Libro dei Miracoli
di Santa Fede
Trad. Maurizio Pistone

Libro I

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26

Con quanto coraggio il monaco Gimone muoveva contro i nemici di Santa Fede

Vogliamo ora aggiungere qualcosa alla narrazione ddi quei miracoli che gli abitanti del posto, con la loro popolaresca semplicità, chiamano “scherzi” di Santa Fede.

Si tratta di eventi così straordinari, molto di più di quelli che abbiamo già narrato, da sembrare incredibili; eppure nulla è più vero, fra tutte le imprese operate dalla forza della santità. So benissimo che questo che mi appresto a dire non piacerà ai lettori che sono prevenuti, e che non perdono occasione per distorcere e denigrare; ma nella rivelazione di verità certe, come è sacrilego indulgere nell’adulazione, altrettanto è ignobile cedere all’ostilità. Un cristiano non pensi che un cristiano, quale sono io, possa inorgoglirsi delle lodi, o abbatersi per le critiche; né esagerare, né sminuire la verità. Potrò mai conservare la salvezza dell’anima distorcendo il verbo divino, o ingannare le menti degli uomini spacciando per verità le menzogne?

Molti, che conobbero personalmente il monaco e priore Gimone1, mi hanno narrato di lui cose mirabili e inaudite. Egli finché era nel mondo mostrò coraggio e ardimento, qualità che non abbandonò entrando in monastero, ma usò per combattere gli assalti dei malfattori. Nel dormitorio, accanto agli indumenti soliti del monaco, conservava ai piedi del letto la corazza, l’elmo, la lancia, la spada ed ogni armamento guerresco, tutto collocato in ordine e pronto all’uso; e nella scuderia teneva pronto il suo cavallo da combattimento. Se si presentava un qualche pericolo di aggressione egli assumeva subito il compito di difensore, e guidava in combattimento una schiera di armati; incoraggiava gli indecisi promettendo o il premio della vittoria o la gloria del martirio. Egli sosteneva che è compito assai più meritorio sconfiggere i falsi cristiani2, i quali contrastando la legge divina abbandonavano consapevolmente Dio, piuttosto che combattere gli stessi pagani, i quali non hanno mai conosciuto Dio. E aggiungeva che chi vuol essere degno del favore divino, non può mostrarsi debole, rinunciando a combattere con coraggio contro malvagi aggressori, nascondendo sotto il pretesto della pazienza il vizio della codardia.

Molti, temendo di trovarselo di fronte, indietreggiavano prima ancora che si attaccasse battaglia; in altri casi gli aggressori, convinti di avere forze sufficienti, perseveravano nella loro orgogliosa ribellione, ma grazie alla costante assistenza di santa Fede venivano ugualmente battuti da un numero inferiore di difensori. Talvolta la violenza dell’attacco era tale, che per la naturale debolezza dell’anima umana la più piccola schiera dei difensori del bene si perdeva di coraggio. Allora lui stesso si portava con grandissima fede alla sacro sepolcro della martire, e rimproverava santa Fede con toni propri del popolo3 poiché aveva con lei una tale dimestichezza da non temere mai di essere ignorato. Arrivava al punto di minacciare di percuotere la statua e di gettarla nel fiume o nel pozzo, se santa Fede non avesse subito castigato i nemici. Eppure mentre proferiva quelle parola minacciose, non cessava di rivolgerle preghiere di invocazione.

E tuttavia io credo che Dio approvasse questo modo di fare, né gli imputasse a peccato queste dure parole, poiché in tutte le altre cose era la sua mente era piena di sincerità e di virtù. Infatti Dio non giudica dalle parole, ma dalla volontà e dalle opere. Come le parole dolci non giustificano l’ipocrita, così le parole rudi non condannano chi veramente opera giustizia. Questo giudizio sembra concordare con il passo del Vangelo relativo al padre che non ricompensa il figlio che a parole ubbidisce, ma non fa corrispondere i fatti alle parole; ma ricompensa quello che risponde con parole disubbidienti e aspre, ma si affretta a eseguire i comandi paterni4. E per condannare le finte lusinghe, così dice il Signore: Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio5.

Non penso quindi che Gimone debba essere incolpato per questi discorsi; a quanto viene tramandato, la sua vita era in tutto e per tutto irreprensibile, a parte i suoi interventi in armi nei conflitti; ma a ben vedere, questo si può considerare assai più un suo merito che una violazione della regola. Non lo si deve giudicare per altro, se non per l’intenzione che guidava la sua azione. È meglio che il monaco pigro abbandoni la sua inerzia, e si dia da fare con energia per il bene del monastero, invece di mantenere un atteggiamento esteriore di osservanza dei suoi doveri, lasciando così che l’iniquità venga insidiosamente a insinuarsi. Infatti vi sono degli anticristi che non hanno altro scopo nella vita se non negare la verità e opporsi a tutto ciò che c’è di buono. Essi saccheggiano i beni dei santi, deridono gli interdetti vescovili, considerano il diritto dei monaci come sterco, maledicono con protervia degna dei filistei la schiera dei seguaci del Dio vivente. Se l’onnipotenza vendicatrice di Dio, per mano di qualcuno dei sui servi, farà strage di alcuni di loro, qualunque sia la loro condizione, ciò non si potrà ascrivere a crimine6. Non leggiamo forse che il santo Mercurio, dopo il suo martirio, trafisse con un colpo di lancia l’imperatore Giuliano per punirlo della sua apostasia7? Colui che fece tornare san Mercurio dalla morte per colpire un suo nemico, potrà ben aver armato la mano di Gimone per la difesa della sua Chiesa. Dio non potrà vietare che per mano di un uomo vivo avvenga ciò che un tempo si degnò di fare per mano di un morto. Io penso che a Gimone sia toccata la stessa penitenza che toccò a Davide per l’uccisione del filisteo. Non sarà considerato omicida colui che il Signore Sabaoth, re degli eserciti e delle virtù, scelse come difensore angelico della sua famiglia. Così come il profeta non può predire nulla che Dio non gli abbia messo in bocca, costui non poté far altro se non quello che lo spirito di virtù gli ispirò nel cuore. Il buon sostenitore e difensore dei buoni fu tanto zelante nel difendere la causa di Dio, quanto fu sdegnato verso i figli di Belial8.

E nessuno può dubitare che la sua forza fosse sotto lo sguardo compiaciuto di Dio. Infatti quando il partito dei malvagi stava per prevalere contro di lui, subito correndo al presidio della preghiera meritava d’essere esasudito dal cielo. Un po’con i rimproveri, un po’ con le suppliche, strappava l’aiuto divino, ed otteneva che Dio compensasse la debolezza degli uomini. E si dice che in quei tempi molti di questi malfattori siano morti per diversi incidenti. Alcuni si sono gettati da delle rupi, altri si sono soffocati col cibo, altri si sono tolti di propria mano la vita; per chiunque arrivasse il momento del giudizio, non c’era scampo alla morte9.

Egli inoltre, oltre a governare il monastero, in modo che l’obbedienza venisse rispettata, era custode del santuario. In quel tempo il luogo era del tutto isolato, e non c’era ancora quel grande afflusso di pellegrini. Non c’era gran sfolgorio di luci, ma una sola candela illuminava l’altar maggiore. Spesso, quando questa si spegneva, lui si alzava e andava a riaccenderla. E quando stanco per le continue incombenze e per le quotidiane preghiere cedeva al sonno, sentiva una mano leggera che gli sfiorava la guancia, e una voce dolce gli diceva di riaccendere la luce. Subito sveglio, si alzava con decisione, ma non era ancora arrivato al candelabro né aveva toccato la candela, e questa la candela, che prima sembrava spenta, immediatamente per volontà del cielo si riaccendeva. E talvolta la portava verso il focolare, ma prima ancora che potesse accostarla ai carboni ardenti, per volontà divina la lucerna gli brillava fra le mani. E di nuovo, quando tornava al suo letto per avere un po’ di riposo, quella visione si ripeteva tre o quattro volte, quasi per burlarlo. Ed ogni volta il vecchio era costretto ad alzarsi con fatica dal letto per correre alla candela, finché pieno di sdegno, siccome era una testa calda10, si rivolgeva a Santa Fede accusandola di prenderlo in giro e di farlo arrabbiare; ed anzi, per il nome illustre della famiglia da cui traeva origine, la rimbrottava aspramente. Così li miracolo cessava, e lui tornava a letto.

Ma spessissimo in quei casi persisteva nella preghiera, e passava insonne tutta la notte. Persisteva in questo raccoglimento con tale costanza, che quasi univa il giorno alla notte con un continuo mormorio. In certe notti, mentre vegliava di guardia al monastero, sentiva le amine d’oro della statua che vibravano con tintinnanti scricchiolii. Egli interpretava quel suono come un messaggio divino, e subito correva al lume.

Gli era per il resto famigliare questa frequentazione sovrumana, che lo metteva in diversi modi in contatto con il divino. Non c’è da meravigliarsi se fosse da tutti considerato degno di questi speciali favori, poiché in lui non c’era nessuna impurità, né corporale, né spirituale; era sempre pronto ad addossarsi qualunque incombenza per l’utilità comune, non era secondo a nessuno nella virtù dell’obbedienza. La sua ira, era quale prescrive la Scrittura: Montate in ira, ma non peccate11.

E veramente si può capire quanto superasse tutti nelle sue virtù, dal fatto che non certo per erudizione letteraria, ma per fortezza d’animo superava non solo gli altri monaci, ma lo stesso abate12, e li teneva sotto la propria disciplina.

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1. Non abbiamo altre notizie di questo monaco guerriero, che è difficile da inquadrare storicamente. Poiché si parla di un’epoca in cui il monastero non era ancora molto affollato, la narrazione dovrebbe essere collocata prima del miracolo di Witberto, e Gimone era quindi già senex prima del 980. Siamo quindi durante il lungo abbaziato di Stefano (942-984). Torna al testo ↑

2. Si allude qui ai violenti conflitti che hanno contrapposto Conques agli altri poteri secolari e religiosi dell’epoca, mentre era ancora in corso lo scontro con il monastero di Figeac; conflitti che sicuramente hanno avuto un riflesso nella vita interna della comunità di Conques. Torna al testo ↑

3. ... vulgari more... “in modo volgare” credo che indichi sia la rozzezza dei modi, sia l’uso della lingua parlata. Torna al testo ↑

4. Matt. 21, 28-30. Torna al testo ↑

5. Mt 7, 21 Torna al testo ↑

6. Una così violenta invettiva fa pensare che Bernardo rievochi qui esperienze personali. Torna al testo ↑

7. In una Vita siriaca di Eusebio di Samosata (V sec.) l’uccisione di Giuliano è attribuita a San Ciro, uno dei cinquanta Martiri di Sebaste († 320). L’espressione Mâr Qûrios (San Ciro) fu poi letta erroneamente come Mercurio, identificato con Mercurio di Cesarea in Cappadocia († 250 ca.) (L. Robertini). Torna al testo ↑

8. Belial dall’ebraico בליעל bəliyyáʻal, “senza valore”, era probabilmente, più che un nome proprio, un termine generico per indicare individui spregevoli.
L’espressione “figli di Belial” compare in 1 Sam. 10, 27 וּבְנֵ֧י בְלִיַּ֣עַל , dove i LXX traducono υἱοὶ λοιμοὶ “figli pestilenziali”, la Vulgata Filii... Belial e la Bibbia di Gerusalemme “individui spregevoli”.
In 2 Cor. 6, 15 abbiamo “Quale intesa tra Cristo e Beliar, o quale collaborazione tra un fedele e un infedele?”, in greco τίς δὲ συμφώνησις Χριστοῦ πρὸς Βελιάρ, ἢ τίς μερὶς πιστῷ μετὰ ἀπίστου;  Vulgata quæ autem conventio Christi ad Belial? aut quæ pars fideli cum infideli? Torna al testo ↑

9. È il tema, più volte ripreso nel Libro, delle terrificanti punizioni toccate ai nemici del monastero. Torna al testo ↑

1. “Siccome era una testa calda”: ut erat fervidi ingenii.
Il testo che segue: et insuper patrio nomine unde genus ducebat illi exprobraret, è un passo che ha dato del filo da torcere ai traduttori.
A. Bouillet, Louis Servières 1900 (e 1994): il exhalait son naïf emportement dans l’idiome de son pays natal.
P. Sheinghorn 1995: He scolded her and called her names in his native tongue.
L. Robertini 2010: e la insultava, lanciando ingiurie contro il padre, da cui era nata.
Io considero patrio nomine come complemento di causa, e Gimone soggetto di ducebat. Torna al testo ↑

11. Salmi 4, 5. La Bibbia di Gerusalemme ha “tremate”, altre traduzioni italiane “fremete”. Ebraico (Interlinear) רִגְז֗וּ riḡ·zū “be angry” , LXX ὀργίζεσθε “sdegnatevi, montate in collera”, Vulgata irascimini. Torna al testo ↑

12. Non è indicato qui l’abate che Gimone teneva sottomesso a sé; non era certamente Stefano, che era anche vescovo di Clermont; molto probabilmente un qualche abate secundum regulam di cui non ci è arrivata notizia. Torna al testo ↑