quello che gli sembrava di vedere non era la realtà; ed alla fine di queste domande, si ricordò della perdita degli occhi. E come potrei vedere, se un anno fa, nel giorno della tua festa, ho perso gli occhi per la violenza di un padrone ingiusto? E lei: Il colpevole di questa grave mutilazione ha troppo offeso Dio, ed ha suscitato l’ira del sommo creatore. Ma se tu domani mattina, che sarà la vigilia del mio martirio, andrai a Conques, comprerai due candele e le porrai, una di fronte all’altare del santissimo Salvatore7, l’altra davanti all’altare dove è sepolto il mio corpo mortale, meriterai di riavere per intero i tuoi occhi; per l’offesa che ti è stata fatta ho suscitato con grandi preghiere la misericordia del giudice celeste, e ho tanto insistito presso Dio in favore della tua salute che mi è stata data la facoltà di realizzare quanto desiderato.

Dette queste cose, cominciò ad insistere affiché si sbrigasse; e poiché lui esitava a causa dell’alto prezzo della cera che doveva comprare, lei gli disse: Mille uomini, che non hai mai visto, ti faranno dei doni. E per poter fare facilmente quello che ti ho ordinato, domani al levar del sole andrai alla chiesa della tua parrocchia, – questa si trovava vicino al luogo dove aveva perso gli occhi, che anticamente si chiamava Spariacus8 – e lì, durante messa, troverai chi ti darà sei denari9.

Poi quella virtù cleleste se ne andò, lasciandolo che ancora ripeteva i suoi ringraziamenti.

Al risveglio Witberto se ne andò immediatamente in chiesa, dove raccontò a tutti quella visione; ma quelli pensavano che delirasse. Mentre lui, in mezzo a quella gran folla, chiedeva insistentemente ad ognuno dodici denari in prestito, alla fine un certo Ugo aprì la sua borsa e gli porse sei monete più un obolo: una somma superiore a quella promessa nel sogno. Allora lui capì che quella visione gli annunciava l’avverarsi della promessa. Che dire di più? Va in chiesa, racconta la visione ai monaci, compra le candele, le mette sugli altari. Quindi si stende di fronte all’immagine d’oro della martire.

Verso mezzanotte gli sembrò di vedere due cose tonde, non più grandi delle bacche dell’alloro, splendenti, che scendevano dall’alto e si infilavano nelle cavità degli occhi. Con la testa stordita da quello splendore, cadde in un sonno agitato. Al mattino, mentre si celebravano le laudi, fu svegliato dai canti e dalle voci degli oranti, e gli sembrò di vedere come delle ombre di uomini che si muovevano fra il chiarore dei lumi.

Provava un forte mal di testa, e quasi smarrito non si rendeva conto della realtà, pensando che quello fosse un sogno. Poco per volta tornò in sé, e cominciò a discernere più chiaramente le forme, e mentre ripensava a quella visione toccandosi con le mani sentì che le finestre della luce si erano nuovamente riempite di vive pupille. E subito chiamò i presenti a testimoni, e cominciò a esprimere grandi lodi per l’immensa magnificenza di Cristo. E fu un ineffabile gioia, un’inaudita letizia, un incredibile stupore, un domandarsi se quello che vedevano era un sogno o un vero e inaudito miracolo; e questo soprattutto per quelli che già lo conoscevano.

A questo punto si verificò un un fatto veramente ridicolo. Poiché era un uomo veramente semplice, gli venne un improvviso timore: se fosse stato presente alla funzione quel Geraldo che gli aveva strappato gli occhi, e gli fosse capitato di fronte, avrebbe chiamato a sé un maggior numero di servitori e gli avrebbe nuovamente strappato gli occhi. Quindi scappò subito cercando di confondersi tra la folla. Poiché la sua vista non era ancora pienamente ristabilita, ed era ancora pieno di confusione, mentre si muoveva in mezzo alla folla che accorreva alla chiesa, anche se ormai era giorno fatto andò a urtare contro un asino. Allora gridò forte: Ehi tu, idiota, chiunque tu sia, porta via quell’asino, che va addosso alla gente!

Poi, rendendosi conto di quel che gli stava capitando, se ne andò presso un cavaliere di sua conoscenza che aveva un castello10 ben difeso da ogni parte e inaccessibile in cima ad una rupe, lontano da Conques non più di sedici miglia.

Dopo essersi rifugiato lì per qualche tempo, alla fine i monaci riuscirono a rassicurarlo, e lo fecero tornare. Allora moltissimi, sia di quelle terre, sia provenienti da lontano, accorsero per vederlo, avendo saputo del miracolo, e dopo essersi rallegrati con lui si congedavano facendogli dei doni. E così si avveravano le parole di Santa Fede: Mille uomini, che non hai mai conosciuto, ti faranno dei doni poiché secondo lo stile della Scrittura si usa un numero finito per indicare una grandezza indefinita.

Poi, per renderlo più famoso11, e tenerlo sul posto, l’abate Arlaldo di buona memoria, da tempo defunto12, con l’accordo dei fratelli, gli diede l’incarico della vendita al minuto della cera, di cui per grazia di Dio nel monastero c’era grande abbondanza. Per cui si arricchì notevolmente, e com’è nella natura umana, cominciò a inorgoglirsi. Si prese una donna di suo gusto, e dimenticò del tutto il miracolo che aveva ricevuto. Ma subito fu colpito dalla giustizia della santa, che lo accecò da un occhio, senza però strappargielo del tutto, in modo da convincerlo alla penitenza; dopo di che gli ridiede la vista. Ma poiché un’altra volta, e un’altra ancora, tornava al solito peccato, meritò la punizione divina; ogni volta perdeva la vista di un occhio, e dopo la penitenza la recuperava. E non possiamo dire quante volte ciò sia capitato, e quante volte si sia ripetuto il miracolo, per non cadere nel difetto della lungaggine.

Alla fine, poiché continuava a ricadere nel peccato, perse la vista di entrambi gli occhi. Per fare una più completa penitenza dei suoi peccati, si tagliò la barba, si fece la tonsura sul capo, e si diede alla vita religiosa. Per quanto fosse del tutto ignorante ed analfabeta, si affidò alla misericordia divina tanto da meritare di riavere la vista. Eppure, dopo tante macerazioni di penitenza, non riusciva a resistere all’impulso della libidine, tanto da ricadere nell’usuale lordura, senza tuttavia subire una punizione corporale.

Ora questo vecchio, ricondotto per la sua vita sregolata alla condizione più vile e miserabile, vive dell’elemosina dei monaci; riceve ogni sera quel tanto che gli basta per placare la fame, ed è libero da ogni fastidiosa tentazione.

Chiamo a testimone la divina Provvidenza, che ciò che ho scritto corrisponde alla verità, avendolo saputo dalla viva voce dello stesso Witberto; non vi ho aggiunto nulla per abbellire la storia, perché so che non potrei sfuggire al castigo se pensassi che si compiaccia di lodi mendaci l’amata da Dio e sua eterna amica Fede, che proprio per amore di Cristo che è la Verità fu condannata al martirio.

Moltissimi, che sono considerati degni di fede, hanno narrato con grandissima cura cose prodigiose, avvenute molto tempo prima, accontentandosi di un solo informatore, che non era presente ai fatti. Perché dunque io dovrei venir meno al mio dovere di letterato, di tramandare un fatto che è avvenuto ai miei tempi, che vedo con i miei occhi, di cui possono rendere testimonianza inconfutabile l’Alvernia, il Rouergue e la provincia di Tolosa e i popoli di quelle regioni, soprattutto se è la trascuratezza degli altri scrittori a costringermi quasi con violenza a affrontare una materia così insidiosa e così ardua, pur essendo un autore così modesto?

In questa terra sono così rari quelli che sanno scrivere, non so se per pigrizia o per inettitudine alla scrittura; infatti molti si vantano di professare quell’arte, ma nei fatti molto raramente si fanno avanti; così o trascurano deliberatamente questo compito, oppure si mostrano ingrati verso l’ingegno di cui sono dotati. Perciò ho deciso di correre il rischio di apparire audace, piuttosto di rendermi colpevole di negligenza.

Mi sforzo di scrivere con rispetto della verità di fatti recenti; se questo compito fosse rimandato alla posterità, non si potrebbe fare senza incorrere nell’accusa di menzogna o di offesa alla verità. Questa vicenda non può essere messa in dubbio da alcuno, poiché Witberto fu guarito dalla divina misericordia dopo essere stato privo degli occhi per un anno intero; e per il suo mestiere di giullare la sua cecità era nota a tantissime persone, ed a tante persone apparve evidente la sua guarigione. Questo miracolo non appare in nulla inferiore a quello che leggiamo nel Vangelo del cieco nato; anzi, perfin più stupefacente; come disse lo stesso Cristo, che è Verità, quando promise ai suoi seguaci che avrebbero fatto cose ancora più grandi di quelle che aveva fatto lui, dicendo: Chi crede in me, farà le stesse cose che io faccio, ed anche più grandi, poiché io vado al Padre13.

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1. Il nome compare nel ms. Sélestat nella forma Uuitbertus, talvolta Witbertus (nella grafia antica non si fa differenza la u e la v, e la W sembra essere solo una legatura grafica delle due lettere). In francese il nome viene abitualmente tradotto come Guibert, in italiano dovrebbe essere Ghiberto, Giberto, Guiberto (L. Robertini). Nell’incertezza io ho preferito mantenere una forma più simile all’originale.
Witberto era consanguineus di Geraldo; il termine all’epoca indicava una parentela molto stretta: L. Robertini traduce “fratellastro”. Torna al testo ↑

2. Witberto era vernaculus, termine che nel latino classico significa “schiavo nato in casa”. Qui indica, oltre ad un rapporto di dipendenza, una frequentazione abituale e famigliare. Torna al testo ↑

3. Romeus in origine indicava colui che aveva compiuto il pellegrinaggio a Roma, poi il termine viene esteso a tutti i pellegrini, anche quelli, come in questo caso, che frequentano un santuario a non grande distanza. Torna al testo ↑

4. Il latino di Bernardo è molto più brutale: ... huius mali causa de suspicione constuprande mulieris fuerat exorta. Torna al testo ↑

5. 3 Reg. 17, 4-6. Torna al testo ↑

6. Hera “Signora” è il termine con cui solitamente viene appellata la santa. Il lat. erus -a nel Medioevo acquista un’h per un errato accostamento a heres “erede”. Torna al testo ↑

7. La chiesa di Conques era originariamente intitolata al Santissimo Salvatore, ed a quel titolo era consacrato l’altar maggiore. Con la realizzazione della tomba di Santa Fede in una cappella laterale, la chiesa cominciò ad essere comunemente chiamata Chiesa di Santa Fede. Torna al testo ↑

8. Comune di Espeyrac, a una dozzina di km circa ad ovest di Conques (qui e di seguito per la misura delle distanze ho preso come riferimento i percorsi a piedi di Google Maps; sono quindi indicazioni approssimative, rispetto alla situazione dell’epoca). Torna al testo ↑

9. Nel sistema monetario carolingio la moneta di riferimento era il denarius, corrispondente a 1/240 di libra (409 g) d’argento. Già dall’età merovingia circolava nel commercio spicciolo una moneta più piccola, la mallia o medalla (fr. maille), chiamata anche comunemente obolus, del valore approssimativo di mezzo denaro. Questo forse spiega perché Witberto, avendo ricevuto l’ordine di chiedere 6 “denari”, cerchi di farsene dare 12: la Santa ha espresso il prezzo con l’indicazione del valore ufficiale, ma la gente comune usava più frequentemente il valore divisionale. Witberto ha quindi ricevuto la somma di 6 denari e mezzo.
È però possibile che qui come in altri punti analoghi il testo sia corrotto. Torna al testo ↑

10. Qui come altrove il lat. municipium ha il significato di Castrum, castellum muris cinctum (Du Cange, Lexicon mediae et infimae latinitatis). Torna al testo ↑

11. La vicenda di Witberto consacrò la fama del monastero di Santa Fede, facendone un grande centro di pellegrinaggio. Molti pellegrini andavano a Conques espressamente per conoscere Witberto; uno di questi è il protagonista di I, 2. Torna al testo ↑

12. Bernardo colloca la vicenda di Witberto “sei lustri” prima del suo primo viaggio a Conques (I, 2). Siamo quindi poco dopo il 980.
Arlardo II fu abate sotto Begone II, ai tempi di Ugo Capeto (Gustave Desjardins, Essai sur le cartulaire de l’abbaye de Sainte-Foi de Conques). Torna al testo ↑

13. Gio. xiv, 12. Torna al testo ↑